Caminito que el tiempo ha borrado
Que juntos un día nos viste pasar
He venido por última vez
He venido a contarte mi mal
L’Argentina è un paese molto fiero e orgoglioso delle sue tradizioni.
Spesso, nella meravigliosa regione che è l’America Latina, tale fierezza e orgoglio sono associate ad “arroganza”. Nel rivendicare i loro successi e le loro conquiste gli argentini sono soliti collegare tali traguardi a pezzi della loro cultura, e a volte queste associazioni vanno “oltre”: le continue dispute con i vicini di casa dell’Uruguay sull'origine del tango o del dulce de leche o con il Brasile su “chi-è-meglio-tra-Maradona-e-Pelé” testimoniano un desiderio interiore di predominio.
Se si ha la fortuna di conoscere da vicino quell’ambiente e quella cultura, è impossibile non rimanere affascinati dall’abilità rioplatense di associare certi personaggi e certi avvenimenti alle letras dei Tango più celeberrimi. Questo perché il Tango non è soltanto un ballo che sprigiona una tensione sessuale unica al mondo: è, soprattutto, l’espressione di un sentimento fortissimo, spesso d’amore.
I versi con cui Carlos Gardel inizia il suo Caminito sono quelli di qualcuno che si guarda indietro, al suo passato, alla fine di un percorso. Per Emanuel David Ginobili non è ancora l’ora di percorrere il suo Caminito, ma possiamo farlo noi per lui, per ripercorrere una meravigliosa storia di sport che scriverà, nei prossimi 12 mesi, il suo ultimo capitolo.
Estudiante (del gioco)
di Ennio Terrasi Borghesan
“La prima cosa che noti immediatamente
è l'energia con cui gioca Manu.
Sacrifica il suo corpo per aiutare la squadra a vincere”
Brent Barry
Manu Ginobili è, insieme a Bill Bradley, l’unico giocatore della storia ad aver vinto il titolo NBA, l’Eurolega e l’oro Olimpico: i tre pezzi più pregiati di un palmarés da Hall of Famer. Ciò che però affascina è stata la sua capacità, nel corso della carriera, di sapersi rialzare dalle sconfitte più dolorose - perché è quello che marca la differenza tra un ottimo giocatore e un campione.
Nel tracciare la traiettoria del suo Caminito possiamo individuare sette tappe, sette “frame” narrativi che esemplificano sia la capacità innata di Manu di sapersi rialzare da una sconfitta sia la sua evoluzione tecnica che l’ha portato ad essere uno dei giocatori International più forti di sempre.
Bel Paese
La prima tappa parte da Bologna, secondo teatro italico del narigón dopo Reggio Calabria, il vero trampolino di lancio verso la sua carriera NBA. Più che dal magnifico Triplete che la Virtus colse nel 2001, parte dal 2002, l’ultima stagione di Manu in Italia, l’annata in cui Bologna provò a centrare il back-to-back europeo. L’occasione era imperdibile anche alla luce della Final Four ospitata in casa, al PalaMalaguti.
In realtà finì così, con Dejan Bodiroga a festeggiare insieme al suo Panathinaikos
La Virtus quell’anno riuscì a rivincere soltanto la Coppa Italia, con Ginobili che a 25 anni decise di prendere il volo verso gli Stati Uniti e i San Antonio Spurs, che l’avevano scelto tre anni prima al Draft con la penultima scelta, la numero 57.
Rookie a suo modo
Il suo impatto nell’oliata macchina texana fu crescente con l’avanzare della stagione, prevalentemente da 6° uomo, in particolare dopo aver passato il tradizionale rookie wall invernale.
La grafica di ChartSide che raffigura la prima stagione di Manu: l’affidabilità dall’arco e dall’angolo sarà una costante che ritroveremo più in avanti nell’analisi della sua carriera.
Il suo spazio aumentò nella Postseason, dove con il sorprendente Speedy Claxton rappresentava l’alternativa più costante e solida per portare brio e freschezza all’attacco Spurs e al collaudato quintetto formato da Parker, Jackson, Bowen, Duncan e Robinson. Quella stagione rappresentò il primo riscatto, poiché arrivò il titolo NBA un anno dopo aver perso l’Eurolega e la finale dei Mondiali - con la sensazione che a 26 anni il meglio, per lui, dovesse ancora venire.
