
Ciò che è successo durante la prima (e forse ultima) edizione del 4 Nations face off è la dimostrazione che la politica, per lo sport, "ha fatto anche cose buone". Questo torneo di hockey su ghiaccio, organizzato dall’NHL (la lega che gestisce il principale campionato professionistico di questo sport in America del Nord) e disputato fra Montreal e Boston dal 12 al 20 febbraio 2025, ha visto scontrarsi le Nazionali di Canada, Stati Uniti, Svezia e Finlandia. Era stato annunciato circa un anno fa per sostituire l’ormai decadente e poco attrattivo All Star Game, e allora era stato accolto dagli appassionati e da gran parte degli addetti ai lavori con un certo scetticismo. Nessuno, infatti, avrebbe mai pensato che la finale di un torneo nuovo, senza tradizione e senza futuro, sarebbe stata seguita da oltre 16 milioni di persone, diventando una delle partite di hockey più viste della storia sia del Canada che degli Stati Uniti.
CHE COS'È IL 4 NATIONS
Per molti i punti deboli erano palesi. Le quattro nazioni partecipanti erano state decise in modo del tutto arbitrario, coinvolgendo unicamente quelle che avevano in NHL un numero di giocatori sufficienti in ogni ruolo per mettere in campo una squadra - ovviamente con l’eccezione della Russia, la cui esclusione, per quanto assolutamente comprensibile da un punto di vista politico, gridava vendetta da un punto di vista sportivo, vista la quantità e qualità dei giocatori russi ai massimi livelli dell'hockey professionistico. Parlo di nomi del calibro di Kirill Kaprizov, Nikita Kucherov, Andrei Vasilevskiy oltre ai sempreverdi Alex Ovechkin ed Evgeni Malkin.
Pur rivendicando di essere un torneo “best-on-best”, ovvero in cui si affrontavano le Nazionali composte dai migliori elementi, la verità era leggermente diversa. Certo, non si arrivava alla paradossale situazione dei Mondiali, in cui mancano sempre i giocatori impegnati nei playoff della NHL, ma comunque alle selezioni di Svezia e Finlandia mancavano i giocatori impegnati nei campionati europei.
Oltre alle già citate superstar russe, poi, sul ghiaccio del 4 nations non ci sarebbero state neanche quelle di Paesi hockeisticamente importanti come la Repubblica Ceca, la Slovacchia, la Germania e la Svizzera. Quindi per esempio Leon Draisaitl, David Pastrnak, Martin Necas o Roman Josi - giocatori che difficilmente sarebbero mancati in un tradizionale All-star game e che infatti, intervistati sul tema, hanno rilasciato dichiarazioni un po' piccate.
A gennaio la rinuncia alla convocazione da parte del veterano difensore canadese, Alex Pietrangelo, aveva inoltre creato il timore che ciò potesse dare il via ad un effetto valanga con altri giocatori alla ricerca di scuse per saltare l’appuntamento, come spesso era avvenuto in occasione di precedenti All Star Games.
Oltre a questo, c'era anche la possibilità che i giocatori coinvolti, provati da una faticosa stagione regolare composta da ben 82 incontri, non avrebbero preso l'impegno seriamente come si richiedeva, anche per evitare il rischio di infortuni alla vigilia della fase decisiva della regular season e l’inizio dei play-off.
Di fronte a questi pericoli, la NHL aveva spinto molto sulla promozione dell’evento, proponendo spot in maniera quasi ossessiva e offrendo anche la possibilità di seguire l’evento gratuitamente su YouTube.
Forse è stata proprio per questa attività pubblicitaria ma, col senno di poi, si può dire che tutte queste preoccupazioni erano eccessive. Già nei giorni precedenti all’evento l’attesa e le aspettative erano infatti cresciute in maniera esponenziale. Del resto vi era, da parte di molti atleti coinvolti, la voglia di tornare a indossare la maglia della propria Nazionale e la consapevolezza che una buona prestazione nel 4 nations avrebbe potuto diventare un viatico per le prossime Olimpiadi invernali. I Giochi di Milano-Cortina 2026, infatti, dopo due edizioni in tono minore, vedranno il ritorno delle stelle dell’NHL nel torneo maschile di hockey.
