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L'eterno Ancelotti
27 mag 2022
La sua è una storia di evoluzioni e molteplicità.
(articolo)
14 min
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Nato in una famiglia profondamente religiosa, Ralph Waldo Emerson aveva inizialmente seguito la linea “professionale” dinastica: così come il bisnonno, il nonno e il padre, era diventato anche lui un ministro della Chiesa Unitaria, nel 1829. Appena tre anni dopo, anche a causa della morte della moglie, Emerson aveva abbandonato la sua attività di ministro, e si apprestava a diventare un campione dell’individualismo etico e civile americano. Ogni dogma che aveva assorbito, così lo aveva espulso: «Una stupida coerenza è l'ossessione di piccole menti, adorata da piccoli uomini politici e filosofi e teologi. Con la coerenza una grande anima non ha, semplicemente, nulla a che fare».

Otto anni dopo il suo arrivo, quando a volerlo era stato Liedholm, Carlo Ancelotti lascia la Roma. È il 1987, Viola è convinto di aver fatto un affare e anche il suo nuovo presidente, Silvio Berlusconi, non è così sicuro di aver rinforzato il Milan. A 28 anni Ancelotti ha già una lunga storia di infortuni alle ginocchia: nelle parole del suo allenatore in rossonero, «aveva più plastica che cartilagine nelle ginocchia. [...] Quando faceva freddo, Carlo si scaldava il ginocchio con il phon così la plastica che si era indurita si scioglieva».

Quell’allenatore era Arrigo Sacchi, l’uomo che restituisce Ancelotti al grande calcio, trasformandolo nel perno della squadra più intensa mai vista fino ad allora. Ci riesce con metodologie di lavoro nuove, e con una visione calcistica completamente divergente da quella tradizionale italiana. Rapito dalla visione sacchiana del calcio, nel 1992 Ancelotti abbandona il calcio e diventa vice-allenatore della Nazionale italiana, guidata appunto dal suo mentore.

Carlo è ormai più sacchiano di Arrigo: nel 1996 diventa l’allenatore del Parma, che schiera con un rigidissimo 4-4-2, in cui non c’è più spazio neppure per l’ombra del numero 10.

Il frate sacchista

«E nel 4-4-2 dove lo metto?» (larisposta che Ancelotti avrebbe dato al presidente del Parma, Calisto Tanzi, riguardo l’acquisto di Roberto Baggio, luglio 1997).

Sul finire degli anni ‘90, in Serie A sono due gli allenatori più ideologici. Il primo è Zdenek Zeman, fautore di un calcio da vertigine verticale, e in cui la linea difensiva staziona quanto più possibile a ridosso del centrocampo: il 4-3-3 come convincimento religioso, immutabile ed eterno. L’altro è Carlo Ancelotti: abbandonata la Nazionale nel 1995 per allenare la Reggiana, è pronto a proseguire il credo del maestro Sacchi. Alla conferenza stampa di presentazione a Reggio Emilia, Ancelotti presenta la sua visione: «In cosa mi differenzio da Sacchi? In niente spero. Essere la sua copia non è diminutivo per me, è un’ambizione. L’ho conosciuto quando avevo 28 anni e pensavo di sapere tutto del calcio, invece mi accorsi di sapere molto poco».

Dopo un avvio di stagione terribile, la Reggiana torna in Serie A: Ancelotti viene chiamato alla guida della corazzata Parma. Per due stagioni, dal 1996 al 1998, imposta la squadra seconda una rigidissima versione del calcio sacchiano: metodologie di allenamento infernali, 4-4-2 scolpito nella pietra, nessuna concessione al talento individuale. Il Parma diventa una squadra-automa, che applica in modo robotico i principi calcistici sacchiani, trasformandoli in una distopia difensiva: i gialloblù vincono 11 partite per 1-0, arrivano secondi in campionato ma diventano la squadra più noiosa della Serie A. Nel frattempo Ancelotti si trasforma nel Torquemada del sacchismo e costringe Gianfranco Zola a giocare da tornante sulle fasce. Dopo mesi di allenamenti estenuanti, Zola si arrende: il talento che l’anno prima era arrivato sesto nella classifica del Pallone d’Oro è costretto all’esilio a Londra. È il novembre del 1996. Nel luglio del 1997, Ancelotti si oppone con tutte le sue forze all’arrivo di Roberto Baggio: l’acquisto è già definito, ma nell’ecosistema tattico parmense non c’è posto per un giocatore come lui.