Non è da tutti giocare quasi 30’ di media, da rookie, in una Finale NBA. Ancor di più non lo è il farlo in quel modo.
La prima delusione NBA
Il secondo anno, quindi, rappresentò per lui la possibilità di andare alla ricerca di quel back-to-back riuscito a poche squadre nella storia NBA, requisito per trasformarsi da storia a leggenda. Manu, anche nei numeri, ebbe un rendimento migliore da 6° uomo (43.5% al tiro e soprattutto 41.7% da tre) piuttosto che da titolare, ma la sua stagione seguì l’onda dell’annata precedente: minutaggio e responsabilità crescenti con l’avanzare della posta in palio. L’entrata nella leggenda, però, fu solo posticipata. Perché, a sbarrare la strada, ci si mise il più improbabile dei tiri.
Ginobili fu diretto testimone di quella giocata - perché Manu c’è sempre stato in tutti i momenti iconici, positivi e negativi, delle ultime 13 stagioni degli Spurs.
MVP romantico
Dopo la delusione del 2004 venne la volta della stagione 2004-2005, quella della definitiva affermazione. La prima stagione da “starter”. Il primo All-Star Game. I favolosi 48 punti contro Phoenix. Ma il meglio doveva ancora venire.
La stagione del secondo titolo fu la consacrazione di Ginobili, che si affermò come attaccante di primissimo ordine specialmente dal suo lato forte (il sinistro) e alternando il suo gioco tra l’arco dei tre punti e il pitturato (fu 6° nella lega per percentuale “reale”). Praticamente Harden prima di Harden, ma di fianco ad altri Hall of Famer.
Il meglio, quell’anno, furono i playoff. La complicata serie di primo turno coi Nuggets. La semifinale contro Seattle. La finale di conference coi Suns. Ancor di più, la finale con i Pistons, dove solo due brutte prestazioni in Gara-3 e Gara-4 lo privarono di un più che probabile MVP delle Finali. Una serie impreziosita da una Gara-2 da 27 punti con 8 tiri dal campo, dal difficile assist per la tripla decisiva di Horry in Gara-5, da un impatto nelle vittorie degli Spurs che andava ben oltre le semplici statistiche. Come dimostrò in Gara-7.
“È un’investitura”
L’errore più grave
Il titolo del 2005 consacrò il posto, già conquistato grazie agli anni precedenti, di Manu Ginobili nell’Olimpo del Basket Mondiale. Per la leggenda mancava la conferma, quel back-to-back sfuggito soprattutto per via del canestro impossibile di Derek Fisher. Ripetersi era l’obiettivo della stagione 2005-06, quella di una sua conferma ad alti livelli anche come difensore d’élite (sesto nella lega per Defensive Rating). Anche lì, però, la strada divenne impervia per il valore di un avversario assoluto come i Dallas Mavericks. Una meravigliosa serie finita a Gara-7 ma, ancora una volta, l’happy ending venne a mancare.
Ultimo minuto di gioco, Spurs sopra di 3 grazie a una bomba di Manu. Nowitzki in post si libera di Bowen, segna e subisce il fallo proprio di Ginobili, che concede gratuitamente il pareggio a 21 secondi dalla fine. Al supplementare avrebbero poi vinto i Mavs.
Dallas poi perse una delle più rocambolesche finali di sempre contro i Miami Heat, ma anche alla luce della Regular Season 2006-07 - in cui i Mavs vinsero 67 partite - sembrava che le gerarchie della Western Conference si fossero definitivamente ribaltate. Ma il bello dell’NBA è che nulla è scritto a priori.
Tre in cinque anni
Passato, non senza polemiche, il durissimo ostacolo rappresentato dai Phoenix Suns, la personale ennesima redemption di Ginobili si completò con la Gara-4 che sancì lo sweep che San Antonio rifilò agli esordienti Cleveland Cavaliers di LeBron James. Era il terzo titolo in cinque anni. Se non è leggenda questa, ci siamo incredibilmente vicini.