Per il Canada in particolare l'appuntamento era decisamente importante. C'era attesa per veder giocare per la prima volta assieme in Nazionale tre superstar che non avevano ancora condiviso lo stesso campo: McDavid, Crosby e MacKinnon. Anche per gli Stati Uniti, comunque, era un'occasione importante. La Nazionale a stelle e strisce è tra le più competitive di sempre. Di fronte a queste due favorite, le Nazionali scandinave seguivano con interesse, nella speranza di uno sgambetto che, fuori casa, ha sempre un gusto particolare.
IL CONTESTO POLITICO
Come sappiamo, ciò che ha finito per dare un’imprevista importanza all’evento è stato però il contesto politico. Le tensioni diplomatiche e culturali emerse all’indomani dell’insediamento di Donald Trump alla Casa Bianca, cioè, che hanno dato a un evento sportivo tutto sommato marginale un significato ben più grande.
Il nuovo presidente statunitense vorrebbe fare del “vicino del nord” il cinquantunesimo stato a stelle e strisce, e la decisione presa a inizio febbraio di imporre dazi del 25% sulle importazioni canadesi ha già avuto riflessi sul mondo sportivo nordamericano e in particolare su quello dell’hockey su ghiaccio (la disciplina in cui sono più frequenti gli incontri fra Canada e USA).
Sabato primo febbraio, nei pre-partita di Ottawa Senatores – Minnesota Wild e di Calgary Flames – Detroit Red Wings, l’esecuzione de The Star-Spangled Banner era stata sonoramente contestata dal tradizionalmente rispettoso pubblico canadese, mentre l’esecuzione di O Canada era stata accompagnata da un supporto fuori dall'ordinario. Il 2 febbraio la scena si era ripetuta sia in Vancouver Canucks – Detroit Red Wings sia in NBA, nella sfida fra i Toronto Raptors e i Los Angeles Clippers.
Nei giorni successivi, dopo l'annuncio da parte della Casa Bianca di una sospensione dei dazi per almeno trenta giorni, gli ululati e i fischi all’inno statunitense sono andati gradualmente calando. Tuttavia quella spontanea reazione di molti canadesi, oltre a rappresentare un chiaro giudizio sulla politica estera di Trump e una crepa nel soft power statunitense, ha sicuramente contribuito ad aumentare l’aspettativa per il 4 nations face off e in particolare per la sfida fra le due Nazionali programmata per il 15 febbraio a Montreal.
Molti media statunitensi, per esempio, si sono approcciati al torneo dimostrando un certo paternalismo, condannando la politicizzazione dell'evento anziché chiedersi come mai un pubblico che in passato non aveva esitato ad usare i palazzetti e gli stadi per mostrare solidarietà al proprio vicino dopo tragedie terroristiche o naturali si dimostrasse ora così ostile nei confronti dei simboli a stelle e strisce. Non accorgendosi che, così facendo, stavano a loro volta contribuendo a politicizzarlo.
Di tutta questa inaspettata attenzione, oltre alla NHL, ha beneficiato innanzitutto la Nazionale statunitense. Molti dei giocatori americani, infatti, dopo la netta vittoria per 6-1 contro la Finlandia hanno detto di essere stati caricati da quei fischi e quegli ululati, che peraltro il pubblico di Montreal aveva rilanciato anche in occasione dell’esordio della squadra allenata da Mike Sullivan il 13 febbraio.
COM'È ANDATO IL TORNEO
Non sappiamo se le due cose siano legate, ma fin dalla prima partita, quella fra Canada e Svezia giocata sempre a Montreal il 12 febbraio, il torneo ha messo in mostra un livello tecnico elevatissimo, grande equilibrio e un impegno totale da parte dei giocatori. Per dire: dopo neanche un minuto di gioco, le tre superstar canadesi - McDavid, Crosby e MacKinnon - avevano già prodotto una rete spettacolare, perfetta per promuovere ulteriormente il torneo attraverso highlights e reel.
Il fatto che gli svedesi avessero venduto cara la pelle, riuscendo a rimontare e costringendo i canadesi all’overtime, ha contribuito a dare ulteriore legittimità all’evento. Insomma: non era un torneo dimostrativo, erano partite vere quelle che si stavano giocando.