Foto di Matthew Ashton/EMPICS via Getty Images

Nel frattempo, Zeman arriva alla guida della Roma e promuove un ventunenne Francesco Totti a leader tecnico della squadra. Per permettergli di rendere al meglio, il tecnico boemo lascia maggiore libertà di interpretazione al suo numero 10, che parte da ala sinistra per accentrarsi in una posizione classica da trequartista, senza doversi sobbarcare sempre i tagli profondi in area tipici della ali zemaniane.

Alla fine della stagione 1997/98, il Parma arriva sesto: il sacchismo sembra ormai al crepuscolo, Carlo Ancelotti è senza ombra di dubbio l’allenatore più dogmatico della Serie A, e nessuno lo vuole più in panchina.

Preferisco il bollito

«Istruzioni per l'uso: quando Ancelotti è leggermente contrariato inarca un poco il sopracciglio sinistro. Se lo inarca un po' di più, c’è aria di tempesta. Non succede quando discutiamo del suo piatto preferito, il bollito. Lui ci vuole la mostarda e non gli piace il rafano» (Dall’intervista di Gianni Mura a Carlo Ancelotti, 19 marzo 2009, La Repubblica).

Tutte le volte in cui Ancelotti nomina Sacchi, tende a sottolineare l’aspetto delle metodologie rivoluzionare di allenamento: si passava in sostanza dalla tradizione di riscaldamento e partitella a durissime sessioni fisiche (le corse nei boschi con Pincolini) e tattiche (sia video che in campo). Alla sera, i giocatori non riuscivano a salire le scale per la stanchezza.

Il calcio cambia, così come cambiano le persone, e nel 2017 Ancelotti viene esonerato dal Bayern a causa dei suoi allenamenti considerati troppo blandi, sotto tutti i punti di vista. I bavaresi venivano dalle tre stagioni sotto la guida di Guardiola: intensità, spettacolo, vittorie ma “solo” tre semifinali consecutive di Champions League. Per questo si erano rivolti a Carlo, il re di coppa: e in fondo, nella classica alternanza tra allenatori architetti e gestori, la scelta sembrava corretta. Ancelotti avrebbe allontanato dal gruppo le paranoie e le ossessioni di Guardiola, per rendere il Bayern una squadra più malleabile e serena: una squadra ancelottiana.

La trasformazione sembra avverarsi già nella prima stagione, quando i bavaresi dominano in campionato e arrivano ai quarti di finale di Champions contro il Real Madrid di Zidane: dopo aver perso l’andata in casa, il Bayern vince nei 90 minuti al ritorno e conduce la partita ai supplementari. Ci pensano l’arbitro Kassai e Cristiano Ronaldo a inclinare nuovamente la partita dal lato dei merengues: Ancelotti fa peggio di Guardiola e viene eliminato ai quarti.

Pochi mesi dopo, a fine settembre, Ancelotti viene addirittura esonerato: una decisione drastica ma non improvvisa. Il Bayern era stato appena travolto in Champions dal PSG di Unai Emery per 3-0: cose che succedono nei gironi, quando c’è ancora tempo per recuperare. Ancelotti però viene ormai chiamato da club che vogliono vincere la Champions a tutti i costi, perché abituati a conquistare il campionato su base regolare. Carlo d’altronde non fa mistero di questa sua relazione speciale con il più importante trofeo calcistico europeo: la sua prima biografia si chiama Preferisco la coppa, e fino a quel momento ha vinto solo quattro campionati nazionali ma ben tre Champions League.

