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Capire il tennis, capire il gioco: intervista a Andrey Rublev
17 giu 2022
Abbiamo parlato con il tennista russo, attuale numero 8 al mondo.
(articolo)
9 min
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I tabelloni dei tornei di tennis funzionano secondo regole precise, per garantire il massimo equilibrio possibile delle partite. Nei sorteggi, le teste di serie vengono inserite in posizioni prestabilite e equidistanti, il numero uno nella prima riga e il numero due nell’ultima, per fare in modo che i primi otto giocatori del ranking possano avanzare fino ai quarti di finale prima di incontrarsi. In questo Roland Garros, Andrey Rublev, se fosse stato ancora numero 5 del mondo come era all’inizio dell’anno, si sarebbe trovato al posto di Nadal: da proiezioni, il suo percorso verso la finale avrebbe previsto al terzo round Botic van de Zandschulp, agli ottavi Auger Aliassime, quarti con Djokovic, semifinale con Zverev. Con Van De Zandschulp ha perso due volte su due, anche in casa.

Rublev è ai quarti di finale del Roland Garros, ed è la testa di serie più alta rimasta nella parte bassa del tabellone. Nella partita degli ottavi, dopo un primo set dominato, Jannik Sinner è stato fermato da un dolore al ginocchio, e si è ritirato all’inizio del terzo. Aveva senso pensare che avrebbe vinto l’italiano, come nei tre incontri precedenti: il loro gioco è simile in molti dettagli, ma quando si trovano uno contro l’altro la palla di Rublev diventa la più comoda da colpire per Sinner, quella perfetta per mettere in luce le sue qualità. Da numero 7 del seeding, Rublev ha avuto la possibilità di giocarsi l’accesso alla sua prima semifinale slam nella partita di quarti contro Marin Cilic, che ha eliminato, un po’ a sorpresa ma non troppo, Daniil Medvedev. La sfida tra i due è arrivata al tie-break del quinto set, che Cilic ha vinto abbastanza agevolmente. Il croato poi avrebbe perso la semifinale con Ruud. Per Rublev si può parlare di un’occasione persa.

Il suo dritto è uno dei colpi più incredibili del circuito. Colpisce la palla presto, mentre sale, quasi di piatto, utilizzando un’impugnatura semi-western, e rimanendo sempre quanto più possibile vicino alla linea di fondo. È incredibile l’accelerazione: la testa della racchetta scompare in una frustata, senza il respiro della distanza o di un’apertura ampia à la Del Potro. Il suo grunting somiglia più a quello di un pugile che a quello degli altri tennisti; e nello stesso modo lui è veloce, attento, mobile, preciso, sempre in equilibrio. Non è uno che colpisce con violenza cieca: la sensazione che trasmette è che commettere un errore non forzato gli faccia troppo più male di quanto bene possano fargli tutti i vincenti di un set, quindi non prende rischi non calcolati. Guardandolo in slow motion, perché solo così si riesce a vedere davvero, il movimento è pulitissimo, lineare, essenziale. La qualità più incredibile del suo dritto è proprio il controllo, gli scambi ad altissima intensità tenuti dalla linea di fondo, l’inside-out che finisce esatto dentro l’angolo.

Il suo è un gioco aggressivo e teso, volto a togliere il tempo agli avversari, alla ricerca serrata dell’accelerazione definitiva per trovare un vincente o costringere all’errore. La pressione che genera si applica prima di tutto a sé stesso, alla difficoltà del punto di impatto a cui si costringe, e ai tratti del suo volto, contratti e tesi, secondo un’intensità crescente finché il punto non finisce. Non c’è nulla dell’esplosività istintiva di Alcaraz, della decontrazione di Sinner, del disegno di Tsitsipas. E il racconto che fa lui di sé, riconducendo tutto il tennis alla propria sensibilità, non potrebbe essere più in contrasto con quell’immagine. È vero che Rublev sembra in guerra con sé stesso durante le partite, impegnato alla ricerca di un vincente come del sollievo da un tormento. Ma nel guardarlo da fuori, seguendo uno sport frammentato in stagioni, superfici, livelli, rivalità, stili di gioco, colpisce ascoltare un uomo di 24 anni, schivo e riservato, attribuire alle proprie emozioni non soltanto le sconfitte, ma anche tutte le sue vittorie, mettendo senza esitazione le qualità tennistiche e atletiche al secondo posto dietro alla sfera emotiva. Nel tennis si parla di sensibilità per apprezzare il tocco, la capacità della mano di accompagnare la palla, di tagliarla o accarezzarla per cambiarle traiettoria, di rallentare: una qualità fisica, espressa in un singolo gesto. Che le accelerazioni di Rublev, e il suo gioco lineare e continuo, siano espressioni di sensibilità è controintuitivo rispetto alla semantica di questo sport; ma da questo contrasto più che da qualsiasi altra analisi si intuisce quali siano le qualità umane che fanno la differenza per arrivare in vetta.