La partita d’esordio, peraltro, è stata anche l’occasione per celebrare il veterano Sidney Crosby, che a 37 anni, dopo aver contribuito agli ori olimpici del 2010 e del 2014, si è dimostrato ancora capace di risultare decisivo per il Canada, di cui tra l'altro è capitano. Oltre ad aver fornito due assist nei tempi regolamentari, "Sid the Kid" ha dato il via all’azione decisiva con cui Marner ha siglato il definitivo 4-3.
Due giorni più tardi, l’accesissimo derby scandinavo ha avuto lo stesso esito della partita d’esordio grazie all’agile Mikael Granlund che in azione di rimessa è riuscito a segnare la rete decisiva del 4-3 per i finlandesi nel tempo supplementare. Un risultato che andava ulteriormente a vantaggio degli organizzatori del torneo, visto che a quel punto tutte e quattro le squadre sarebbero rimaste in corsa per la qualificazione finale fino alle ultime due partite, mantenendo così elevata l’attenzione mediatica sul torneo, e non solo per i derby nordamericani.
CANADA-STATI UNITI, PRIMA DELLA FINALE
Per quanto avvincente, Svezia-Finlandia è stato soprattutto un ricco aperitivo in attesa della partita da circoletto rosso prevista sempre al Bell Centre in serata: Canada – Stati Uniti.
Prima del fischio di inizio era difficile capire cosa aspettarsi. Se a livello economico e demografico il Canada è un “nano” in confronto agli Stati Uniti, la situazione si ribalta quando si parla di hockey. Storicamente la Nazionale canadese è di un altro livello ma a questo torneo, come detto, quella americana si era presentata con una squadra talmente competitiva in tutte le zone del campo da renderla una rivale credibile (e questo nonostante l'assenza del talentuoso difensore Quinn Hughes). Pur dando al Canada un leggero vantaggio, alcuni esperti avevano previsto una vittoria degli Stati Uniti, considerando il suo portiere, Connor Hellebuyck, molto più affidabile rispetto alla controparte canadese, Jordan Binnington. Nelle fila canadesi, poi, pesava l’assenza dell’ultimo minuto di Cale Makar, uno dei migliori difensori di tutti i tempi.
Fin da subito, però, è stato chiaro che in gioco non c’erano solamente i tre punti. Lo certificava l’atmosfera elettrica sugli spalti ma anche il dibattito sui social, una realtà che ha più peso di quanto ci piaccia credere.

Le aspettative erano già alte, insomma, ma alla luce di ciò che è successo si può dire che nemmeno i più creativi sceneggiatori di Hollywood avrebbero potuto pensare ad uno svolgimento pirotecnico come quello andato in scena al Bell Centre.
La partita è cominciata con i prevedibili fischi del pubblico di Montreal all'inno statunitense - fischi che probabilmente hanno avuto un effetto collaterale inaspettato. Ben consapevoli dell’accoglienza ostile che gli sarebbe riservata, i giocatori americani hanno infatti alzato subito i ritmi nel tentativo di imporre il proprio gioco. Come pre-concordato in una chat con alcuni suoi compagni di squadra, non appena l’arbitro ha lasciato cadere il disco dando inizio all’incontro, Matthew Tkachuk ha iniziato una rissa con il canadese Brandon Hagel, che però ha retto lo scontro buttando l’avversario a terra.
Al contrario di quanto avviene in altri sport, nell’hockey su ghiaccio una scazzottata è tollerata a patto che entrambi i contendenti accentino, buttando i guanti, di fronteggiarsi uno contro uno fino a che gli arbitri non decidono di intervenire e mettere fine allo scontro. A quel punto scatta una penalità che però riguarda entrambi i giocatori e non impatta troppo sul resto dell’incontro.
Per quanto rispetto a qualche decennio fa questo tipo di scontri provochino meno entusiasmi che in passato, questo inizio ha mandato l’intero palazzetto e le panchine di entrambe le squadre in visibilio. La scazzottata ha dato un’impronta chiara all’incontro e nessuno dei protagonisti, da quel momento, si sarebbe mai sognato di non dare il 100% sul ghiaccio. Entrambi gli atleti, andando a sedersi per scontare la penalità, hanno iniziato ad aizzare pubblico e compagni, mentre in campo continuavano le provocazioni che lasciavano presagire ulteriori risse. E infatti non c'è stato bisogno di aspettare molto, con Brady Tkachuk che di lì a poco si è premurato di vendicare il fratello Matthew, buttando a terra Sam Bennet.