Osservando l’annata del terzo titolo è facile intuire come lo studio del gioco, da parte di Manu, sia arrivato al suo massimo: una più saggia gestione del fisico sposta il suo baricentro, rendendolo più “letale” dall’arco dei 7.25, con una efficienza da élite del gioco.
Quella Gara-4 inaugurò il periodo della “maturità”: Ginobili tornò a partire dalla panchina e si affermò come sesto uomo di lusso, poi riconosciuto anche dal premio vinto nel 2007-08, mantenendosi però ad alti livelli (fu inserito nel terzo quintetto All-NBA sia nel 2008 che nel 2011) nonostante il fisico stesse andando via via logorandosi (saltò per infortunio 38 partite più i playoff nel 2008-09).
San Antonio, però, continuava a sciorinare regular season di ottimo livello - senza mai andare sotto le 50 vittorie, nemmeno nella stagione del lockout - ma senza convincere ai playoff: si tratta, infatti, del pieno del periodo di rinnovamento tecnico, accentuato dall’annata 2010-11 dove gli Spurs furono sorprendentemente eliminati al primo turno dai Memphis Grizzlies pur avendo il miglior record della conference.
L’ultima stagione da “starter” (e da All-Star) di Ginobili è relativamente atipica nella misura in cui il baricentro torna ad essere più interno, con l’efficienza sul lato forte che viene leggermente a mancare nelle zone migliori negli anni dei titoli. Incide, anche, il lento cambio della morfologia tattica degli Spurs, che sviluppano il loro gioco per allungare la carriera dei loro “Big Three”.
Maturità
Dopo aver vinto tre serie di playoff in quattro stagioni, San Antonio riuscì a tornare in Finale di Conference nel 2011-12, sulla spinta di ben 20 vittorie consecutive tra la fine della regular season e l’inizio dei playoff. A differenza di Jazz e Clippers, gli Oklahoma City Thunder furono però in grado di reagire dopo essere andati sotto 0-2 e Gara-5 di finale di conference si trasformò in una gara decisiva.
Come di consueto, quando Popovich sente la posta alzarsi, Manu viene spostato in quintetto. Questa fu forse l’ultima grandissima prestazione di Ginobili ai Playoff. E fu vanificata da questo, nonostante il tentativo di raddoppio di Manu quando Harden stava controllando il cronometro.
L’anno dopo gli Spurs furono comunque in grado di riprendersi, perché è questo che fanno i grandi campioni. Grazie anche all’ottimo impatto di Kawhi Leonard, l’abitudinale apporto di Manu ai playoff divenne distillato in piccole gocce, comunque determinanti. Nelle Finals contro Miami Ginobili non aveva ripetuto le prestazioni dell’anno precedente - anzi, aveva giocato proprio male - ma gli Spurs erano comunque sopra di 5 punti a pochi secondi dalla fine di Gara-6. Poi, però, successe quel che conosciamo tutti.
In quella occasione Manu non riuscì a catturare il rimbalzo decisivo, sovrastato dalle lunghe braccia di Chris Bosh.
A nessuno importò della positiva Gara-7 (18 punti): la delusione era fortissima e a molti sembrò che la sue fine sportiva fosse ormai sopraggiunta. Ma il suo caminito non poteva concludersi con una caduta. Emanuel David Ginobili meritava un altro momento di gloria.
La deludente Finale 2013 viene riscattata da una stagione da “classico” Ginobili: affidabile in maniera omogenea da qualsiasi posizione dall’arco, ne beneficia anche il suo gioco interno, viste anche le attenzioni che vengono riservate ai tiratori Spurs - Green, Mills, Belinelli - e alla forza emergente di Kawhi Leonard.
