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Capo di Buona Speranza
21 dic 2017
Come un paese di 13.300 abitanti è diventato un esempio virtuoso del basket italiano.
(articolo)
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Se la storia del calcio italiano è spesso stata ad appannaggio di grandi città, quella del basket ha visto più frequentemente affermarsi ad alti livelli squadre di piccole cittadine. Nella nostra storia ci sono esempi di centri che non sono nemmeno capoluoghi di provincia come Cantù, capaci comunque di esprimere squadre ai vertici della pallacanestro italiana e continentale.

Negli ultimi 20 anni, però, abbiamo spesso visto come le prime a cadere vittima del Millennium Bug siano state proprio le realtà prodotte da quei piccoli centri abitati. Realtà che, una volta venuto meno il mecenatismo che le supportava logisticamente ed economicamente, hanno dovuto chiudere la porta a un sogno che molto spesso era vetrina di visibilità per un territorio che si allargava oltre le poche decine di migliaia di abitanti dei singoli centri.

La storia dell’Orlandina Basket è quella di un piccolo miracolo, un esempio di buona speranza della pallacanestro italiana che ha saputo scalare la piramide dei campionati con raziocinio e progettualità, arrivare in cima e anche rialzarsi dopo uno stop improvviso. L’Orlandina però non è soltanto un esempio sportivo: è Capo d’Orlando, un paese di 13.300 abitanti affacciato su chilometri di lungomare in parte dedicati a Luciano Ligabue, un mare che conquista il cuore di giocatori e allenatori che negli anni hanno integrato le fila della squadra.

L’Orlandina è la famiglia Sindoni: Enzo, che rilevò la squadra nel 1996 in C2 portandola nel giro di cinque anni in A2, con una sequela di promozioni ravvicinate che sono un leit-motiv della storia dei “Paladini”; e Giuseppe detto “Peppe”, il ragazzo che da diciottenne debuttò in Serie A contro la Fortitudo Bologna per poi diventare, dieci stagioni dopo, il migliore dirigente d’Italia.

L’incredibile ascesa e l’inizio della risalita.

La forza di un’idea

Con uno sguardo ai Nebrodi e un altro al Mar Tirreno, di fronte alla ferrovia che collega Palermo a Messina e al Continente, sorge il Palasport di Piazza Bontempo. Intitolato 15 anni fa al primo grande della pallacanestro italiana che abbia mai associato il suo nome a Capo d’Orlando - vale a dire Alessandro Fantozzi, leader della prima storica promozione in A2 - e oggi intitolato PalaSikeliArchivi per motivi di sponsorizzazione, è il centro nevralgico delle operazioni della squadra che, ogni domenica, rappresenta una regione di 5 milioni di abitanti sui parquet di tutta Italia.

Dopo essere passati davanti alle foto di quei giocatori che hanno contribuito a rendere grande l’Orlandina, Peppe Sindoni ci accoglie nel suo ufficio, piccolo ma essenziale, ricavato di lato alla sala stampa, e da un semplice primo giro si può avere l’idea di una struttura societaria ambiziosa e con idee chiare. «Non credo che oggi “spendere quello che si ha” sia una cosa unica, ma lo è stato sino a qualche anno fa» dice. «Ad esempio oggi il movimento ha meno squadre che “saltano” rispetto a 6-7 anni fa. Ma se per anni, nel nostro basket, si è provato a fare le cose con i soldi senza averli, oggi mi sembra ci sia un aridità totale, non solo economica ma anche di idee».

Il GM Peppe Sindoni (Foto Joe Pappalardo/Orlandina Basket)

Quella in corso è l’ottava stagione da General Manager di Capo d’Orlando per Sindoni, che compirà 30 anni soltanto nel prossimo mese di settembre, con il bagaglio di esperienze vissute non è certamente quello di un normale coetaneo: «Crescendo, avendo sempre più peso all’interno della società, ho avuto la fortuna di incidere sempre di più su quelle che erano le dinamiche. Raggiunto un livello soddisfacente come la Serie A2 puoi iniziare a fare discorsi di programmazione sportiva, prima è impossibile: una squadra di Serie B non può programmare, può solo fare un discreto lavoro con giovanili e minibasket».

