Nella NBA contemporanea, sette anni equivalgono a una vita.
In sette anni, ovvero quelli che sono passati dall'ultimo titolo dei San Antonio Spurs, sono successe molte cose: i membri di quella squadra campione nel 2007 si sono ritirati praticamente tutti (Bowen, Horry, Finley per citarne tre), ci sono state diverse eliminazioni cocenti in anni consecutivi (Lakers '08, Dallas '09, Phoenix '10 e soprattutto Memphis '11), ci sono stati errori sul mercato (Richard Jefferson who?) e, soprattutto, si pensava che l'era dei Big Three di Duncan-Parker-Ginobili fosse arrivata alla fine della sua gloriosa cavalcata. Perché in NBA va così, dopo un po' le cose non funzionano più e quindi si cambiano.
Sbagliato. Niente di più sbagliato.
Se i San Antonio Spurs hanno vinto il titolo nel 2014 battendo i due volte campioni in carica dei Miami Heat, lo devono al fatto di non aver mai ragionato come le altre squadre NBA. Chiunque altro, arrivato a perdere per quattro anni consecutivi in maniera dolorosa ai playoff con una squadra in là con gli anni, avrebbe distrutto quel roster e avrebbe tentato di ricostruire da capo per iniziare “un nuovo ciclo”. Gli Spurs sono invece riusciti a fare una cosa impensabile in altri contesti: ricostruire la squadra rimanendo comunque competitiviper il titolo. Certo, bisogna avere tre Hall Of Famer come il trio di cui sopra, un quarto HoF che siede in panchina in Gregg Popovich e un altro ancora che dirige il tutto da dietro la scrivania in R.C. Buford, ma attorno a questo nucleo di cinque totem è cambiato tutto quanto, dalla composizione del roster alla filosofia di gioco.
Nel 2011 sono arrivati Tiago Splitter, Danny Green e soprattutto Kawhi Leonard (ci torniamo dopo); nel 2012 sono arrivati Boris Diaw e Patty Mills; nel 2013 è arrivato Marco Belinelli. Il tutto passando da una squadra che giocava a ritmi bassi, con due lunghi tradizionali e basata sulla mentalità difensiva ad una con un attacco ultra moderno, costruito attorno a concetti di spaziature, circolazione di palla e creatività dal palleggio con largo uso di pick and roll. Per semplificarla un po', il baricentro della squadra è passato da Duncan a Parker e Ginobili senza che nessuna delle parti ne uscisse sminuita. Ci è voluto un po' di tempo, ma finalmente ha funzionato: i San Antonio Spurs, sette anni dopo l'ultimo titolo, sono di nuovo campioni NBA.
UNA STAGIONE AL TOP
E dire che San Antonio, secondo alcuni, non si sarebbe mai dovuta rialzare dal colpo dell'anno scorso. La storia del tiro di Ray Allen la sapete bene quindi è inutile che ve la riproponga, quindi sottolineerei un altro aspetto: la regular season che hanno giocato gli Spurs. Dopo una mazzata del genere, non solo si trovavano in una delle conference più competitive di sempre – i Phoenix Suns sono rimasti fuori dai playoff pur vincendo 48 (48!) partite –, ma lo hanno fatto per larghi tratti senza Kawhi Leonard (fuori per 16 partite per una frattura alla mano), Tony Parker, Manu Ginobili e Danny Green (14 partite saltate ciascuno) e Tiago Splitter (23). Il risultato? 62 vittorie e 20 sconfitte, nessun giocatore sopra i 30 minuti di utilizzo (mai successo prima nella storia NBA), diciassettesima (17!) stagione consecutiva sopra le 50W, miglior record di tutta la Lega.