https://twitter.com/tennis_gifs/status/1461702916830547971

I quarti di finale al Roland Garros lo hanno già riportato al suo best ranking, alla posizione n.5 (ora è sceso alla numero 8). Lo scorso anno era uscito al primo turno con Jan Lennard Struff. Il suo 2021 è stato un anno di transizione, dove ha giocato stabilmente il tennis di vertice, e ha dovuto accettare frustrazioni di pari livello. Il suo exploit, nel 2020, gli aveva portato la top 10 e una collezione di otto titoli, gli ultimi tutti ATP 500; fino a Rotterdam, nel marzo 2021, rimasto il suo ultimo trofeo per quasi un anno. Passando al livello successivo, quella di Rublev è stata una stagione di piazzamenti e di crescita graduale, con finali su tutte le superfici, tutte perse, e vittorie importanti nelle competizioni di squadra, in ATP Cup, in Davis, e nel doppio misto alle Olimpiadi.

Il 25 febbraio di quest’anno, all’indomani dell’invasione russa in Ucraina, al termine della sua partita Rublev scriveva sulla lente della videocamera “no war please”. Aveva vinto in semifinale su Hurkacz e avrebbe vinto il torneo. Tra qualche settimana non gli sarà permesso di competere in alcun torneo in Gran Bretagna, a causa del ban imposto dalla federazione inglese sui giocatori russi e bielorussi.

Vorrei iniziare da questa stagione su terra. Hai avuto una partita sfortunata a Roma. A Madrid partita serrata con Tsitsipas, terzo titolo dell’anno a Belgrado battendo Djokovic in finale. In realtà hai iniziato a ottenere i migliori risultati della tua carriera da junior sulla terra battuta, anche se il tuo non è il tipico gioco da terra. Come cambi per adattarti? Qual è la chiave?

Nel mio caso, non so perché, il modo in cui sto giocando si adatta più o meno a tutte le superfici. E penso che sia davvero un’ottima cosa. Naturalmente devo adattarmi alla terra, perché il tennis è diverso, ma lo stile del mio gioco me lo permette. Il primo motivo è che mi piacciono le superfici lente. E soprattutto, anche se non gioco con molto spin, dò molta accelerazione con le mani, e sulla terra ancora di più. Credo sia questo che mi permette di fare delle belle partite sulla terra.

Sembra che la solidità nello scambio sia per te una sorta di valore morale nel tennis. Questo per come ne parli, ma anche per come giochi, per come colpisci la palla. Ti concentri sulla tecnica o cerchi di lasciarti andare?

No, non si tratta di tecnica. Perché ho già la mia tecnica, l’ho costruita nel tempo, ci si concentra sulla tecnica soprattutto crescendo, da junior. Ora si tratta più di migliorare, capire il tennis, capire il gioco. Prendere le decisioni giuste durante gli scambi, sapere come usare i tuoi punti forti, e sapere come usare le tue debolezze. Nel mio caso ci sono delle cose buone, ma allo stesso tempo ho bisogno di migliorarmi su altre. La cosa buona è che quando sono nello scambio, inteso come uno scambio normale dalla linea di fondo, due o tre colpi dopo la risposta, in quella situazione penso di essere abbastanza solido. Questo mi permette di competere dalla linea di fondo con la maggior parte dei giocatori. Ma il tennis di oggi spesso è veloce: servizio, un paio di colpi, e il punto è finito, quindi gli scambi non sono consueti. Non in tutte le partite, fin dal primo punto, hai degli scambi. In questi dettagli, i primi due colpi, il servizio e la risposta, posso comunque migliorare molto. Soprattutto risposte migliori, per le partite con giocatori che servono davvero bene, in cui non si gioca molto da fondo campo, ma si cerca il punto velocemente in due o tre colpi - posso e devo migliorare anche su questo.