L’etichetta di allenatore da Champions si rivela una condanna: non c’è nessuna competizione così fluida e illusoria, così altalenante negli andamenti, così legata alle variabili intangibili del calcio. Più o meno equivale a essere definito un allenatore di sogni, un prestigiatore: e dal Bayern in poi, sembra che ormai tutti i trucchi di Carlo siano stati scoperti.

Foto di Patrick Hertzog/AFP via Getty Images.

Lo spogliatoio del Bayern fa crollare il mito della pax ancelottiana, degli spogliatoi pacificati dalla sua serenità quasi zen, dall’irradiarsi della sua bontà contadina: Ribery, Robben, Hummels, Müller e Lewandowski gli si rivoltano contro pubblicamente - nella disfatta di Parigi, tre su cinque partono dalla panchina.

Al Bayern sono le metodologie di allenamento a suscitare scalpore tra i suoi giocatori, ma in senso negativo: non perché troppo dure, bensì troppo blande. Dopo l’esonero, le rivelazioni della rivista tedesca Kicker enfatizzano la mancanza di intensità degli allenamenti: Robben avrebbe detto che persino la squadra del figlio si allenava meglio, e avrebbe organizzato sessioni segrete di allenamento con altri compagni, all’insaputa di Ancelotti.

Inizia così il mito del prestigiatore ormai senza più trucchi, dell’Ancelotti senza più stimoli, insomma il grande mito del bollito: anche questa volta, Carlo sembra quasi assecondare l’etichetta, scegliendo progetti sportivi molto particolari, e soprattutto inadatti alle sue caratteristiche di allenatore. Prima al Napoli, dove viene scelto nuovamente per succedere ad un allenatore architetto come Sarri: fallisce di nuovo, come al Bayern. Al Napoli non c’è un gruppo di campioni da gestire, ma ottimi giocatori valorizzati dall’allenatore precedente. Ancelotti finisce per perdere la presa sia sul gruppo che sul campo. La sua avventura a Napoli si conclude dopo l’incredibile storia dell’ammutinamento: dopo la sconfitta contro la Roma, il presidente De Laurentiis impone il ritiro, ma i giocatori lo rifiutano, appoggiati dall’allenatore, da sempre contrario. Alla fine i calciatori si ribellano, e in ritiro ci va Ancelotti da solo: una commedia che si conclude con l’esonero, dopo aver chiuso da imbattuto il girone di Champions.

Forse qualche trucco gli è rimasto ancora: nella prima stagione, il Napoli arriva terzo nel suo gironcino stellare, dietro al PSG ma a pari punti con il Liverpool, che nello scontro diretto dell’ultima giornata si salva nel recupero solo grazie a un miracolo di Alisson su Milik. La differenza reti premia il Liverpool, che poi vincerà quell’edizione. L’anno successivo, il Napoli per la prima volta chiude da imbattuto un girone di Champions, arrivando secondo, ancora una volta dietro il Liverpool, battuto però per 2-0 a Napoli. Ma l’obiettivo di De Laurentiis non era vincere la Champions, bensì piazzarsi tra le prime quattro in campionato, dirà Ancelotti in un’intervista a Valdano. Qual era il senso quindi della sua avventura napoletana?

Tre giorni dopo la chiusura del rapporto con il Napoli, Ancelotti è già il nuovo allenatore dell’Everton: termina la stagione al dodicesimo posto, il suo peggior piazzamento di sempre. Si tratta pur sempre di una squadra presa in corsa, che ha bisogno di molti innesti: nella seconda stagione, l’Everton acquista tra gli altri Allan, James Rodriguez e Doucouré. Tutto sembra funzionare alla perfezione, la squadra è seconda in classifica a fine dicembre, poi il crollo. L’Everton chiude al decimo posto, travolto da infortuni, gelosie di spogliatoio e una fragilità tattica diffusa: difficoltà nel costruire il gioco dal basso, difficoltà nella difesa posizionale, scarse capacità realizzative. Ancelotti chiude la stagione con un tono Mourinhesque, accusando i giocatori di non avere qualità con il pallone e chiedendo giocatori più forti per la stagione successiva. Forse la stagione all’Everton è davvero la mostarda sul bollito?

