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Eric Cantona: niente da giustificare
26 mag 2018
Un estratto dal libro "Cantona" di Daniele Manusia, edito da add, sul celebre calcio del campione francese al tifoso che lo insultava dalla tribuna.
(articolo)
20 min
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In occasione del 52esimo compleanno di Eric Cantona pubblichiamo questo estratto, tratto da “Cantona - Come è diventato leggenda”, di Daniele Manusia, che potete acquistare qui.

Nel Dvd ufficiale del Manchester United dal titolo Eric The King, con coypright 1994, c’è un capitoletto dedicato alla questione dell’«enfant terrible». Per tutta la durata dell’intervista Eric sta seduto su uno sgabello dall’aria scomoda, inquadrato frontalmente con una luce un po’ sparata e un fondo scuro. Sembra più uomo. Forse per via dei capelli corti tenuti all’indietro dal gel (con le righe lasciate dai denti del pettine) o perché porta la giacca (marrone chiaro, con sotto un gilet nero, camicia azzurra e cravatta violetta). In generale fa l’effetto del contadino ripulito ma parla con un tono calmo e sicuro (in francese, doppiato, ma a Manchester per le conferenze aveva un interprete).

Eric dice: «Il perfezionismo non si insegna, è un bisogno». Si chiede: «Cos’è l’arte?», e si risponde: «L’arte è spontaneità».

Fa l’esempio dell’attore che cerca di recitare una battuta come un bambino, del pittore che cerca la libertà del gesto, dello scrittore che assolutamente non deve tornare su quello che ha scritto, come facevano i surrealisti con la scrittura automatica.

Il calcio è la più bella delle arti, unisce alla spontaneità l’efficacia. Alla bellezza di un gol la sua importanza, la sua necessità e «se non sei spontaneo non puoi avere successo».

Vediamo un’entrata a forbice da dietro su un giocatore del Norwich, Jeremy Goss (peggiore di quella fatta su Der Zakarian, con i tacchetti orientati verso l’interno del ginocchio di Goss, e l’espressione rabbiosa di Cantona nel replay è abbastanza significativa nonostante i pochi pixel a disposizione). Lui commenta: «Non posso avere la passione che ho, una specie di fuoco che chiede di uscire, senza che questo fuoco a volte faccia danni. E danneggi me stesso. Sono consapevole di farmi del male e di farne agli altri. Sono consapevole di deludere quelli che non capiscono che non posso essere quello che sono senza questo lato della medaglia».

Qui interviene la voce di Ferguson: «Gliel’ho detto: non entrare in tackle, perché non sai farlo e ti fai ammonire».

Ferguson, con la felpa grigia con le iniziali AF e un’aria più umana di quella che ha adesso (aveva appena conosciuto il vero successo), dice che probabilmente il suo comportamento non è migliore dopo la partita, quando riprende i suoi giocatori negli spogliatoi (lo chiamavano «l’Asciugacapelli» per come gridava in faccia ai calciatori e nel 2003 nella foga di una sconfitta calcerà uno scarpino in faccia a Beckham ferendogli un sopracciglio).

Una scenetta istruttiva: Ian Culverhouse, giocatore del Norwich, un tipo belloccio dall’aria delicata, gli si aggrappa alla maglia da dietro e cadono entrambi in terra. Culverhouse si alza rapidamente e si rimette a correre verso la palla come se niente fosse. Cantona invece si gira frontalmente verso di lui e senza scomporsi gli dà un calcio colpendolo in mezzo alle gambe e mandandolo di nuovo a terra. Subito dopo Cantona e Culverhouse litigano per la palla. Il giocatore del Norwich, in un modo anche divertente, gliela allontana tenendola sotto braccio, scuote la testa e solleva il dito indice come farebbe un padre per riprendere il proprio figlio. Eric la smette e l’arbitro non l’ammonisce neanche.

«Le persone che amano vincere hanno tutte questo carattere, no? Non gli piace perdere, e ognuno reagisce in modo diverso di fronte alla sconfitta», dice Ferguson.

Eric non è infastidito a parlare di queste cose. «Non devo giustificare niente, non ho nessun rimorso. Sono quel che sono e non posso cancellare i brutti gesti perché sono una parte di me. Il problema è che devo restare me stesso e contemporaneamente eliminare questa parte di me. È difficile. Ci ho provato in passato, ma poi mi sono perso, ho perso il mio gioco. E non devo perderlo. Devo trovare una soluzione e credo di averla trovata».