Interessante, partire dallo scambio per crescere. Infatti so che citi Nadal e Safin come tue ispirazioni, ma il tuo tennis, il modo in cui acceleri il gioco, il tuo istinto, in qualche modo ricorda Andre Agassi. Condividete anche l’avere padri pugili. Nel suo libro lui rivela che non c'è niente di facile o leggero nel giocare a tennis in modo istintivo, e spiega anche quanto sia difficile in realtà allenare quello stile. Mentalità da pugile?

A dire la verità non so se ho preso qualcosa direttamente dalla boxe, oppure in generale dall’educazione che ho ricevuto dai miei genitori. Sicuramente, essendo un pugile, mio padre mi ha insegnato delle cose, dal punto di vista mentale, che vengono dalla boxe. Cose essenziali: non arrendersi mai, cose di questo tipo.

Jean Catuffe/DPPI/LiveMedia

Non avere paura?

In realtà tutti hanno paura. Per quanto dicono di non averne, tutti hanno paura di qualcosa. Quello che conta in realtà è come la affronti. Credo mi abbiano insegnato soprattutto ad affrontare la paura nel modo giusto. E soprattutto non cercare scuse, non mentire, non fare scene. Non fingere di avere dolori; oppure se hai qualche dolore, se puoi giocare, gioca e non lamentarti, se invece non puoi giocare ritirati e basta. Non fare giochini tipo ‘sto perdendo perché mi fa male qui’. Soprattutto questo, affrontare le situazioni in modo più aperto e onesto.

Una domanda molto esplicita: quando e come ti sei reso conto di essere un top player?

Rendermene conto? In realtà dubito di essere un top player.

Ma!

No, onestamente ancora sento di non essere un top player. Non so perché. Ma ancora sento quella paura e temo che un giorno o l'altro magari la classifica crollerà o i risultati non saranno gli stessi o forse il mio livello non sarà sufficiente per ottenere grandi risultati. Allo stesso tempo questa paura o questi pensieri alla fine mi danno la spinta. Mi danno non più motivazione, ma mi trasmettono l’idea che non c’è tempo per rilassarmi, perché ho bisogno di migliorare, di migliorare per essere un giocatore migliore e per cercare di ottenere cose migliori, per giocare in modo molto più consistente per cercare di andare più a fondo possibile in ogni torneo. Ovviamente non ci riesco ogni settimana, come si è visto a Roma, e come invece stanno facendo gli altri top player - ecco perché forse non mi sento ancora di essere lì.

Credo che in quanto numero 5 del mondo tu sia un top player, ma capisco che si possa esserlo e allo stesso tempo volere di più. L'estate scorsa mi ha colpito la tua intervista in campo, dopo che hai battuto Daniil Medvedev in semifinale a Cincinnati, quando hai detto che era ‘come all'Università, quando ti danno il diploma’. Era divertente ma anche rivelatorio. Medvedev poco dopo avrebbe vinto il suo primo Grande Slam, e sarebbe diventato il numero uno al mondo. Lui è considerato un maestro di scacchi, quindi sembrava tu stessi parlando sì di una conquista, ma anche in relazione al lato mentale del gioco. Come definiresti il ​​tuo profilo psicologico, come giocatore, e il tuo processo di crescita?

Direi che sono molto emotivo in campo. E le tante volte in cui a causa di queste emozioni perdo le partite non mi aiuta esserlo. Ma ci sono alcuni momenti in cui, in qualche modo, riesco a mettere queste emozioni nel modo giusto, e mi danno tanti grandi risultati. Anche se non sto giocando bene a tennis, o non mi sento sicuro, appena in qualche modo trasformo queste emozioni nel modo giusto, riesco a ottenere buone partite e buoni risultati, senza giocare benissimo. Quindi in un certo senso mi descriverei come molto emotivo. Devo ancora imparare a mettere le emozioni nel modo giusto la maggior parte delle volte, perché a volte magari sto giocando davvero un ottimo tennis, ma siccome non sono in grado di trovare il modo giusto, le emozioni mi bloccano, e portano risultati molto peggiori rispetto a quando gioco male a tennis. Invece sono solo emozioni non indirizzate nel modo giusto.