L’incantesimo di Zidane

«È errato focalizzarsi su un sistema di gioco che si ritiene ideale per eccellenza, mentre è giusto che l’allenatore crei un sistema modellato sulle caratteristiche dei calciatori che ha disposizione e dentro il quale questi ultimi devono sentirsi a loro agio» (Carlo Ancelotti, Il mio albero di Natale, 2013)

Nella storia recente del Real Madrid c’è un incontro fondamentale, che cambia la traiettoria della Casa Blanca nella contemporaneità. Quell’incontro è avvenuto però a Torino, nel febbraio del 1999: Carlo Ancelotti, appena subentrato a Marcello Lippi sulla panchina della Juve, incontra Zinedine Zidane. Da quel momento, per Ancelotti cambierà il modo di allenare: «fu così che, per la prima volta, posi la squadra, o meglio le caratteristiche dei singoli, al centro del progetto, e abbandonai il mio amato 4-4-2 per passare al 3-4-1-2». L’ideologia sacchiana crolla per trovare la collocazione al miglior giocatore di quella squadra, Zidane appunto. La transizione di Ancelotti verso l’individualismo è dolorosa e faticosa - la Juve arriva seconda per due stagioni di fila - e si compie definitivamente solo con il passaggio al Milan. Un Milan molto spettacolare, ma poco sacchiano: basato sulle individualità e sulla tattica individuale, all’interno di una cornice ben organizzata.

Quando arriva al Real Madrid, nell’estate del 2013, Ancelotti ha bisogno di un vice: spinto dalla società, in particolare dal presidente Florentino Perez, sceglie Zinedine Zidane, alla prima esperienza su una panchina. Tocca ad Ancelotti, adesso, cambiare la vita di Zizou, trasformandolo in un allenatore. Alla prima stagione, il Madrid conquista l’agognata Decima, un'ossessione che tormentava la Casa Blanca da dodici anni. Zidane trasmette ad Ancelotti lo spirito madridista, quella sensazione di onnipotenza tecnica e spirituale, in cui ogni partita diventa una successione di momenti magici in grado di sovvertire tutte le leggi del calcio. Ancelotti insegna a Zidane come gestire uno spogliatoio di stelle: facendosi leggermente da parte, senza attirare troppo l’attenzione, anche a livello mediatico. La coppia si separa subito dopo la vittoria della Champions, perché Zidane decide di allenare la seconda squadra del Real, senza troppo successo. Ancelotti viene accompagnato alla porta dopo una seconda stagione conclusa con un’eliminazione in semifinale di Champions: nel Real non c’è margine di errore. Ancelotti preferisce la coppa, ma la coppa non si può vincere ogni anno.

Foto di JONATHAN NACKSTRAND/AFP via Getty Images.

Almeno così si riteneva prima dell’incredibile tripletta del Real Madrid di Zidane, alla guida della prima squadra dal gennaio 2016. La gestione di Zizou sembra la copia su carta carbone di quella ancelottiana, dal punto di vista mediatico, tattico e gestionale. Il Real Madrid si trasforma in un blob capace di infilarsi ovunque, privo di qualunque solidità tattica ma in grado di interpretare qualunque situazione di gioco. Zidane è la prosecuzione di Ancelotti o la personificazione dello spirito madridista? «Abbiamo sempre sostenuto l’allenatore perché è una persona umile che ama ascoltare e questo rende sempre le cose più facili»: questa frase di Cristiano Ronaldo potrebbe essere valida per entrambi, Zizou e Carletto (ma era rivolta solo al primo).