Pausa. Adesso Cantona non sta più facendo il video per i suoi tifosi. Sta succedendo qualcosa di diverso. Giurerei che è cambiata la luce nei suoi occhi, anche se è solo il riflesso delle luci dello studio. «E credo di averla trovata. Voi non lo sapete ma ho trovato una soluzione.» Ride e ripete: «L’ho trovata, l’ho trovata...» Guarda in terra verso sinistra mentre pensa, ma quando parla si rivolge a qualcuno dietro la telecamera, vuole persuadere quella persona di fronte a lui, il livello di sincerità è altissimo e così finisce per persuadere me.

«Ma non...», continua Cantona, «non devo provare a spiegarlo. Non devo spiegarlo e non è una cosa da sapere. Si dovrà constatare. Perché non posso spiegarlo.»

Ad agosto 1994 Eric prende altre tre giornate di squalifica per essere stato espulso durante un’amichevole contro i Rangers di Glasgow. Ferguson commenta: «Se sente che si sta compiendo un’ingiustizia deve dimostrare al mondo intero che lui la correggerà».

I difensori avversari lo prendono di mira. A metà settembre, Neil «Razor» Ruddock, centrale difensivo del Liverpool, si diverte ad abbassargli il colletto quando è di spalle. Eric gli entra da dietro e l’arbitro lo ammonisce. A fine partita aspetta Ruddock fuori dallo spogliatoio ma quello tarda apposta a uscire.

Lo United vince il secondo Charity Shield consecutivo, il terzo per Eric, ma in Champions League, durante la sua squalifica per i fatti di Istanbul, dopo quattro partite i punti sono solo cinque. A novembre il Barcellona (sempre allenato dal mito personale di Eric: Cruyff) passeggia sui suoi compagni, una sconfitta per 4-0 che mette in seria discussione il loro valore fuori dai confini nazionali.

Eric può giocare nella partita dopo, ma lo United perde a Göteborg contro l’IFK (che terminerà primo il girone) ed è praticamente eliminato. Rob Hughes sul «Times» si chiede: «È giunto il momento di dire au revoir a Cantona?».

In campionato il Manchester United ha perso quattro partite e all’inizio del 1995 è secondo dietro al Newcastle. Il 25 gennaio 1995, in trasferta al Selhrust Park di Londra, Cantona si fa espellere per aver calciato Richard Shawn, un difensore del Cristal Palace, mentre correvano appaiati. Shawn lo aveva marcato troppo stretto? Il commentatore parla di «calcetto di frustrazione».

Dopo il fallo gli avversari lo spingono e gli puntano il dito contro, i compagni fanno da filtro. Gli arriva una pallonata da lontano, sul bassoventre, ma lui quasi non se ne accorge. Guarda sopra le teste dei giocatori che lo circondano. Quando vede il cartellino si mette le mani sui fianchi e fa pochi passi in tondo, incredulo, poi si avvia verso l’uscita. Si tira giù il colletto nero con il bordino giallo che era rimasto teso (chissà se c’era qualche trattamento speciale cui sottoporlo per renderlo resistente in quel modo), cammina scuotendo la testa. Si ferma a metà strada, sembra confuso ma non arrabbiato. Dietro di lui c’è Ferguson impassibile che guarda da un’altra parte. L’arbitro aspetta che il giocatore espulso esca dal terreno di gioco. Andy Cole gli si avvicina a pochi centimetri dalla faccia, forse lo sta insultando, ma l’arbitro sporge la testa di lato per controllare che Cantona esca. Ha ancora il braccio alzato.

Sembra tutto finito quando Cantona si avvicina minaccioso alla tribuna. Un membro dello staff dello United lo trattiene ma Eric si libera facilmente e si mette a correre verso gli spalti (l’uomo che ha provato a trattenerlo si chiamava Norman Davies e a partire da quel giorno venne soprannominato «Vaselina»). Cantona si stacca da terra con un gamba tesa e l’altra piegata a squadra. Con le braccia larghe sembra tenere un immaginario mantello di Batman. Atterra di fianco sui cartelloni pubblicitari McDonald’s, resta in bilico sul corrimano di metallo come una tartaruga girata sul carapace. L’impressione è che anche in quella posizione provi a dare un calcio con la destra, alla cieca, rischiando di prendere una signora con un cappotto chiaro e la bocca e gli occhi spalancati. Cade in piedi e in un istante è di fronte al suo avversario, un tizio biondo con un bomber nero, e almeno uno dei due tentativi di colpirlo con il diretto destro va a segno. Quando lo portano via, dalla tribuna gli tirano contro bicchieri di tè.