«Raggiunto quel livello», continua Sindoni «l’idea era quella di provare a rendere più stabili le basi del club, non solo a livello economico ma anche di natura cestistica. Per cui la strada che abbiamo intrapreso con grande entusiasmo è stata quella di puntare su dei giovani giocatori, firmandoli con contratti pluriennali, e di provare a giocare una pallacanestro di stampo europea, con principi che si vedono anche nelle squadre di Eurolega. È uno scopo tecnico che ci permette di contattare giovani che provano ad affermarsi e non solo a mettersi in mostra».

Il piano di Sindoni ha toccato un suo apice durante la scorsa stagione, quando Capo d’Orlando - con una squadra indicata da tanti addetti ai lavori come candidata numero 1 alla retrocessione - ha stupito tutti. Lo scorso anno la squadra siciliana ha conquistato la seconda qualificazione alle Final Eight di Coppa Italia e ai playoff della propria storia, con la ciliegina sulla torta rappresentata dalla vittoria in Gara 1 al Forum contro Milano, la prima nella storia di Capo d’Orlando nella post-season.

Storia.

La scorsa stagione è stata fondamentale nel processo di crescita dell’Orlandina, anche per la percezione della squadra nell’ambiente della pallacanestro italiana: «La gente intorno a noi ci percepiva in maniera diversa, era positiva nei nostri confronti» dice Sindoni. «Ad esempio lo scorso anno il direttore sportivo di un’altra società di Serie A, nonostante magari gli avessimo soffiato la qualificazione ai playoff o alle Final Eight, mi ha detto come noi siamo un messaggio positivo per il movimento».

«È stato bello, quest’estate, vedere tante squadre prendere dei giovani giocatori europei» continua Sindoni. «Penso ad esempio a una squadra come Trento, che con uno spazio libero a roster ha preso un giovane europeo [l’olandese Yannick Franke, ndr] con un contratto pluriennale. Penso che il nostro impulso abbia fatto bene».

Da dove nasce però questo impulso? «Durante il nostro ultimo anno di A2, nel 2014, guardavo la Serie A anche per capire quanto potessimo “starci”, quale sarebbe stato il nostro posto, e una squadra che mi colpì molto fu Pesaro, che con un budget bassissimo si salvò all’ultima giornata. Lì Pesaro ha cambiato, per necessità, il modo di percepire la Serie A, dimostrando che se hai delle idee “si può fare” anche con pochi soldi».

«Pensando a noi», continua Sindoni, «vedere un ragazzo come Zoltan Perl in campo, uno che l’anno prima di venire qui guadagnava 700 euro al mese in Ungheria, vederlo vincere delle partite con canestri decisivi non lascia indifferenti gli altri. O si abbassa o si alza l’asticella, ma si può fare: per quanto sia bello vedere certi commenti nei nostri confronti, sappiamo che quando fai bene l’asticella si alza e ti esponi poi a maggiori critiche. Sappiamo però che questo fa parte del gioco, e preferisco passare attraverso questo processo perché abbiamo fatto bene».

Rialzarsi con credibilità

Associare un’asticella alta a Capo d’Orlando è un processo che fa tornare in mente il quadriennio 2004-2008, quello in cui l’Orlandina toccò il cielo con un dito: prima la storica promozione in Serie A1 a seguito di un campionato di Legadue dominato, quindi tre campionati consecutivi nella massima serie - prima squadra siciliana a riuscirci, Trapani e Messina si fermarono a uno solo - con la ciliegina sulla torta della stagione 2007-08, quando con Meo Sacchetti in panchina (alla prima esperienza da capo allenatore in Serie A1) e Gianmarco Pozzecco in campo (alla sua ultima stagione in carriera), Capo d’Orlando terminò il campionato al 6° posto, conquistando la prima storica apparizione ai playoff.