Per questo i playoff di quest'anno – a parte una tutt'ora inspiegabile serie alle sette partite contro Dallas al primo turno – sono sembrati una prosecuzione del dominio già mostrato in regular season: 4-1 a Portland, 4-2 a Oklahoma City e 4-1 a Miami. 12 vittorie a fronte di 4 sconfitte, di cui 11 con uno scarto oltre i 15 punti, spazzando via dal campo gli avversari che si trovavano di fronte. Il successo di quest'anno nasce da quelli mancati degli anni passati: già nel 2012 gli Spurs arrivarono in finale di conference cavalcando una striscia di 20 vittorie consecutive (le ultime 10 di regular season più le prime 10 dei playoff) prima di finire triturati da quattro partite mostruose – e irripetibili – degli Oklahoma City Thunder di Durant, Westbrook e James Harden. Anche l'anno scorso, prima della serie con Miami, avevano perso solo due partite contro Golden State a fronte di 12 vittorie (di cui 8 con 10 o più punti di scarto). Insomma, i San Antonio Spurs sono nel top del top della Lega già da tre anni almeno, il che sinistramente coincide con l'arrivo a San Antonio di Kawhi Leonard.
MVP A 22 ANNI
La storia di Kawhi Leonard meriterebbe un capitolo a parte, ma per quello esiste già il numero di Buckets che gli abbiamo dedicato nello scorso dicembre. Qui ci soffermiamo solo sull'impatto che ha avuto il suo arrivo a San Antonio: pur di prenderlo, R.C. Buford e Gregg Popovich hanno dovuto cedere un giocatore e un ragazzo che adoravano, ovverosia George Hill, che si dava il caso fosse anche uno dei migliori amici di Manu Ginobili all'interno dello spogliatoio. Si dice che Coach Pop sia scoppiato in lacrime quando ha chiamato Hill per comunicargli che lo avevano ceduto nella notte del Draft del 2011, quando Leonard scese – inspiegabilmente già al tempo – fino alla numero 15 per essere preso da Indiana e quindi girato a San Antonio. E lo stesso Ginobili per diverso tempo non rivolse la parola a Leonard, “colpevole” di aver fatto partire uno dei suoi migliori amici. (Non che Leonard sia mai stato un chiacchierone, sia chiaro).
Ma proprio qui sta la lucidità e la genialità degli Spurs: capire che Hill non sarebbe stato il pezzo “giusto” per una squadra da titolo (specialmente quando avrebbero dovuto rifirmarlo) e riconoscere che quello poteva essere Leonard, in particolar modo nella Lega dove girano i Kevin Durant e i LeBron James di questo mondo. Lo stesso Ginobili, dopo qualche allenamento, ha dovuto ammettere che la dirigenza aveva ragione: Leonard ha cambiato il modo in cui gli Spurs possono fare certe cose su entrambi i lati del campo. Il suo atletismo, la sua versatilità e la sua capacità di apprendimento fuori dal comune gli hanno permesso di costruire passo dopo passo il suo gioco, pur partendo da una base di talento non stellare, e di arrivare a quello che è ora: il terzo MVP delle Finali più giovane di sempre dopo Tim Duncan (ma guarda un po') e Magic Johnson (due volte). Non solo Leonard prende sempre in marcatura l'esterno avversario più forte, sia che giochi point guard come Westbrook o ala come James, ma nelle Finali ha dimostrato anche di saper vestire i panni del realizzatore pur senza avere un singolo schema chiamato per lui, trovando i suoi punti dalla “spazzatura” della partita tra scarichi, punti in transizione e penetrazioni a canestro. Punti che il sistema di San Antonio aiuta a creare, certo, ma anche punti che lui è andato a procurarsi dopo le prime due opache prestazioni nella serie, alzando a dismisura il livello di aggressività non appena la serie si è spostata a Miami (29 punti in gara-3, 20 in gara-4 e 5), giocando ad un livello di “euforia cestistica” tale da andare anche a cacciare la palla dalle mani di LeBron James fino a metà campo, come uno schermidore che cerca la stoccata vincente con l'avversario in ritirata. Kawhi Leonard non è al livello dei LeBron James e dei Kevin Durant di questo mondo, ma negli ultimi due anni ha giocato alla pari con entrambi e gli ha dato filo da torcere come nessun altro in giro per la Lega. Ora sarebbe bello vederlo diventare l'All-Star che potrebbe/dovrebbe essere e guidare la transizione degli Spurs nell'era post-Big Three. Solo che poi dovrebbe anche rilasciare delle interviste, e potrebbe non andare benissimo...