Il giorno seguente il capo della polizia si dice contento che non sia scoppiata una rivolta (è di un mese dopo la famosa battaglia tra i tifosi del Chelsea e quelli del Millwall, con la polizia a cavallo a separarli). Viene aperta un’inchiesta, due tifosi hanno denunciato sia lui sia Paul Ince, che a quanto pare è accorso in suo aiuto gridando allo stadio intero di farsi sotto.

I giornali scoprono subito che Matthew Simmons, il ventenne che si è preso il calcio in petto, ha simpatie fasciste e precedenti penali (aveva rapinato una pompa di benzina e picchiato l’inserviente, originario dello Sri Lanka, con una trave lunga un metro). Simmons vende la sua storia al «Sun» e si fa fotografare con la camicia aperta sullo sterno francamente rachitico. La sua versione dei fatti lo vede scender venti file di posti per andare al bagno e già che era a bordo campo proprio mentre Cantona passava ne ha approfittato per dirgli: «Vatti a fare una bella doccia». Dei testimoni però lo hanno sentito dire: «Vaffanculo-in-Francia-bastardo-francese-figlio-di-puttana».

Nel frattempo Cantona è sparito. È andato in vacanza a Guadalupa con Isabelle incinta della loro seconda figlia (Josephine). «Prima sento il bisogno di andarmene, dimenticare tutto, fuggire», dirà a mente fredda, descrivendo momenti come questo. «Poi, rapidamente, l’orgoglio e forse anche un certo senso dell’onore mi spingono a prendere l’iniziativa. A quel punto posso affrontare tutto a testa alta. Non è facile farmi fuori.»

Un reporter della ITN lo trova e lo fotografa mentre gioca a basket, con un costume da bagno a bandiera americana e un cappellino dei New York Yankees. Fotografa persino Isabelle in spiaggia con il pancione, per l’indignazione di tutti. Al ritorno, Eric trova la sua Audi vandalizzata nel parcheggio dell’aeroporto.

Il «Daily Mail» raccoglie testimonianze. Bruce Millington, ventotto anni, era ad appena dieci metri di distanza: «Sembrava un personaggio di Mortal Kombat». Sotto, in uno specchietto il giornale chiede: «Conosci il tifoso colpito da Cantona? Se lo conosci chiamaci al numero...»

La donna a bocca aperta di fianco a Simmons è Cathy Churcman e lavora come manager in un hotel. Nella serie di foto dell’incidente la si vede ridere di fianco a Simmons un attimo prima che la situazione precipiti. Nei giorni seguenti rilascia interviste ai giornali e va ospite in Tv. Il marito lavorava con degli americani, gli dicevano che oltreoceano sua moglie stava diventando più famosa di Lady D. Anni dopo, il figlio Steve racconterà che la madre stava ridendo perché un tizio vicino a loro, che si era dato malato a lavoro, temeva che il capo lo avrebbe riconosciuto negli highlights, dato che Cantona stava passando proprio di fianco a loro.

Fotografi e giornalisti stazionano nel giardino davanti al salotto di Cantona a Manchester. Eric ricorda che casa sua era piccola e il muro di reporter gli toglieva la luce. «Era impossibile fuggire». Esce per andarsi ad allenare con un maglione rosso, blu, giallo, con una trama nera vagamente zebrata, con sopra disegnati fulmini, teschi e scarabei. Nel negozio del club compra una maglietta con il suo nome e numero. Si fa vedere nel centro cittadino, dei ragazzi lo provocano, lui non reagisce. Un reporter inglese va a Marsiglia davanti a casa del padre, che esce con il fucile in mano e gli dice di stare attento con quel microfono peloso, potrebbe scambiarlo per un coniglio, e lui ai conigli spara.

In molti chiedono che Cantona venga squalificato a vita. Già durante il resto della partita i tifosi del Cristal Palace avevano cantato: «He’ll never play again». Brian Clough, l’allenatore che negli anni Settanta aveva vinto due Coppe dei Campioni consecutive con il Nottingham Forest, dice che sarebbe il caso di tagliargli le palle.