Loic Baratoux/SIPAPRESS

Hai un po’ anticipato la mia domanda successiva. Guardare le tue partite è affascinante per molte ragioni, e una di queste è che a volte sembri davvero bruciare dall'interno.

Sì. Hai presente Taz, il diavolo della Tasmania? Ecco, quello sono io.

Ok, giusto! Ma allo stesso tempo non spacchi racchette, mentre molti giocatori lo fanno abbastanza spesso, quindi in qualche modo hai trovato una chiave. E quando chiudi il punto trasmetti una sorta di sollievo, più che di esultanza. Quindi quello che volevo chiederti è se potevi spiegarci meglio come gestisci le emozioni in campo.

La differenza è che alcuni giocatori spaccano la racchetta, e poi basta, è tutto lì. Succede nel momento, la distruggono, e poi trovano sollievo, e continuano a giocare. Io non spacco le racchette, forse è successo un paio di volte. Inizio a lamentarmi, a parlare. E tutte queste cose alla fine sono molto peggio. Forse preferirei distruggere le racchette anche io, se poi mi aiutasse a fermarmi. Poi basta, essere più tranquillo, e più positivo, invece che stare per metà partita a lamentarmi dopo ogni punto.

Nel 2020 sei stato il “most improved player”, con più titoli Atp, e sei entrato in top 20. Nel 2021 hai vinto Atp Cup, Davis, doppio misto alle Olimpiadi, e hai raggiunto la top 5. Quest’anno sei secondo per partite vinte e titoli. In che momento della carriera senti di essere?

A essere sincero, non sto ragionando in questo modo. Non sto pensando in quale momento mi trovo, o in quale momento fare una cosa o vincerne un’altra. Per me si tratta di più dei dettagli che voglio migliorare. E lo farò appena troverò un modo per farlo. Voglio dire, la cosa davvero bella, soprattutto, è che ho ancora molte cose da migliorare nel mio gioco.

Dal punto di vista fisico posso essere molto più veloce. E questa è davvero, davvero un’ottima cosa. Ma la cosa principale sono, come dicevo, le emozioni. Perché non appena riesco a metterle nel modo giusto, i risultati iniziano ad arrivare. Io stesso sento la differenza non appena le mie emozioni sono in campo nel modo giusto. Anche se rimanessi allo stesso livello, tennisticamente e fisicamente, ma potessi migliorare dal punto di vista emotivo in modo più consistente, non solo per un torneo o due o per un paio di mesi, ma per un po’, per la maggior parte dei tornei dell’anno - allora sono sicuro che i risultati sarebbero completamente diversi. Ci sarebbero enormi, enormi sviluppi in senso positivo.

Puoi dire qual è stata la peggiore sconfitta e la migliore vittoria della tua carriera, e perché?

In realtà non ce n’è una peggiore o una migliore. Ce ne sono molte. Ci sono state sconfitte durissime, dove mi ci sono volute settimane per riprendermi. E altrettanto ci sono state ottime vittorie; partite, o anche tornei. Per le sconfitte, sono state tutte in momenti diversi, in diverse fasi della mia vita che stavo attraversando, e tutte sembravano le peggiori in modo diverso. Sai, delle partite in cui ho sofferto non ce ne sono due uguali, non ce n'è una che abbia sensazioni simili a un’altra, perché in ognuna stavo attraversando fasi diverse con cose diverse nella mia testa. E lo stesso con le migliori vittorie o i migliori tornei. Perché sono capitate in momenti diversi. Forse per una delle vittorie ero il numero 80 o 90 del mondo, e in qualche modo ho vinto una partita che non mi aspettavo di poter vincere. Oppure ero convinto di non avere possibilità di far bene in un certo torneo, e invece diventa un torneo speciale. O anche un torneo che magari sono riuscito a vincere pure essendo completamente sotto pressione perché tutti si aspettavano che vincessi; sono riuscito a gestirlo e ho vinto. Ogni volta è una sensazione diversa, diversa in un buon modo, quindi non c'è la miglior vittoria, ma la situazione per cui ognuna è importante.