14 aprile 2005: la notte più bella dell’Orlandina Basket.

Tra quel 6° posto e la magica notte dell’aprile 2005 ci furono due salvezze sudate e sofferte, con Giovanni Perdichizzi alla guida dei “Paladini”. Stagioni dure, di adattamento alla Serie A con salvezze strappate a club ben più quotati come Reggio Emilia o Livorno, e vittorie prestigiose come quelle sui campi di Cantù o Treviso.

Si era toccato il cielo con un dito, con quel 2007-08 straordinario cui fece seguito un’estate felice, con il ritorno di Drake Diener dopo la fugace esperienza senese, la firma di Tyus Edney - quello che sarebbe stato il giocatore più importante dell’intera storia siciliana - e l’ammissione di Capo d’Orlando all’Eurocup (con l’Orlandina che avrebbe fronteggiato big continentali come Khimki e Besiktas).

Allo stesso tempo, però, ciò che accadde tra il settembre e l’ottobre del 2008 fu come essere catapultati in un incubo: Capo d’Orlando fu esclusa dal campionato, con i ricorsi alla Camera di Conciliazione del CONI e al TAR del Lazio che confermarono la decisione iniziale del Consiglio Federale FIP, decretando la non ammissione dell’Orlandina - che fece seguito all’esclusione, sempre quell’estate, di Napoli - per l’assenza di conferme dell’intero risanamento di un debito con l’Enpals, l’Ente nazionale di previdenza e assistenza per i lavoratori dello spettacolo.

«Noi non ne parliamo per scelta, perché è una ferita» dice Sindoni. «Tutti hanno percepito l’esclusione del 2008 come una forzatura pazzesca, poiché c’era Napoli con problemi grossissimi e noi eravamo la squadra sbagliata al momento sbagliato, poiché c’era la volontà di ridurre a 16 il campionato di Serie A».

Ripartire dalla C anche con ritorni illustri, seppur per una sola notte.

«È troppo semplice pensare, nell’immaginario collettivo, che ‘Capo d’Orlando 10 anni fa ha fatto il passo più lungo della gamba e lo sta rifacendo ora’, ma non è così: noi siamo tornati con le nostre forze, e nessuno ci ha regalato nulla». Sindoni sottolinea, inoltre, come «quell’Orlandina è rimasta in vita per 8-10 anni con quel codice FIP e non è venuto un singolo creditore a chiedere conto; anzi, quando ho alzato il telefono da direttore di A2 ho trovato il mondo del basket a trattarmi da gentiluomo, con gente che mi diceva come mio padre avesse pagato due stipendi dell’anno in cui non si era fatta la Serie A».

Cosa è cambiato rispetto al primo grande quadriennio ad altissimi livelli di Capo d’Orlando? «Quello che è diverso è che probabilmente c’è un respiro più a lungo termine rispetto alle scelte che vengono fatte: nel 2008 eravamo una squadra che stava vivendo il momento migliore della sua storia, firmando il contratto più oneroso di sempre - Tyus Edney - mentre solitamente chi fallisce è reduce da mesi di agonie. Ma a fronte di un sistema basket che è cambiato, una realtà che è sempre stata credibile nell’ambiente come l’Orlandina ha avuto la necessità di doversi trovare un posto al tavolo, con una nuova dimensione».

«Dimensione che è oggi quella di scovare giovani americani interessanti in campionati di seconda fascia, come Archie in Romania o Edwards in Ungheria, ma soprattutto la nostra sfida più grande è quella rappresentata da giovani giocatori firmati con contratti pluriennali così da avere, con noi, gli anni migliori della loro formazione».