Con i fratelli Tkachuk entrambi in panca, sembrava che la partita potesse finalmente iniziare ma, dopo un tiro velleitario dell’attacco statunitense verso la porta di Binnington, la minacciosa presenza degli atleti statunitensi a ridosso dell’area canadese ha scatenato una nuova rissa. A gettare i guanti questa volta sono stati lo statunitense J.T. Miller, uno dei più attivi nel provocare i canadesi, e il possente difensore Colton Parayko.
I primi pazzeschi nove secondi effettivi di gioco dell’incontro.
Chissà forse sarebbe potuta andare avanti così a lungo. Gli arbitri quindi hanno deciso di dare agli Stati Uniti due minuti di penalità, riuscendo in questo modo a far cominciare realmente una partita che comunque è stata giocata da entrambe le squadre con un’incredibile intensità.
L’iniziale rete di McDavid ha illuso il Canada ma prima Guentzel e poi Larkin hanno ribaltato l’incontro. Malgrado gli sforzi, il talentuoso attacco canadese non è riuscito a mettere in crisi il ben organizzato sistema difensivo statunitense che, grazie anche a un solido Hellebuyck, ha mantenuto il vantaggio. Anzi, di più: a un minuto dalla fine, quando ormai nel disperato tentativo di forzare il pareggio il Canada aveva fatto uscire il portiere per beneficiare di un giocatore di movimento in più, gli Stati Uniti hanno trovato sempre con Guentzel la rete del definitivo 3-1.
Galvanizzati dal clima ostile, e trascinati da giocatori grintosi come i fratelli Tkachuk, gli Stati Uniti sono riusciti ad avere la meglio qualificandosi con un turno d’anticipo per una finale il cui peso sportivo, sociale, culturale e politico andava aumentando di giorno in giorno.
CANADA-STATI UNITI, LA RIVINCITA
Per le ultime tre partite è cambiato lo scenario. Le quattro squadre si sono spostate da Montreal a Boston, dove gli Stati Uniti ormai già qualificati, e davanti a un pubblico amico, hanno perso contro la Svezia per 2-1. Il Canada, dopo essere andato in vantaggio anche per 4-1 contro la Finlandia, ha invece rischiato di compromettere l’accesso alla finale, subendo due reti nei minuti finali prima che una grande giocata difensiva del capitano Crosby mettesse la parola fine all’incontro sul 5-3.
Pur chiudendo il torneo con gli stessi punti della Svezia, il Canada è riuscito comunque a conquistare l’accesso alla finale grazie al successo all’overtime nello scontro diretto, ottenendo così un’attesissima rivincita contro gli Stati Uniti.
Ancora una volta il contorno socio-politico ha dato ulteriori significati ad un incontro sportivo a quel punto già di per sé molto sentito da giocatori, giornalisti e tifosi. In particolare, è stato il presidente degli Stati Uniti a politicizzare in prima persona la vigilia del match.
Pur non presentandosi personalmente a Boston, come invece aveva fatto in occasione del Super Bowl, Donald Trump ha voluto parlare alla squadra per augurare loro buona fortuna, premurandosi di condividere sui propri social il video della telefonata assieme ad uno sconnesso messaggio scritto con parti in maiuscolo. Nel messaggio, Trump auspicava nuovamente che il Canada con «tasse più basse e maggiori sicurezza» potesse diventare presto il cinquantunesimo stato degli Stati Uniti.
J.T. Miller è stato uno dei più entusiasti della telefonata presidenziale. «Non è affatto scontato che abbia trovato anche solo cinque minuti di tempo per parlare con noi», ha dichiarato «È un'altra di quelle cose incredibili di questo torneo».
A quest’ennesima provocazione politica, molti tifosi canadesi, non senza un certo senso dell’ironia, hanno risposto postando sui social o presentandosi allo stadio con magliette del Canada a cui era stato applicato il numero 51.