Dopo Zidane l’unica scelta possibile per il Real era proprio il ritorno di Ancelotti. L’alternanza tra i due sulla panchina del Real sembra dirci che c’è un solo modo di allenare i merengues: chi ha provato a dare un’identità precisa alla squadra è stato travolto (come Benitez e Lopetegui). Nelle parole di Kroos dopo la vittoria contro il City c’è tutto il rapporto di Ancelotti con i suoi giocatori: «Ancelotti ha chiesto il parere dei giocatori più esperti su chi sostituire nei tempi supplementari. Questa situazione lo descrive perfettamente come allenatore ed è il motivo per cui lavora così bene con la squadra». Non è solo una questione di rapporti con i senatori, ma anche di saper far crescere i giovani: il rendimento impressionante di Vinicius Jr., la crescita di Rodrygo e la fiducia a Camavinga, tutti elementi di una classica alchimia ancelottiana - come l’esplosione di Kaká al primo anno a Milano.

Il Real Madrid può esistere solo in questa versione liquida, destrutturata, capace di fare e disfare negli stessi attimi: di farsi umiliare in casa da un Barcellona semi derelitto e vincere la Liga con largo anticipo; di farsi travolgere tatticamente al Bernabeu dal Chelsea fino ad andare sotto di 3 gol, e uscirne fuori da qualificato alle semifinali; di farsi prendere a pallonate dal Manchester City nella partita di andata, senza mai cadere, scatenando nell’avversario una sorta di timore verso l’immortalità madridista.

Una squadra da coppa, come quasi sempre sono state le squadre di Ancelotti: non particolarmente regolari, capaci di incappare in giornate o momenti negativi, ma sempre pronte a surfare sulla casualità del calcio, di dominarla attraverso la tecnica e l’approccio mentale. Squadre capaci di perdere una Champions già vinta o un campionato all’ultima giornata, ma anche di capire sempre il momento, di vincere la Decima all’ultimo secondo di una partita già persa, di ribaltare un risultato in 90 secondi sconvolgendo l’avversario.

Anche per questo è sorprendente che Ancelotti entri nella storia per aver vinto i cinque campionati più importanti in Europa. Senza considerare le esperienze con Parma, Napoli ed Everton, e includendo solo le stagioni complete, dovremmo dire che Ancelotti ha vinto solo 5 campionati in 16 stagioni alla guida di Juventus, Milan, Chelsea, PSG e Real Madrid. In un campionato bisogna essere più ossessivi, più regolari, più solidi, meno liquidi. La capacità di vincere in ogni paese, però, non va sottovalutata, perché è connaturata all’essenza ancelottiana di sapersi adattare a qualunque contesto, mantenendosi sempre uguale - un’essenza che riesce a trasmettere pienamente alle sue squadre e che non ha eguali nel calcio contemporaneo.

Non il più grande allenatore di sempre, probabilmente, ma un allenatore per sempre, per tutte le ere calcistiche passate, presenti e future. Ancelotti non solo ha visto nascere il calcio contemporaneo, ne è stato uno degli artefici nel Milan di Sacchi; Ancelotti è prima e dopo Klopp e Guardiola; Ancelotti è Vittorio Pozzo; Ancelotti è José Villalonga e Miguel Muñoz degli anni d’oro del grande Real; Ancelotti è Bearzot e Sacchi; Ancelotti è Liedholm e Del Bosque.

Un amico di Valdano sostiene che il concetto del miedo escenico sia una sua invenzione per coprire l’esistenza di un fantasma del Bernabeu, capace di indirizzare le partite. La risposta di Valdano è la definizione non solo di una squadra, ma della storia del Real Madrid: con talenti superiori, è più facile essere fortunati. Ancelotti è il Real Madrid nella sua volontà di calcio primordiale, non un augurio, ma un eterno stato d’animo: che vinca il più forte.

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