Momento che arrivò al termine di una stagione dove gli Spurs espressero una pallacanestro di livello altissimo, con un 36enne Ginobili rigenerato fisicamente (saltò solo 14 partite di Regular Season) e anche come impatto nei playoff: Gara-7 contro Dallas, Gara-5 contro i Thunder e la decisiva Gara-5 contro gli Heat appartengono alla “Manu Ginobili Greatest Hits” così come la poderosa schiacciata su Bosh può essere inquadrata come la perfetta risposta a quel rimbalzo perso e strappato proprio dal lungo degli Heat.
Il primo Ginobili dell’era Aldridge-Leonard non perde la sua natura: diminuiscono i volumi di tiro, specie dagli angoli, ma non l’efficienza. Sarà così anche nella sua ultima stagione, la prossima?
Il Caminito a stelle e strisce di Manu, prossimo alla sua ultima stagione, ci mostra un agonista in grado di rialzarsi sempre e comunque, andare oltre i suoi limiti fisici per migliorare e sfidare il tempo, studiando il gioco che ama. La sua energia misteriosa, capace di dare ritmo e brio anche a partite dominate, frutto probabilmente della sua grande passione per il Gioco, è un qualcosa che si riscontra anche, se non soprattutto, sul capitolo della sua storia che Manu Ginobili sente forse più vicino. Quel capitolo che si rinnova ogni volta che vuelve a casa, per giocare con la Seleccion Argentina.
Volver
Yo adivino el parpadeo
de las luces que a lo lejos
van marcando mi retorno.
Nara korobi ya oki. Fall Seven Times, Stand Up Eight. Un proverbio che può rappresentare un perfetto riassunto del Caminito di Ginobili. Cammino del quale ci rimane, da analizzare, la parte più sentimentale. Anche perché nemmeno il Ginobili “argentino” sfugge alla logica del rialzarsi, sempre e comunque.
Qui la forza interiore per riuscire ad affrontare le difficoltà parte dall’ormai lontano 2002 e dal Mondiale di Indianapolis: la Seleccion, dopo una storica vittoria nella fase eliminatoria contro Team USA, arrivò fino alla finale, persa al supplementare contro l’ultima grande Jugoslavia. Finale che vide Manu limitato a soli 12 minuti per effetto di un infortunio patito nella semifinale contro la Germania. Finale che fu vendicata con quella che Ginobili stesso definirebbe come la “rialzata” più bella.
La storica medaglia d’oro alle Olimpiadi di Atene, con la finale vinta contro l’Italia che arrivò dopo quella che forse è la più bella partita di sempre giocata da Manu, quella contro gli americani.
L’Argentina provò a ripetersi anche ai Mondiali 2006 in Giappone, ma il sogno di un incredibile back-to-back si interruppe nella semifinale con la Spagna, in cui Manu sbagliò il tiro del sorpasso. L’occasione di rilancio si presentò ai Giochi di Pechino ai quali l’Argentina, guidata dal portabandiera Ginobili, arrivò un po’ a fari spenti, ma la bella vittoria ai quarti contro la Grecia portò la squadra rioplatense in semifinale per la quarta manifestazione internazionale consecutiva. L’albiceleste vinse poi la medaglia di bronzo battendo la Lituania, ma Manu non completò l’ennesima redemption a causa di un infortunio nel primo quarto della semifinale contro Team USA che lo tenne fuori per il resto dei Giochi.
Quattro anni dopo, a Londra, l’Argentina tornò in semifinale, giocando anche per un tempo alla pari contro gli Stati Uniti, ma la medaglia di bronzo sfuggì nella finalina contro la Russia, in quella che sembrava fosse l’ultima partita di Ginobili con la maglia albiceleste. Sembrava, perché da venerdì 5 agosto Emanuel David Ginobili disputerà la sua quarta edizione dei Giochi Olimpici, all’età di 39 anni. Un traguardo incredibile, specie se si pensa che tra i cestisti solo Teofilo Cruz, Andrew Gaze e Oscar Schmidt ne han disputate di più.
A Rio sarà l’ultimo ballo della Generacion Dorada a cui l’Argentina arriva, ancora una volta, a fari spenti. Occhio, però: con Ginobili l’Argentina è sempre giunta almeno in semifinale mondiale o olimpica: voi ci scommettereste contro?