«L’Équipe» aveva titolato in prima pagina: «Indifendibile» e nel suo editoriale Gérard Ejnès sosteneva che un finale «con lacrime e rabbia» era quello che si aspettavano tutti. «Si poteva immaginare a tal punto un’uscita di questo tipo che ci vergogniamo per chi ha avuto il coraggio di dargli la fascia da capitano della Nazionale un anno fa.» Lo trattano come un giocatore finito su cui dire l’ultima parola. «La sua rabbia è un grido d’aiuto, i suoi eccessi la confessione della sua inferiorità.»

«Non ci interessa l’ultima pazzia di Cantona», si legge sul «Provençal», quotidiano della regione marsigliese. «E non ci manca.»

«France Soir» chiede agli inglesi: «Per piacere tenetevelo. Vi scongiuriamo, tenetevelo».

La Federazione Francese gli toglie la fascia da capitano. Claude Simonet, presidente della FFF, dichiara in Tv: «La gravità delle immagini viste e il suo modo di essere implicano che difficilmente resterà qualcuno di rispettato nel calcio francese». (A questo Cantona risponderà: «Avevo dei problemi con il presidente della federazione francese e quello della Lega, perché sono persone che pensano di sapere tutto di calcio e invece non sanno niente».)

Per i difensori di Cantona (pochi nella stampa) Simmons è un razzista, un hooligan. Jimmy Graves sul «Sun» scrive: «Perché non analizziamo le responsabilità di Simmons e di tutti i cafoni che pensano che il loro ingresso da dieci sterline gli dia diritto di dire qualsiasi cosa a un altro essere umano?»

Viene messa in vendita una maglietta «WANTED» con la foto di Simmons, il suo vero indirizzo e il numero di telefono. Ci sono anche magliette con su scritto che Cantona è «innocente». Simmons confessa: «Ho molta paura, la gente mi chiama a tutte le ore del giorno e della notte. Pensano che sia io ad avere torto». La ragazza lo lascia e per strada qualcuno lo riconosce e lo picchia. Non può più andare al pub e perde anche il lavoro.

Aspettando la decisione della Federazione inglese, lo United squalifica Cantona in via preventiva fino a fine anno. Durante la conferenza stampa lui non parla, siede a fianco a Martin Edwards che dice che Cantona non ha mai provato a difendere né a minimizzare l’accaduto, che rimpiange profondamente quello che ha fatto.

La Federazione inglese raddoppia la squalifica decisa dal club, Eric dovrà restare fermo otto mesi in tutto, fino al 30 settembre 1995. Non potrà giocare neanche le amichevoli e la squalifica è valida anche a livello internazionale (nel caso in cui pensasse di cavarsela cambiando squadra e campionato).

Ferguson commenta così la decisione della FA: «Credo che nessun giocatore nella storia del calcio inglese prenderà la stessa squalifica a meno di ammazzare il cane di Bert Millichip». Millichip era, appunto, il capo della FA. Poi c’è il processo civile. Eric si presenta davanti alla corte di giustizia con una giacca di panno blu (senza baveri, con una fettuccia di cuoio sul bordo interno, le spalline imbottite e una spilla a forma di Statua della Libertà) con sotto una maglietta grigia larga. Ince ricorda di avergli detto che non poteva presentarsi vestito in quel modo. «Sono Cantona, posso vestirmi come mi pare.» Viene condannato a 14 giorni di prigione, Ince pensa: «Dev’essere stato per la maglietta».

Sconta in cella tre ore in cui firma autografi, prima di versare una cauzione di cinquecento sterline. Anche Simmons viene condannato per comportamento minaccioso, e passa in cella ventiquattro ore.

Il 31 marzo la pena di Cantona viene convertita in 120 ore di lavori di utilità sociale che spenderà insegnando calcio ai bambini della sua zona.

«Quando i gabbiani – pausa – seguono il peschereccio, è perché pensano che verranno gettate in mare delle sardine. Grazie molte.»

Cantona ha sempre detto che la frase pronunciata in conferenza stampa dopo la seconda udienza (con una giacca pesante grigia, un doppiopetto nero, la camicia bianca, i capelli sulla fronte: era la prima volta che parlava dopo l’incidente) era spontanea e non significava assolutamente nulla. «Ho provato a dire qualcosa che non volesse dire niente. Ma dopo è diventata una frase molto famosa e mi sono divertito a leggere le interpretazioni della gente.»

