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Camminare
17 nov 2020
Racconto personale di un hobby pericoloso.
(articolo)
14 min
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Forse voglio diventare un freelance, mi dice Luca mentre giriamo intorno ai laghetti di Colbricon, che sono lì da centinaia di migliaia di anni. Siamo usciti di casa relativamente presto, con le rispettive ragazze, abbiamo parcheggiato la macchina al parcheggio di un rifugio e poi ci siamo diretti per un sentiero “facile”. «Facile, ti giuro», come ci avevano assicurato loro con la classica accondiscendenza di chi sa di avere a che fare con dei principianti. A metà del tragitto, più o meno, ha iniziato a piovere forte e ci siamo dovuti riparare sotto un albero, proprio come non si dovrebbe fare durante un temporale. In realtà non ho mai veramente controllato cosa dice il buon senso in questi casi - è questo che sto cercando di ricordare sotto l’albero con il cappuccio bagnato del kway sulla fronte. Penso a questo e a che diavolo di vacanza è quella che ti fa camminare per ore sotto la pioggia, al freddo. E poi intorno a un lago. E poi altre ore per un sentiero fangoso, su e giù. E che poi finalmente ti fa tornare indietro a casa e ti fa dire con sollievo: ahhh che bello.

In realtà non sto nemmeno parlando con Luca. Ansimo guardando i suoi talloni, ricalcando le sue orme - gli occhi fissi sul fango che ci sporca le suole delle scarpe da trekking. L’unica cosa che riesco a dire quando mi cerca di spiegare perché vorrebbe diventare un freelance è che in vacanza ci si pensa sempre “a queste cose”. Intendo cambiare vita, nei grossi limiti delle nostre piccole esistenze borghesi. Se fossimo stesi su un lettino al mare ci avremmo comunque pensato “a queste cose”? Mentre fisso il terreno, attento a non inciampare su una radice esposta, penso che mettere volontariamente in pericolo le proprie vite ti costringe a mettere in prospettiva le cose, come si dice. Ok, un “facile” sentiero di montagna non è molto, ma sono sicuro che tutti sotto quell’albero abbiamo pensato che avrebbe potuto colpirci un fulmine (credo, non ho ancora controllato). Ci abbiamo riso nervosamente per esorcizzarla, come fanno tutti.

Qualche giorno prima alla mia ragazza si era infiammato il ginocchio, tanto da impedirle di fare delle discese senza provare dolore. Arrivati al Lago di Sorapis dopo un sentiero di due ore e mezza che comprendeva dislivelli notevoli e tratti scoperti (ci avevano tutti assicurato che fosse facile) abbiamo iniziato a sentire dei tuoni e il cielo si è improvvisamente addensato di nuvole grigiastre e spumose. Ecco, in quel momento ho iniziato a pensare che non ce l’avremmo fatta, che con il suo dolore e la pioggia il ritorno ci sarebbe stato impossibile. In realtà ho pensato a qualcosa di ancora più drammatico, come l’elisoccorso. Quel tipo di pensiero che ti fa rimbombare nella testa un’unica frase: “ma che figura ci fai” - che per quelli cresciuti come me, con l’unico valore di non dover dare fastidio al prossimo, è una delle cose più dolorose.

Per non ripetere l’esperienza, pochi giorni dopo la mia ragazza ha deciso di prendere la funivia per arrivare al rifugio, mentre io facevo il sentiero a piedi con la stessa coppia di amici che ci aveva portato sotto l’albero ad aspettare il fulmine. Un sentiero inizialmente molto ripido e faticoso, persino per loro che lo chiamano, con quello che pensavo fosse un tecnicismo, “una pettata” - una parola che non avevo mai sentito e che, come scrive il vocabolario della Treccani, si utilizza per indicare una “strada in salita che un cavallo (o altro animale da tiro) attaccato al carro percorre facendo gran forza col petto”. Quel tipo di fatica insormontabile che da essere umano senza alcuna velleità agonistica puoi provare solo di fronte a un sentiero che sembra non finire mai e che ha portato le nostre conversazioni a un livello di profondità che forse in condizioni normali non avremmo mai raggiunto.

Foto di Nathan Stirk / Getty Images.