Il fuoco del Gioco
di Francesco Tonti
Adiós muchachos, compañeros de mi vida
barra querida, de aquellos tiempos.
Me toca a mí, hoy a emprender la retirada
debo alejarme de mi buena muchachada
Tracciare una traiettoria complessiva e analitica dell’impatto di Manu nel Gioco è difficile, perché non c'è posto al mondo più intrigante di un parquet incrociato quando Ginobili asseconda i suoi demoni. Demoni con la palla a spicchi, spiriti inquieti che in qualche modo infondono all'argentino quel fuoco, quell’agonismo, che lo caratterizza in ogni situazione.
Se ha ragione il mantra di Forrest Gump secondo il quale la vita è come una scatola di cioccolatini, per i suoi allenatori è l'equivalente di una confezione formato famiglia: anche loro, con Manu Ginobili, non sanno mai quello che gli capita. Non importa il contesto o lo scenario della battaglia cestistica che si trova ad affrontare: se riesce a rimanere in equilibrio l'anima sudamericana - creativa, estrosa, incosciente, mascalzone - e la travolgente quanto esasperata autodeterminazione - alla faccia dei banali formalismi abitudinari del gioco -, un ritmo travolgente e coinvolgente risuona intorno ai sensi di tutti gli appassionati. Un ritmo come quello dei Tango di Gardel. Magari con tantissimi errori dovuti alla foga o alle bizzarre traiettorie di penetrazione nel cuore dell'aerea, non importa: una giocata, o ancora meglio una serie di giocate, di Ginobili in trance agonistica sono inconfondibili.
Se necessario il tutto viene accompagnato da una carisma magnetico e una naturale capacità di leadership, oppure annegato con impeccabile "understatement" all'interno delle esigenze di squadra. Come un distributore pieno di cibarie che basterebbero tranquillamente per una legione intera, una riserva di risorse imponente, con una grande vetrina per il pubblico a cui potersi appoggiare per esaminare il rassicurante e invitante contenuto: Manu si trascina con travolgente disinvoltura un arsenale di fondamentali e istinti per il gioco che spesso non è a roster in oltre la metà della squadre della NBA.
Mascalzone latino.
Non sempre lo utilizza in modo efficace o vagamente convenzionale: spesso, per riuscire ad entrare nel suo ideale “mood” di gioco completamente separato da quello della partita, ha bisogno di commettere forzature e qualche immancabile stranezza che da principio hanno seriamente messo a dura prova le coronarie di coach Popovich.
Per incidere - sia nel bene che nel male - Ginobili ha sempre bisogno di registrare il suo metronomo interno. Qualche volta, più semplicemente, ha bisogno di regolare la fiammella della competitività, spesso troppo alta. Un flusso sempre attivo che dispensa pura inerzia, una riserva rara e vitale per le sue squadre, un giacimento di preziosi che non sempre è valso la pena di estrarre quando le cose non vanno nel verso giusto, ma raramente le mani restano vuote. Da parte sua arriva sempre una scintilla, un tocco di artista, una lettura personalissima del contesto. Mai banale. Qualche volta persino dannoso, molto spesso apparentemente miracoloso.
Una volta trovato il suo ritmo ideale, Manu distribuisce chicche tecniche come prelibatezze dolciarie, che vanno solo gustate con gli occhi e il cuore, organo vitale che il nostro argentino scuote ripetutamente a compagni e avversari. Ha letteralmente fatto le fortune dei gregari attorno a lui - altrimenti destinati a carriere meno splendenti - con delle letture tecniche fuori dal comune e un supporto, spesso anche morale, di ammirevole costanza e clamorosa qualità.
Emanuel David Ginobili ha in qualche modo fatto incontrare le proverbiali rette parallele stravolgendo in parte il mondo NBA con le sue movenze anticonvenzionali: si è costruito una carriera inimitabile contando su un talento che ha fatto sbocciare con un prussiana determinazione e rigorosa umiltà, lavorando ossessivamente sui fondamentali e sulle piccole cose del gioco piuttosto che sul mero aspetto fisico su cui si lavora in sala pesi. Prima sottovalutato, poi idolatrato, poi nuovamente visto con sospetto nella seconda parte della carriera, raramente ha ricevuto tanti riconoscimenti quanti se ne meritava.