Interessante come elabori la tua relazione con le partite. Tu tra le altre cose fai musica, e lo fai anche piuttosto seriamente - sembra più una seconda carriera che non un hobby. È qualcosa che ti aiuta a alleviare la pressione?

No, non uso la musica per alleviare la pressione. La musica non ti libera, però ti permette di imparare qualcosa su te stesso, di capire. Con la musica mi piacerebbe creare qualcosa, ma richiede tempo, e in questo momento il tennis è la priorità. Non toglierei mai del tempo al tennis per dedicarlo alla musica. Se ci fosse occasione mi piacerebbe fare qualcosa, ma penso ci sarà tempo in futuro.

La prima volta che ti ho visto giocare dal vivo è stato alle NextGen Finals del 2017. Era la prima edizione del torneo Next Gen, e da allora si parla molto di generazioni nel tennis maschile. Ti vorrei chiedere: ti identifichi in una generazione? O più in altro, ad esempio in un’identità nazionale?

Per il torneo Next Gen, ho sempre pensato che fosse un’ottima cosa, per me e per noi, che se ne parlasse. In qualche modo ci ha fatto promozione un po’ in anticipo, intorno ai vent’anni, e questo è ottimo. Parlando di una Next Generation, ci è stata data una promozione prima che riuscissimo a raggiungere risultati importanti. Per il resto ho sempre pensato a me, ho sempre pensato che se volevo diventare un tennista dovevo lavorare.

Per quanto riguarda i giocatori russi, sì. C’è stato un momento in cui ho iniziato a raggiungere buoni risultati, poi c’era Daniil, poi Karen, e Aslan, e sapevo che avevamo ottime possibilità di fare bene nelle competizioni a squadre, anche se non sapevo quando. Poi abbiamo vinto ATP Cup e Davis nello stesso anno, abbiamo fatto molto bene.

Sanjin Strukic/PIXSELL

Sei una persona piuttosto riservata e non condividi molto della tua vita privata. Allo stesso tempo, la tua famiglia è molto coinvolta nel tennis. Tua madre è allenatrice, anche tua sorella, e due anni fa a Vienna hai raccontato dei tuoi nonni austriaci. Inoltre fai spesso il segno della croce in campo. Puoi raccontare che significato hanno le tue radici?

Forse dipende dal punto di vista. Perché penso di non essere molto bravo nei rapporti con la mia famiglia. No, sono terribile con la comunicazione. Non li chiamo molto. Anzi, in realtà non li chiamo mai, forse un paio di volte l'anno. Il resto delle volte mi chiamano loro, oppure mi scrivono per farmi i complimenti per una partita. Ma da parte mia, sono davvero terribile. Non so perché, non ho alcuna spiegazione. Non sono come gli altri figli che chiamano, almeno ogni paio di giorni, per parlare di come vanno le cose. Anche quando parlo con i miei genitori spesso capita che non so cosa dire, perché non so come condividere. Non sono bravo in queste cose. Ma dal punto di vista dei sentimenti sono un punto fermo importantissimo per me, e io per loro. Fanno molti sacrifici per me, perché io possa fare la vita che sto facendo, e ne hanno fatti moltissimi in passato. E io li amo più di tutto. Se avessero bisogno di aiuto, se mi chiedessero aiuto, darei tutto per loro, anche se non rimanesse nulla per me. Da questo punto di vista il legame è fortissimo. Ma sono un disastro con la comunicazione. E non li vedo, credo, da gennaio. E probabilmente non li vedrò per un altro paio di mesi.

Immagino questa sia la vita che stai vivendo. Un’ultima domanda: se avessi una bacchetta magica, cosa aggiungeresti al tuo gioco, magari in vista della prossima stagione su erba?

Di essere sempre in grado di rimanere nelle partite, di accettare quello che viene, qualsiasi cosa accada.

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