I dubbi a tal riguardo consistono in: (1) pur ammettendo che il suo inglese fosse migliorato al punto da conoscere la parola «seagulls», gabbiani, sembra difficile che potesse sapere che peschereccio si dice «trawler»; (2) la metafora appare evidente: i gabbiani sono i giornalisti, lui il peschereccio, le sardine i gossip, insomma un modo originale per dargli degli avvoltoi; (3) una metafora del genere sembra semplicemente troppo giusta perché si possa improvvisare, allora credendo alla sua buona fede si può pensare che almeno possa averla sentita da qualcuno poco prima di sedersi o addirittura nei giorni passati e che possa essergli rimasta nelle orecchie in modo inconsapevole; (4) quando si ferma subito dopo aver iniziato a parlare e beve un bicchiere d’acqua sembra davvero una cosa troppo teatrale per essere naturale, studiata, ricercata, fatta con gusto; Cantona sembra godersi la colonna sonora degli scatti dei fotografi e i suoi occhi scintillano sotto i flash mentre i giornalisti si chiedono l’uno l’altro: Ha detto proprio «seagulls»? Se davvero si è trattato di un’improvvisazione, allora quella conferenza è una delle migliori performance da attore che io abbia mai visto.

Ad aprile del 1995 lo United gli fa firmare un nuovo contratto. Eric si presenta con una giacca a righe rosse e bianche, una t-shirt rossa e dei jeans chiari. Firma e poi dice: «Adesso vado, mi devo allenare perché a ottobre ho una partita», mettendosi la mano sulla fronte come per guardare lontano.

La pressione resta alta e Ferguson comincia a temere che Cantona non possa più tornare a certi livelli in Inghilterra. «Vogliamo che resti, insieme possiamo uscire da questa situazione.»

A luglio lo fanno giocare in una partita d’allenamento a porte chiuse, senza pubblico, ma si viene a sapere e la Federazione inglese pretende spiegazioni. Cantona, tramite l’avvocato Bertrand, minaccia di lasciare il Paese. La FA accetta le spiegazioni del Manchester ma ormai Eric ha chiesto di andarsene e ad agosto sembra impossibile evitare il suo passaggio all’Inter (da pochi mesi nelle mani di Massimo Moratti, che tra l’altro aveva già convinto Ince a trasferirsi da Manchester a Milano), ma Ferguson riesce a trattenerlo inseguendolo fino a Parigi. «Non avrei potuto lasciare il Manchester United dopo quello che hanno fatto per me», commenta Eric.

Tutto sommato non sembra un periodo così brutto per Cantona. Scontare la pena passando del tempo coi bambini si rivela una bella esperienza: «Non è stata una punizione, ma un regalo. Grazie», dice nel Dvd prodotto un anno dopo dal club: Cantona Speaks. (Rispetto a quello precedente Eric sembra invecchiato di dieci anni: è completamente rasato, indossa un completo blu elettrico e l’inquadratura ravvicinata gli taglia la fronte. Parla sotto voce, in inglese, non benissimo, ma si fa capire.)

Secondo Ferguson quell’esperienza era servita a renderlo più umile. Durante i sei mesi di inattività Eric si allena da solo, corre in un parco, fa pesi in palestra e tira di boxe con una maglietta rossa con il logo nero della Nike, passeggia con l’aria pensosa e le mani dietro la schiena in mezzo a un campo da calcio vuoto, palleggia con le scarpe da ginnastica.

Si mette a suonare la tromba: «Non credo di essere molto bravo, ma è stato divertente. Mi ha aiutato, come molte altre cose». Gira il suo primo film (Le bonheur est dans le pré, in cui interpreta un giocatore di rugby) e va a vedere uno spettacolo teatrale a lui ispirato, Ode à Cantò, in cui un attore con la maglia rossa dello United fuori dai pantaloncini e il colletto alzato recita la battuta: «Cantò. Decaduto. E nel frattempo ricominciano i bombardamenti, una centrale nucleare fa venire il cancro a dieci milione di persone, e sui cartelloni dell’Affront National c’è un bambino morto». («Affront National» è un gioco di parole con il partito di estrema destra Front National.) A Eric piace e all’uscita dichiara che è incredibile quante cose possono fare gli attori, mentre i calciatori possono solo giocare a calcio. Il suo personaggio ha detto cose che lui non può permettersi di dire ma che condivide.