Nessuno ha portato la Settimana Enigmistica, dico io con un’inconscia ma evidente nostalgia del mare. E Federica, la ragazza di Luca, mi risponde che è una grande appassionata di rebus da quando ha saputo che era il passatempo di suo padre in ospedale mentre aspettava che lei venisse al mondo - il che mi è sembrato fin da subito un dettaglio buffo, ma anche intimo e personale da dirmi. Quando dopo poco ci siamo fermati per bere e mangiare frutta secca (il tipo di cose a cui devi pensare in montagna se non vuoi seriamente rischiare di sentirti male) mi racconta di come ha imparato a controllare gli attacchi di panico che ogni tanto le vengono quando pensa di non riuscire a tenere il passo. Quando più o meno inconsciamente ha paura che venga lasciata indietro dal resto del gruppo. Mi faccio un pianto di cinque minuti e poi sono pronta a ricominciare, mi dice. Solo adesso che ho scritto questo ricordo realizzo che, parlando dell’avventura che abbiamo passato io e la mia ragazza vicino al Lago di Sorapis, la mia paura di fare brutta figura di fronte all’equipaggio dell’elisoccorso nella mia memoria ha rischiato di sopraffare il suo momento di sconforto. Quando, per via del dolore, si è seduta su una pietra e di fronte a un panorama mozzafiato si è messa a piangere per disperazione.

Mentre saliamo sulla pettata incrociamo degli uomini di mezza età che scendono a tutta velocità con la mountain bike, su un sentiero su cui io devo fare attenzione per non inciampare a piedi. Mi chiedo ad alta voce perché lo fanno, forse dimenticandomi che in questo momento non sono altro che un uomo sfinito dentro un bosco sperduto del Trentino e chiunque potrebbe chiedersi la stessa identica cosa guardandomi camminare con tanta determinazione senza una meta o uno scopo apparente. Da fuori dobbiamo sembrare pazzi. Ma da dentro è impossibile non chiedersi come hanno fatto tutti gli altri a perdere il senno. Perché buttarsi giù da una montagna con una bicicletta con il rischio di sfracellarsi su un albero? Perché svegliarsi alle cinque del mattino per andare a fare una ferrata? Perché farsi chilometri e chilometri di salita a piedi con il rischio di perdersi, cadere, essere attaccati da un animale selvatico? Perché, perché, perché… sono domande che ti fai in continuazione mentre cammini, senza avere alcuna risposta. La mia ragazza mi aveva fatto giustamente notare che non lo fai nemmeno per il panorama - il motivo che ti vende l’account Instagram Visit Trentino - perché per la maggior parte del tempo ci si guarda i piedi per non cadere.

Di recente ho scoperto che con la pandemia di Covid-19 la montagna è diventata una destinazione sempre più popolare. A metà luglio l’Agenzia del Turismo italiana stimava che quest’estate il 60% del turismo interno sarebbe stato assorbito dalla montagna «confermandosi la destinazione adatta in questo periodo post pandemico», come si legge nel comunicato. Anche io, che vado in montagna d’estate solo da pochi anni, quando all’orizzonte si è iniziata a profilare la possibilità di nuovi coprifuoco e lockdown per qualche ragione mi sono imposto di andare almeno una volta alla settimana a fare una passeggiata in montagna. Mi sono detto che era per non impazzire dentro le mura di casa o dell’ufficio, ma la verità è che è semplicemente una delle poche cose rimaste da fare in maniera legale che non siano lavorare. E nonostante questo, quando alle otto di mattina, di domenica, mi suona la sveglia, il mio primo pensiero è sempre quanto sarebbe stato bello svegliarsi tardi e passare la giornata in pigiama a non fare niente se non mi fosse venuta questa idea malsana di camminare.

Forse, però, è vero che in un momento in cui guardiamo con orrore i gruppi con più di sei persone e come tir ci corrono nel cervello le immagini delle spiagge affollate trasmesse dai TG, la montagna viene davvero avvertita come qualcosa di sicuro. Anzi, forse addirittura come un sollievo. D’altra parte, è quasi un anno che viviamo in un film distopico di mascherine e controlli militari agli spostamenti, e cosa c’è di più rilassante in questo momento che il pensiero di una boccata di aria fresca mentre si cammina da soli in un bosco? La realtà, però, soprattutto d’estate, è che in montagna non è affatto raro ritrovarsi ammassati in fila, magari prima di ponti o di parti particolarmente strette o pericolose di sentiero che si possono fare solo in un senso di marcia alla volta. Ma la cosa ancora più paradossale di questa è che andare in montagna poco preparati significa rischiare la vita in mille altri modi diversi.