Non sappiamo che effetto abbiano avuto queste distrazioni sullo spogliatoio canadese, o se qualche fischio all'inno, arrivato questa volta dai tifosi statunitensi, abbia contribuito a fornire ai giocatori capitanati da Crosby motivazioni ulteriori alla già notevole voglia di rivalsa. In ogni caso, se possibile, la finale è stata ancora più intensa e combattuta dell’incontro del 15 febbraio (anche se senza il violento prologo delle tre scazzottate in 9 secondi di gioco).
Gli highlights della finale.
I canadesi si sono portati avanti con una bella giocata di Nathan MacKinnon, ma poi, esattamente come nel primo incontro, hanno subito la rimonta statunitense, prima grazie alla determinazione, in mischia, di Brady Tkachuk e poi nel secondo con il giovane Jake Saunderson, abile a mettere in porta il disco dopo una serie di tiri fermati da Binnington. Questa volta però i canadesi hanno reagito trovando un bel pareggio sull’asse Marner-Bennet.
Il risultato è rimasto sul 2-2 per tutto il terzo tempo, costringendo le squadre ad un ulteriore spettacolare sforzo nell’overtime. A quel punto decisivi sono risultati i portieri, e il tanto criticato Binnington è salito sugli scudi mantenendo la porta inviolata fino a che la stella degli Edmonton Oilers, Connor MacDavid, lasciato per la prima volta solo dalla difesa statunitense, non ha trovato il varco giusto per mettere a segno la rete decisiva.
Un gol che il politologo Ian Bremmer, non senza qualche forzatura, ha innalzato a metafora della politica estera trumpiana.
Nella sfida della politica, l’ultima parola l’ha avuta quindi il Presidente canadese, Justin Trudeau, che saggiamente fino a quel momento aveva preferito mantenere un basso profilo. Grande appassionato di sport e tifoso di hockey, galvanizzato dai festeggiamenti per la vittoria, ha scritto sui suoi profili social riferendosi implicitamente a Trump: "you can’t take our country or our game", cioè: non potete prendervi il nostro Paese o il nostro gioco.
I RISVOLTI DELLA VITTORIA
Ovviamente la vittoria del Canada nel 4 nations face off non cambia nulla nei rapporti di forza politici ed economici tra Washinghton e Ottawa, che probabilmente rimarranno difficili nei prossimi mesi. Tutt’al più potrà garantire ai canadesi quell’effimero feel good effect che può arrivare a seguito di grandi successi sportivi e che potrebbe accrescere il patriottismo dei canadesi in opposizione all’altro statunitense.
Piuttosto è interessante osservare questo evento da un’altra prospettiva. Se non ci fosse stato Trump, se non ci fosse stato di mezzo il nazionalismo e la rivalità sportiva, questo 4 nations sarebbe rapidamente finito nel dimenticatoio e invece, a suo modo, rischia di entrare nella storia, quantomeno dell’hockey e del Canada. Per quanto possa sembrare strano, sono state proprio quelle tensioni politiche che in altri contesti, sfociando in boicottaggi, esclusioni e proteste hanno rovinato eventi sportivi, a contribuire in maniera decisiva al trionfo di un torneo di hockey nato quasi per caso con aspettative di successo bassissime.
Insomma, alla fine, non senza un certo pragmatismo dettato dall’essere un atleta canadese che gioca per una squadra statunitense, la sintesi perfetta sembra averla trovata l’MVP del torneo, Nathan MacKinnon. «In questo momento ci sono tante questioni fra Canada e Stati Uniti e trovarci a giocare l’uno contro l’altro è stata una sorta di tempesta perfetta per il nostro sport», ha dichiarato MacKinnon «Non avremmo mai pensato di diventare così popolari e di attirare così tanta attenzione da tutto il continente».
Nella sfida fra Canada e Stati Uniti, quindi, la vera vincitrice è stata la NHL che ha mostrato alle altre leghe professionistiche nordamericane la strada per pensionare gli All star games mettendo a tacere quelle voci secondo cui nello sport del futuro non c’è spazio per le Nazionali.
Come ci insegna la storia delle Olimpiadi, il nazionalismo è la fiamma capace di accendere un evento sportivo, con attenzione ad utilizzarlo con la massima cautela perché il rischio di bruciarsi - anzi, di appiccare fuoco ben oltre lo stadio - è altissimo.