Sindoni fa presente come la genesi di quest’idea sia rappresentata da Tommaso Laquintana, oggi a Pistoia dopo quattro anni in Sicilia: «Ha avuto un percorso con noi che poteva andare meglio, ma abbiamo fatto di un ragazzo preso a 17 anni da Monopoli un giocatore da A a tutti gli effetti; abbiamo proseguito con Mario Ihring e Stojanovic: senza Laquintana non ci sarebbe mai stato Stojanovic».

Avere Stojanovic.

Un concetto, un’idea, che rappresenta una svolta anche in termini di cultura sportiva: «Al Sud, soprattutto in Sicilia, cresciamo con l’idea che i 10 giocatori della prima squadra siano dei ‘mostri assoluti’, degli ‘stranieri’; le soddisfazioni che ci porta vedere un ragazzo del vivaio, preso a 17-18 anni, arrivare in prima squadra sono enormi».

Soddisfazioni che oggi provengono anche dallo slovacco Mario Ihring, arrivato in Sicilia nell’estate 2015 e oggi, a 19 anni, cambio del play in A dopo due stagioni di apprendistato: «Dominare squadre di Serie A con in campo giocatori del ‘98, del ‘99, del 2000, ci fa pensare che questa sia la strada. Sappiamo che andremo incontro a momenti difficili, perché è ovvio che chi fa uscire Filloy dalla panchina piuttosto che Ihring vince più partite. Ma sappiamo che questo ci porterà ad un futuro sempre più stabile».

Stabilità del futuro che passa, logicamente, anche dall’aspetto economico: «Il vantaggio dei giovani passa anche dal fatto che rappresentano giocatori con poche pretese economiche e un introito per il club, che consente di investire su basi e rotazioni più larghe e puntare a prendere professionisti più forti, ma anche giovani più forti, come Kulboka dal Bamberg. Schierare giocatori come Ihring e Kulboka ti permette di mettere da parte quella singola fiche che puoi giocarti su Damien Inglis, a prescindere che con il singolo non sia andata bene. Ma come senza Laquintana non arrivi a Stojanovic, senza Inglis magari un giorno non arriveremo a un giocatore di quel livello che ci farà svoltare per davvero: in questa direzione è un bene avere un allenatore come Gennaro Di Carlo, che condivide come schierare Stojanovic e Laquintana in ruoli chiave ti consenta di prendere giocatori di alto livello in grado di fare crescere meglio gli stessi Stojanovic e Laquintana».

Essere Paladini

Gennaro Di Carlo è alla sua terza stagione come allenatore di Capo d’Orlando, la seconda completa dopo i cinque mesi da subentrato in corsa a Giulio Griccioli, del quale era stato assistente allenatore nei 18 mesi precedenti.

La continuità a livello tecnico è un aspetto importante della costruzione di un progetto di crescita, e tale continuità e affinità si notano anche nel modo in cui Di Carlo parla dell’esperienza in Champions League e della sua importanza per l’intero processo: «L’idea di fare la coppa è nella nostra testa dall’anno scorso. Mi piace dire che vado, anzi andiamo, contro a quella che è una tendenza comune del nostro basket, laddove per la Coppa devi essere massimamente attrezzato altrimenti è un qualcosa di stancante».

La prima, storica, vittoria di una squadra siciliana in una competizione europea.

«Quest’anno abbiamo un numero necessario di giocatori per affrontare più competizioni» continua l’allenatore di origine casertana, «e penso che la Coppa sia una bellissima occasione di crescita, oltre che un acceleratore di certi processi di sviluppo, perché giochiamo il 50% di partite in più e ci confrontiamo con realtà cestistiche completamente diverse dalla nostra».