Come ha notato Ferdinando Cotugno su Rivista Studio, già nel 2019 in Italia il Soccorso alpino aveva raggiunto la cifra record di oltre 10mila interventi (con un aumento del 7% rispetto all’anno precedente), il 95% dei quali non riguardava soci del Club Alpino Italiano ma persone impreparate che si ritrovano a metà strada esausti, o disidratati, che si feriscono cadendo, o che si perdono in quel bosco, che pensavano di vivere in una realtà immaginaria che eliminava i dieci chilometri in salita che devi fare per arrivarci. Quel tipo di realtà che ti vendono le SPA di montagna, per esempio, in cui con una cinquantina di euro puoi passare una mezza giornata dentro a una sauna che assomiglia a una baita, o a una sala ricoperta di roccia con una cascata artificiale, o intorno a un finto camino di un rifugio. Una realtà che esteriormente somiglia alla montagna, quindi, ma che al suo interno è priva di ciò che poi la montagna significa in pratica. E cioè il pensiero di contare le ore di luce che ti rimangono prima di arrivare o la quantità d’acqua che devi centellinare per evitare di rimanere a secco già a metà percorso. O il momento in cui visualizzi nella mente che quel masso che ti pende sulla testa si stacchi dal dorso della montagna o che un orso sbuchi fuori improvvisamente da quelle foglie che oggi ti fanno da parete. E pensare quindi di essere in montagna pur indossando un accappatoio e delle morbidissime pattine bianche di spugna.

Annibale Salsa, antropologo ed ex presidente del CAI, ha detto che «la montagna è la cultura del limite». In questo contesto, si intende soprattutto limite tra incolumità e pericolo. A questo proposito, scopro leggendo i suoi post che esiste un grande dibattito all’interno della comunità degli escursionisti se sia giusto o meno vietare i sentieri più pericolosi, quelli cioè che mettono in pericolo “l’incolumità propria ed altrui”. Scrive Salsa: «L’egemonia della tecnica (tecnocrazia) e la ricerca di un tecnicismo senza limite impongono pertanto la codificazione di protocolli finalizzati a rilasciare garanzie assolute. Lo scopo dichiarato è quello di porre al riparo chi pratica o organizza attività pericolose dai danni morali e materiali derivati dall’esercizio di tali pratiche. In questa ottica, ogni incidente non viene più imputato all’imprevedibilità degli eventi, alla dimensione dell’imponderabile che appartiene alla natura delle cose, bensì alla violazione “misurabile” delle regole e delle procedure».

Frasi a cui ho annuito credendo di essere saggio quando le ho lette nel salotto di casa mia, riscaldato dallo schermo del computer, ma che ho maledetto tutte le volte in cui mi sono ricordato quanto è facile non aver più nessun controllo sulla propria vita dopo aver fatto un’ora di macchina a uscire dalla città. Per esempio, quando qualche settimana fa a un bivio ho imboccato un sentiero che probabilmente non veniva battuto da anni e, con i rovi attaccati al cappuccio della felpa, mi continuavo a chiedere perché diavolo non avevo pagato i 4 euro e 99 annuali per la versione premium della app per i sentieri di montagna che include il tracciamento GPS (finché ero rimasto nel bosco, con il sentiero ben tracciato e le foglie gialle che cadevano dolcemente davanti a me come in un sogno, mi ero cullato nell’idea romantica che bastasse il resoconto scritto dell’utente che aveva caricato il percorso - come leggendo le indicazioni di un antico esploratore). Insomma, in fondo al cuore non credo davvero alle parole di Salsa perché, nonostante mi dispiaccia ammetterlo, alla fine non sono altro che un turista della montagna. Ovvero, ormai forse l’avrete capito, turista dell’accettazione serafica della morte come fatto ineludibile e inevitabile della vita.

Foto di Prakash Mathema / AFP.

Lo so che sembra melodrammatico scritto così, ma è quello che ripetono anche tutti quelli che nella mia testa sono “i saggi della montagna”. Quelle persone che hanno dedicato tutta la propria vita a mettersi davvero nelle condizioni di perderla in qualsiasi momento, e adesso hanno interiorizzato quella che per me è paura, sublimandola in una specie di nirvana permanente. Un livello di coscienza del proprio posto nel mondo a cui non penso si possa arrivare con la riflessione o la meditazione. Lo dice, per esempio, Reinhold Messner, un uomo che ha scalato l’Everest senza ossigeno stiracchiando fino all’estremo i limiti dell’alpinismo tradizionale (quello, in sostanza, condotto senza alcun ausilio tecnologico), nel documentario di Markus Augè a lui dedicato, Heimat. Berge. Abenteuer. «Andiamo volontariamente dove sappiamo che potremmo morire, lo sappiamo», dice Messner alla fine di quel documentario «Ma ci andiamo, con la convinzione di non poterci voltare. Siamo inconsciamente consapevoli di poter morire». Questa è anche la ragione, secondo Messner, per cui l'alpinismo non può considerarsi davvero uno sport. «Non andiamo su per fare dei record, il mio alpinismo non viene misurato, non viene confrontato», ha detto in un'altra intervista «È un tentativo di lasciare la civilizzazione per un po' di tempo. È un tentativo di andare dove la morte è una possibilità, per non morire». Ognuno va in montagna per trovare il suo limite, a suo modo.