LA SERIE
Il punto di svolta della serie, a mio modo di vedere, ha un momento ben preciso: dopo le prime due partite a San Antonio, Gregg Popovich ha deciso di inserire in quintetto Boris Diaw e da lì in poi gli Spurs non hanno più perso. Non che prima Diaw non giocasse minuti da titolare (65 minuti nelle prime due partite), ma lo spostamento in quintetto ha permesso a Coach Pop di giocare sin dall'inizio con il ribattezzato medium ball, ovverosia una sorta di ibrido tra un basket tradizionale con due lunghi e lo “small ball” con 4 esterni che tanto si è rivelato efficace negli ultimi anni per aprire le difese avversarie. La presenza di Diaw, capace di interpretare diversi stili di pallacanestro grazie alla sua versatilità e intelligenza cestistica, ha cambiato il volto della serie permettendo agli Spurs di schierare tre “playmaker” alla volta in campo (Parker, Ginobili e appunto Diaw) capaci di far girare vorticosamente il pallone e mandare in tilt la difesa ultra-aggressiva di Miami, incapace di raddoppiare e portare pressione sul pallone perché, semplicemente, il pallone non stava mai fermo nelle mani di un singolo giocatore per più di un secondo. Come riassunto benissimo dal genio argentino di Ginobili: “Per battere quella difesa DOVEVAMO passare il pallone almeno quattro volte ad azione”. E ci sono riusciti: gli Spurs hanno chiuso le Finals con una media di 334 passaggi a partita; per fare un paragone, Miami non ha mai superato quota 280 nella serie.
E dire che nelle prime due partite a San Antonio, a voler ben guardare, era stata Miami la squadra migliore: nella fornace di gara-1 erano andati avanti anche di 7 punti a 9 minuti dalla fine prima che un redivivo Danny Green e la coscia di LeBron James dessero il la ad un parziale di 16-3 per chiudere la sfida; in gara-2 una prestazione for the ages di James con 32 punti e attimi di onnipotenza cestistica – unita ad una tripla fondamentale di Bosh e a 4 sanguinosi liberi consecutivi sbagliati da Parker e Duncan – avevano riportato a Miami la serie in parità e anzi, per molti l'inerzia era passata dalla parte degli Heat, in controllo del loro destino.
Invece di tenere il servizio in casa, però, gli Heat sono stati completamente schiantati proprio dove in questa stagione non avevano mai perso ai playoff: tra le mura amiche dell'AmericanAirlines Arena. Le prestazioni in gara-3 e 4 degli Spurs sono stato quanto di più vicino possibile alla perfezione su due lati del campo, contenendo le minacce offensive degli Heat in difesa e punendo tutte le scelte difensive di Miami in attacco. Vuoi portare pressione sulla palla? E noi scarichiamo subito il pallone trovando i nostri tiratori da fuori. Vuoi rimanere attaccato ai tiratori? E noi mandiamo Parker al ferro o diamo palla al rollante per un lay-up a centro area. Vuoi marcare Diaw con Wade e cambiare su tutti i blocchi? E noi sfruttiamo il mismatch e ti portiamo in post basso. Solo che a pensare queste soluzioni ci possono arrivare tutti, un altro conto è poi realizzare tutto questo contro i due volte campioni in carica e contro il più forte giocatore del mondo. Gli Spurs ci sono riusciti per tre partite filate, portando di volta in volta un protagonista diverso alla ribalta, tanto che almeno quattro giocatori (Leonard, Parker, Duncan e Diaw) avrebbero potuto legittimamente aspirare al titolo di MVP della serie. Una demolizione in piena regola.