In un progetto tecnico e strutturale come questo, è anche importante tastare il polso dell’ambiente, specialmente quando il legame tra squadra e città va oltre i semplici risultati sportivi: «Sono qui da tanti anni ormai e mi sono sempre riveduto in quella che era la vecchia Caserta» afferma Di Carlo. «Uno dei segreti casertani era l’identificazione della gente in squadra, società e giocatori. Qui lo stesso meccanismo è rafforzato da un connubio ancora più forte, anche perché la figura di Enzo Sindoni rappresenta tanto per il paese: ne è stato sindaco per tanti anni [quattro mandati tra il 1994 e il 2016, ndr], facendone la storia politica, e chiaramente il popolo si identifica in lui, nel gruppo squadra e nei giocatori».

Di Carlo però sostiene come tale legame possa diventare ancora più forte, affermando che occasioni come la Champions League servano anche «per rendere questa realtà mentalmente di alto livello, oltre che per crescere; l’idea di sfidare squadre e giocatori di alto livello dobbiamo viverla con entusiasmo».

Probabilmente il tempo sarà il migliore alimentatore, visto che parliamo di una città che ha “stregato” tanti dei giocatori affermati passati di qui: chi è tornato, come Drake Diener o Dominique Archie per citare due esempi recenti; chi invece, come Gianluca Basile, ha deciso di rimanerci con tutta la famiglia anche dopo avere appeso le proverbiali scarpette al chiodo. La semplicità di un paese dove può capitare di incrociare, passeggiando, i giocatori avversari che ritornano o si avviano verso il PalaFantozzi rende Capo d’Orlando un centro dove lo sport viene vissuto con entusiasmo e relativa tranquillità anche nelle piccole cose.

Poi, tra un allenamento e l’altro, si può anche andare per mare.

Urlando contro il cielo

Le interviste per la realizzazione di questo articolo sono state svolte nei primi giorni di novembre e da allora la stagione di Capo d’Orlando ha visto il susseguirsi di tanti momenti positivi e di novità, sia in campo che fuori.

Sul parquet italiano la Betaland ha trovato solidità e continuità: dopo una partenza da una sola vittoria nelle prime cinque giornate, la squadra siciliana si è poi imposta in quattro delle successive sei e, nonostante le pesanti sconfitte sui campi di Brescia e Varese, Capo d’Orlando attualmente è settima insieme a Cantù, Trento e Virtus Bologna, ritrovandosi in piena corsa per conquistare l’accesso alle Final Eight di Coppa Italia a Firenze.

In Champions League i siciliani si sono sbloccati dopo cinque sconfitte iniziali con una bella vittoria sul campo dei lettoni del Ventspils, cui ha poi fatto seguito un largo successo sui turchi del Gaziantep: a cinque giornate dalla fine della prima fase - la Champions riprenderà a gennaio - il passaggio del turno appare complicato, ma la possibilità di continuare l’avventura europea con un ripescaggio in Europe Cup è ancora ben concreta.

Fuori dal campo, invece, Capo d’Orlando ha salutato il canadese Justin Edwards, partito per la Corea del Sud in un’operazione che ha ricordato quanto avvenuto nella scorsa stagione con la partenza dalla Sicilia del playmaker uruguayo Bruno Fitipaldo, che aveva ben impressionato nelle prime 11 partite della stagione prima di approdare in Eurolega al Galatasaray.

Un impatto discreto.

Se Fitipaldo fu sostituito da Nikola Ivanovic, che oggi furoreggia in Eurocup, a rimpiazzare Edwards è arrivato addirittura Eric Maynor, giocatore dalla solida esperienza in NBA, l’americano dal pedigree più importante a essere approdato nel piccolo paese della provincia di Messina.

Maynor potrebbe essere quel personaggio, come fu ad esempio due anni fa Ryan Boatright, in grado di fare riaccendere la scintilla con i tifosi e con l’ambiente, qualcosa che può riguardare, in esteso, l’intero movimento italiano: «Oggi il tifoso non si affeziona perché mancano i personaggi» dice Sindoni, «e questi mancano perché ci sono meno capitali. Lo status quo è questo: non puoi competere sulla narrativa con Eurolega e NBA, vista anche la facilità per l’appassionato nel rimanere aggiornato su quanto avviene altrove».