Ha sedotto irresistibilmente il palato di milioni di malati della palla a spicchi grazie alla sua unicità. Ha la luce e la bonomia dell'uomo dotato dagli déi di qualcosa di particolare e la durezza mentale di un minatore che per estrarlo ha lavorato più duramente di quasi chiunque altro.
Il suo stile di gioco ha fatto saltare dalla sedia più di un allenatore (sopratutto i suoi), e in uno dei momenti migliori della carriera il celebre Charles Barkley lo ha spesso idealmente imitato mulinando all'impazzata le braccia e la testa per rendere al meglio l'idea della sua imprevedibilità in fase di passaggio e di penetrazione - spesso alla ricerca di falli, tanto che per anni è stato tacciato di essere un “flopper”. Ma il grido "Ginobiiiilliiiiiii" ha spesso echeggiato durante il commento degli spezzoni di gara più esaltanti di Manu, un “imprevedibile” terribilmente prevedibile per costanza e rendimento quando più contava.
Lo stardom NBA non lo ha mai completamente decodificato, lo ha spesso marginalizzato a favore di profili più facilmente riconoscibili: se Tim Duncan resta sempre fuori concorso, qualcosa di più poteva essergli riconosciuto contando l'hype ricevuto da Parker. In qualche caso, in tempi non molto remoti in caso di giocata "beffarda" del numero 20 scattava regolare un fallo durissimo su tutti i campi NBA. Sopratutto nei playoff, quando da comprimario spesso era promosso ad assoluto protagonista. Trattamento "speciale" che i suoi colleghi gli hanno progressivamente abbonato con il crescere della sua anzianità di gioco, del sempre maggiore rispetto accumulato e della glaciale reazione ad ogni "porcheria" ricevuta sul campo; scrollatina di spalle e una giocata più “arrogantemente latina” della precedente. Mai una zuffa, mai una musica diversa o un fattore esterno in grado di alterare il suo ritmo interiore.
Per San Antonio, che per anni ha basato le sue fortune sulla difesa, è spesso stato un àncora di salvezza offensiva, una motrice in grado di trascinare i texani e i nervi del suo staff tecnico. L’unico capace di scrivere uno spartito diverso. Non necessariamente a lieto fine, come abbiamo visto prima: Fisher, Nowitzki, Allen sono immagini che risuonano tanto quanto la tripla in Gara-7 o Gara-4 contro Cleveland o la schiacciata su Bosh.
Nel momento migliore della carriera somigliava al personaggio sfoggiato da Tarantino (e interpretato da un magistrale Harvey Keitel) in Pulp Fiction: Mr. Wolf. Non tanto per l’aplomb o l’autorevolezza (pur notevole), quanto per lo scopo per cui entrare in scena: risolvere problemi. Romanticamente è possibile anche trovare qualche similitudine con uno dei personaggi più atipici della banda Disney. L’argentino ricorda terribilmente Eta Beta (nome completo: Luigi Salomone Calibano Sallustio Semiramide), un alieno con la testa (pelata) vagamente ellittica che dal gonnellino nero di ordinanza è in grado di estrarre qualsiasi gadget possibile per aiutare gli altri protagonisti nelle situazioni più delicate.
Eta Beta si ciba di naftalina, qualcosa che gli umani usano per respingere le tarme. Non è così improbabile, volendo far reggere il paragone, dire che la naftalina di Ginobili è quel fuoco interiore, quella necessità continua di rialzarsi, quella caratteristica che l’han reso un “alieno” del Gioco.
L’immagine di un alieno, nel senso di qualcuno “diverso”, “unico”, è quella che forse assoceremo fra sei anni, quando Manu, a carriera finita, salirà sul palco di Springfield, Massachuttets, e sarà ufficialmente inserito nella Basketball Hall of Fame. Perché è osservando il suo Caminito che ci accorgiamo che non ci sarà mai più un altro Emanuel David Ginobili.
Caminito amigo
Yo también me voy.