UN UOMO SOLO E LA RICERCA DEL VANTAGGIO
Dopo tanto parlare di San Antonio, vale la pena spendere qualche parola anche su LeBron James. Che esce sì sconfitto da questa serie ma non distrutto come nel 2011, perché è stato nettamente il singolo giocatore migliore delle Finals (le cifre non sto nemmeno a citarle, ma fanno comunque spavento), e il suo unico problema è che non è stato in alcun modo aiutato dai suoi compagni, specialmente dagli altri membri dei “Big Three”, Dwyane Wade e Chris Bosh. Un po' è sicuramente merito degli Spurs, capaci come nessuno di levarli dalla serie, ma molto è stato demerito loro, specialmente Wade con un impegno che a tratti è sembrato al limite dell'indisponente. Sono passati 7 anni da quelle Finals anche per James, però per certi versi si è ritrovato nella stessa situazione del 2007: troppo più forte dei suoi compagni, incapaci di creare per se stessi e troppo assuefatti al “tanto ci pensa LeBron” a cui li aveva abituati l'eccellenza del numero 6. Che può andare bene fino a quando si affrontano le squadre di una debola Eastern Conference, ma che non basta più quando si affrontano i San Antonio Spurs.
Il gioco del basket nella metà campo offensiva si basa sulla creazione del “vantaggio”, che facendo un paragone (azzardato, lo so, ma sono le 7 di mattina e non sono ancora andato a dormire) col calcio si potrebbe paragonare al concetto di “saltare l'uomo”. L'idea è di avere un sistema che porti i giocatori a creare un vantaggio sul diretto marcatore, sfruttando un blocco ben fatto o battendolo sul primo passo o portandolo in post, per costringere le difese avversarie a fare delle scelte, forzare delle rotazioni e trovare il tiro a più alta percentuale disponibile. Ai Miami Heat, tolto ovviamente James (che è il più grande “creatore di vantaggi” che io abbia mai visto), è mancato completamente qualcuno capace di creare quel vantaggio e di mettere in difficoltà la difesa di San Antonio, che per larghi tratti di questa serie è sembrata giocare al gatto col topo, riconoscendo immediatamente quello che gli Heat stavano cercando di fare e anticipandolo, togliendogli ogni possibilità di riuscita.
Quando non hai quello sbocco in attacco, diventa difficile anche trovare le energie per difendere al livello di intensità richiesto dalla difesa di Miami per funzionare, e non è un caso che gli Heat siano sembrati spenti in questa serie: al quarto anno insieme, con quattro viaggi consecutivi alle Finals e una quantità di partite giocate enorme, la stanchezza (mentale quanto fisica) alla fine ha riscosso il suo tributo su Miami, che mai come in questa stagione è apparsa così vulnerabile.
CONCLUSIONI
Ci sarebbero mille altre considerazioni da fare, a partire da tutti i discorsi sulla “legacy” che si faranno nei prossimi giorni (Tim Duncan miglior PF di sempre? 4 titoli per Parker e Ginobili, più di ogni altro non-USA nella storia della NBA? Il posto di Gregg Popovich nella lista all-time degli allenatori NBA?) e sul futuro delle due squadre (Duncan si ritira? Cosa faranno i Big Three di Miami?), ma non è questo lo spazio e il luogo.
Rimane solo la sensazione di aver visto giocare una squadra fortissima, allenata e gestita in ogni sua componente come meglio non si potrebbe da 15 anni – tanto è vero che le altre franchigie saccheggiano dirigenti e allenatori da “casa madre Spurs” e quando devono prendere delle decisioni importanti si chiedono “Cosa farebbero gli Spurs al posto nostro?” (true story) che, si spera, diventi ancor di più un modello di riferimento per una NBA che sarebbe ancora più bella se tutti, nel loro piccolo, cercassero di giocare un po' come gli Spurs.
E in tutto questo c'è da considerare la parte di Italia di questo titolo. Perché è vero che Marco Belinelli ha fatto fatica in questa serie (solo 11 minuti di media contro i 25 della regular season), ma come direbbe lui, it's all about winning: non conta che Marco abbia visto poco il campo perché il suo anello non lo ha vinto nelle ultime due settimane, ma negli anni passati a cercare di ritagliarsi il suo spazio nella NBA. Uno spazio cercato, voluto, conquistato e difeso con le unghie, a volte solo contro tutti. Uno spazio meritato.
Abbiamo un ragazzo italiano campione NBA. Se ce lo avessero detto 7 anni fa, voi ci avreste creduto?