«Credo che oggi la Federazione sia maggiormente rivolta a risolvere un problema che, effettivamente, per una Federazione è tale» prosegue il GM siciliano, «ovvero la formazione dei giocatori italiani. Ma ci sono tanti altri problemi che vengono trascurati e bisognerebbe dare il giusto peso a tutto. Oggi le nazionali non vanno, ed è palese, ma invece che focalizzarsi sulla punta dell’iceberg bisognerebbe concentrarsi sul movimento in toto: oggi non si esaltano i valori positivi, siamo ad un passo di valutazione primitivo».

«Nel calcio si è capito come la società virtuosa non sia quella col proprietario ricco, ma la più sostenibile; nel basket siamo ancora al livello precedente. Manca la chiave di valutazione corretta, di quello che bisognerebbe privilegiare nel nostro mondo e quello ‘che non va bene’. Ma non siamo certo noi l’unico esempio» conclude Sindoni. «Guarda Trento, contro la quale giochiamo contro sin dai tempi della B: guarda dove sono oggi».

La partita che portò Trento (direttamente) e Capo d’Orlando (indirettamente, fu poi ripescata in seguito all’esclusione di Siena) in Serie A: Gara-3 della Finale 2014 di Serie A2.

Sindoni è però ottimista sul prosieguo della stagione: «Quest’anno ha tanto da dire: è una stagione di costruzione, credo che abbiamo corso qualche rischio ma non ci siamo fatti ‘fottere’ dal partecipare a una Coppa Europea e abbiamo fatto qualcosa che andava fatto. Il mio obiettivo, a breve, non è una posizione in classifica, ma sono tanti e strutturali: valorizzare, fare crescere, innestare uno standard di lavoro con uno staff di Serie A. Credo che se la realtà Capo d’Orlando, da chi gravita attorno alla squadra ai tifosi, all’ambiente, riesce a comprendere la molteplicità di obiettivi, usciremo con le sensazioni giuste che ci permetteranno, l’anno prossimo, di avere un prodotto ancora più pronto e pronto prima».

«Quest’anno abbiamo messo in campo ragazzi molto più giovani» continua Sindoni, «ma un domani mi vado a prendere i frutti di quello che succede oggi. Questo sarà un anno di costruzione, e alla fine le nostre stagioni in A sono quasi sempre state nello stesso range di vittorie».

Il giovane General Manager siciliano rivolge anche lo sguardo più in avanti: «Se il processo lo lasciamo crescere nel modo in cui siamo organizzati, penso che tra tre anni il club possa essere stabilmente una realtà importante del campionato di Serie A: il che vuol dire che quando Capo d’Orlando ti chiama e ti propone il suo progetto tecnico, tu atleta stai a sentire molto seriamente. Fra 5 anni? Vedo un club molto più strutturato che possa giocare in una nuova arena, rappresentando un vero e proprio punto di riferimento a 360° per il territorio. In tal senso, stiamo iniziando a lavorare a tanti progetti extra-pallacanestro che ci permetteranno, nel corso di qualche anno, di disporre di una generazione nuova di supporter e tifosi: saranno anni di grandi idee e grande innovazione».

Rivolgere lo sguardo in avanti, in un ambiente dominato dal suo splendido mare, godibile anche dal lungomare intitolato a quel Luciano Ligabue autore di quello che, ufficiosamente, è l’inno della squadra (“Urlando contro il cielo”) e anche una manifestazione di intenti, è un qualcosa di difficile ma incredibilmente stimolante.

In un movimento sportivo come quello del basket italiano, nel quale è difficile che ti venga regalato qualcosa, dimostrare di “esserci”, di sapersi conquistare il proprio posto al tavolo giorno dopo giorno, è una sfida affascinante. Perché Capo d’Orlando vuole dimostrare di essere, allo stesso tempo, l’espressione di un sogno ma anche di una solidissima e ispirata realtà.

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