In pochi possono vantare la vita di Messner, ovviamente, ma quasi le stesse identiche cose sono state scritte più di un secolo prima anche da Henry David Thoreau, che, a parte i due anni passati nei boschi del Massachusetts per scrivere Walden, aveva semplicemente l’abitudine di passare “almeno quattro ore” delle sue giornate camminando. «Se sei pronto a lasciare il padre e la madre, e il fratello e la sorella, e la moglie e il figlio e gli amici, e a non rivederli mai più», scrisse nel saggio pubblicato postumo dal The Atlantic nel 1862, «Se hai pagato i tuoi debiti, e fatto testamento, se hai sistemato i tuoi affari, e se sei un uomo libero, allora sei pronto a metterti in cammino».

Da questo punto di vista probabilmente non sarò mai pronto a mettermi in cammino, a un livello molto più profondo della mia voglia di spegnere la sveglia la domenica mattina, girarmi e rimettermi a dormire. Il limite di cui parlano, in modi diversi, Salsa, Messner e Thoreau, mi terrorizza. E se continuo ad alzarmi dal letto per andare in montagna la domenica mattina non è certo per accettazione ma più che altro per rimozione del pericolo che comporta. Anche perché, per le esperienze che faccio io, quel pericolo è il più delle volte ridotto al minimo. Per adesso mi faccio bastare quello che mi dà il semplice sfiorare quel limite, il vederlo da lontano, in fondo al semplice sentiero che sto percorrendo, come uno spauracchio sbiadito. E cioè una sensazione di condivisione del tempo che mi permette di parlare davvero con le persone con cui la condivido. Rari momenti in cui, come scritto in Feel Free da Zadie Smith reinterpretando il pensiero del filosofo Martin Buber, mi sembra di tornare ad avere una relazione Io-Tu con chi mi sta accanto - in cui «si presta un’attenzione più unica che rara al presente. Ci si rende conto di viverci dentro». Magari è solo una mia fantasia, ma questi momenti, di recente, li ho vissuti quasi tutti mentre ero circondato da alberi e stavo camminando con qualcuno su un sentiero scosceso.

Poche settimane fa, dopo una domenica in cui ci eravamo persi e io ero caduto ferendomi una mano, con il solito gruppo di amici abbiamo deciso di fare sentieri più semplici. Prima un percorso ad anello appena fuori Roma, in un paesaggio più agreste che montano, con un’ultima parte sterrata a fianco della quale stavano iniziando dei lavori - forse per la costruzione di campi di padel. Lungo il percorso abbiamo parlato di problemi d’ufficio e robot aspirapolvere, e non ho potuto fare a meno di pensare che alla fine quello che stavamo facendo non era altro che un hobby borghese per coppie. La settimana successiva, invece, ci siamo incamminati in un altro semplice sentiero ad anello, questa volta in una faggeta vicino Viterbo. Il paesaggio questa volta era splendido, incredibilmente simile alle foto che avevo visto su Instagram. C'erano le foglie gialle, rosse e marroni che cadevano dal cielo, c'erano gli alberi alti e il sottobosco profumato, e c'era anche un lago in lontananza che sembrava pendere dalle alture. Ma il percorso era quasi del tutto in piano, poco di più di una gita per famiglie. E infatti lo abbiamo finito prima del previsto, quasi senza sforzo, lasciandoci un senso di insoddisfazione sottile che non riuscivamo a spiegare. Poco prima di arrivare alla macchina, la mia ragazza mi ha detto che, nonostante i suoi problemi al ginocchio, preferisce i sentieri in cui si alternano salita e discesa. Forse anche lei, come me, sentiva di non aver vissuto quello per cui era venuta fino a là. Nonostante della montagna, apparentemente, non mancasse niente.

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