La Nike realizza tre pubblicità diverse sfruttando la sua nuova aura da martire ribelle. Nella prima Cantona divide le battute con l’attaccante nero del Newcastle, Les Ferdinand. «Cosa vedi? Un nero? Un francese? O un calciatore?», dicono. «Io so che la violenza è inaccettabile. Quindi perché dovrei accettare l’odio? Perché litigare sulle differenze? Io preferisco giocare a calcio.» Nella seconda Cantona con faccia contrita dice: «Ho commesso errori terribili. Lo scorso anno in certe partite ho segnato solo un gol. Contro il Newcastle sono andato a tre centimetri dal palo. E a Wembley non sono riuscito a realizzare una tripletta. Mi rendo conto che questo comportamento è inaccettabile. E prometto di non ripetere questi errori in futuro». Nella terza Eric è appoggiato a un muro e riepiloga altri suoi errori: «Sono stato punito per aver sputato a un tifoso – smorfia – per aver tirato la maglia addosso a un arbitro – sgrana gli occhi – e per aver dato al mio allenatore del “sacco di merda” – scuote la testa pentito – poi ho dato degli “idioti” alla giuria. Pensavo che avrei avuto difficoltà a trovare uno sponsor».

Prima della fine della squalifica viene affisso un cartellone con la frase: «Ha pagato per i suoi errori. Ora tocca a qualcun altro».

In Cantona Speaks, Eric spiega così il suo apparente distacco: «Sapevo che molta gente si aspettava le mie scuse. Non le ho fatte perché non mi piace dire quello che la gente vuole che io dica».

Anche se non si è mai direttamente scusato per il suo Più Brutto Gesto, per forza di cose si è ritrovato a doverne parlare più volte nel corso degli anni. È stata una grande esperienza per noi, figuriamoci per lui: «Prima di quella notte mi comportavo come un bambino. Ero pronto a ripetere lo stesso errore ma ho realizzato quanto fosse da irresponsabili».

Non ha mai avuto intenzione di difendersi ma ha comunque specificato che non era una sua pretesa quella di essere un esempio: «Anzi, ho sempre rifiutato di esserlo. È questo che mi dà la libertà di fare e dire ciò che voglio. Non proprio tutto. Fortunatamente. Solo un po’ più degli altri». Oppure, con altre parole: «Ero solo un calciatore e un uomo. Non voglio essere una persona superiore. Voglio poter fare quello che mi va di fare. Se voglio prendere a calci un tifoso, lo faccio. Non sono un modello di comportamento. Non sono una specie di professore che ti dice come devi comportarti. Più vai avanti, più ti rendi conto che la vita è un circo».

Ha sempre vissuto seguendo il proprio istinto, perché avrebbe dovuto smettere in quel momento? «La cosa importante per me è che sono stato me stesso!» E aggiunge che quando hai fatto una cosa che neanche tu capisci, «La cosa migliore è fare un passo indietro e ridere di se stessi». In prospettiva quella scena si può anche vedere così: «Era un dramma e io ero l’attore principale. Faccio le cose seriamente senza prendermi sul serio».

Per quanto si fosse trattato di un momento spettacolare, e Cantona si rende conto che quel suo gesto sembra fatto per diventare un’icona, non gli va dato un significato particolare. Non gli piace neanche che si parli di kung fu kick: «C’era una barriera tra di noi. Tutto qui. Altrimenti avrei usato direttamente i pugni. Sai, di tipi così se ne incontrano migliaia. Ma come andranno le cose lo puoi sapere solo nel momento stesso in cui ti capitano davanti. Se avessi incontrato quello stesso tipo e avesse detto quelle stesse cose un altro giorno magari le cose sarebbero andate diversamente. La vita è strana».

Anche se a pensarci bene non è detto che non abbia avuto un effetto catartico sugli spettatori. «Magari le persone sognano di dare un calcio a un tipo come quello. L’ho fatto per tutti loro. Per renderli felici. Le persone a volte sono sotto pressione al lavoro, nella vita, e non possono farci niente.»

Pochi anni dopo, in una trasmissione Tv francese Cantona ha attaccato i giornalisti che lo avevano definito «indifendibile». «È peggio di un insulto perché significa: questo tizio qui voi lo mettete da una parte, nessuno lo difende, non c’è un cazzo da fare [poi dice qualcosa che non ho capito] e non se ne parla più perché ha già dato troppo fastidio.»

Uno dei due giornalisti davanti a lui era quel Patrick Urbini che sull’«Équipe» aveva parlato di «un’opportunità» per la Francia di liberarsi di lui, come leader in campo e spirituale. Un Cantona monumentale, in maglietta rossa, con pochi millimetri di capelli, punta il dito contro di lui e fa: «A giornalisti come questi due io gli piscio in culo». Scandendo bene: «Io. Gli. Piscio. In. Culo».

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