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Emanuele Atturo

Carlos Alcaraz non è reale

A 21 anni il suo terzo Slam su tre superfici diverse.

Siamo al quinto set della finale del Roland Garros e Alexander Zverev cammina col dolore del cavallo zoppo; mastica una collana d’oro tra i denti logorato dalla fatica. Il tennis, per lui, sembra un lavoro forzato. Quando alza gli occhi per servire si trova davanti un incubo. Carlos Alcaraz salta, scalpita, si dice tra sé e sé qualche frase allucinata del tipo “Sono un toro” o “Abbraccia la palla, sentila, attaccala”. Dopo quasi cinque ore di gioco è fresco come chi è appena sceso in campo. Non corre più, rimbalza da un lato all’altro del campo, scoppia come un chicco di mais in padella, elastico, esplosivo, fatto della stessa materia della pallina da tennis. Nel momento in cui gli avversari si muovono con la febbre della disperazione, fuori tempo su tutto, Alcaraz non perde un minimo di esattezza: si sposta verso sinistra per colpire il dritto a sventaglio, corre in avanti, recupera in scivolata. Boom, boom, boom. Mentre carica il colpo il tempo rallenta, la pallina nell’aria sembra prendere più attrito: la fisica del mondo sembra volergli offrire un piccolo vantaggio. Zverev colpisce una volée di dritto sgraziata ma definitiva. Sembra. Alcaraz è in ritardo e non può arrivare con la distanza giusta, allunga il braccio in tutta la sua estensione. Guardate il momento in cui sta per colpire e provate a immaginare che tipo di colpo sta per tirare.

 

 

L’unica soluzione per una situazione del genere è un pallonetto, per semplici limiti fisici: non si ha l’equilibrio, la posizione, l’energia per spingere la palla in avanti. Ci si può limitare a usare il polso e a spararla in alto. Alcaraz però scivola come sugli sci, e scivolando ricuce la distanza con la palla, e poi chiude un passante in back stretto che è fuori da ogni manuale del gioco. Un colpo inventato ex novo: uno dei tanti che Alcaraz ha messo per iscritto, nell’enciclopedia del tennis, nella giornata di ieri. La palla struscia il nastro e supera Zverev, che si gira verso il suo avversario. Sta impazzendo e pretende almeno le sue scuse per il nastro. Alcaraz chiede scusa e quando Zverev si volta esulta verso il suo angolo mostrando il braccio fasciato dal calzino tecnico. Il suo braccio d’oro, quello infortunato negli ultimi mesi. Dietro Zverev compare la coppa dei moschettieri, che la regia mette a fuoco. C’è un giocatore in campo che è nettamente migliore dell’altro, ed è lui che solleverà il trofeo.

 

Negli spogliatoi del Roland Garros, fotografato con la coppa in mano, Carlos Alcaraz indossa una maglia di Michael Jordan. La indossa come oggi un ragazzo o una ragazza della generazione Z potrebbe indossare quella di Kurt Cobain. Jordan si era già ritirato quando, a maggio del 2003, Carlos Alcaraz è venuto al mondo.

 

Possiamo leggerci un rimando facile: voglio dominare il mio sport come Jordan ha dominato il basket, ma è proprio questa idea che non regge, o evoca un’affiliazione già deformata dal tempo. Carlos Alcaraz sorride leggero, con un’aria fanciullesca, da bambino divino, e non sembra pervaso nemmeno da un briciolo di quella cupa ossessione competitiva che apparteneva a Jordan come alla maggior parte dei grandi dello sport dell’epoca turbocapitalistica. Se per tutti loro il trofeo è sembrato un fine, e un mezzo per proiettarsi nella storia, per Alcaraz il fine sembra il tennis stesso, o l’adrenalina che esso genera all’interno della competizione. Lottare punto a punto, spingersi oltre le colonne d’ercole del quinto set, nell’inferno mentale e fisico di una partita di tennis ai massimi livelli, e guardare tutto questo dall’alto, sorridendo, uscire dagli scambi più duri con un ricamo; alleggerire la brutalità psico-fisica dello sport contemporaneo con un colpo fuori dagli schemi. Più le partite si induriscono, e diventano uno straccio zuppo di fatica e dolore, più Carlos Alcaraz sembra capace di elevarsi al di sopra, su un piano leggermente diverso dal mondo fisico. Nessuno riesce a batterlo al quinto set. Ne ha giocati 10 in carriera e ha vinto 9 volte. Solo Matteo Berrettini è riuscito a sconfiggerlo, agli Australian Open di due anni fa, quando Alcaraz era forse davvero troppo giovane. Nemmeno Djokovic al quinto set di Wimbledon ce l’ha fatta.

 

C’è qualcosa di sacro nel modo in cui Alcaraz riesce a sublimare lo sforzo, a trovare energie nascoste, a entrare in the zone nei momenti chiave delle partite. Lui che ha un gioco talvolta disordinato, a tratti ottuso; lui che in certe partite sembra vittima del suo stesso talento, quando arriva al quinto set riesce a trovare la migliore versione di sé stesso. Perché in quel momento nessuno ha più la forza di pensare e il tennis diventa puro istinto, e si gioca in una dimensione al di sotto della coscienza, con le qualità più sepolte e nascoste. In quel territorio Carlos Alcaraz ha più talento di tutti, e il suo talento è intimidatorio: «Al quinto set devo mostrare al mio avversario che sono fresco, che sto come se fossi al primo game della partita».

 

Quei recuperi in scivolata, dal lato del dritto e da quello del rovescio, esprimono la prodigiosa capacità di Carlitos di risolvere i problemi con i guanti di seta. Come la tecnica giapponese del Kintsugi, ripara qualcosa di sfasciato con l’oro. Per esempio questo recupero di dritto in chop vincente, o ancora di più, questo pallonetto semplicemente impossibile all’incrocio delle righe sulla diagonale – con Zverev che non riesce nemmeno a stendere il braccio, Polifemo fregato dall’astuzia e dall’agilità di Ulisse. Anche Rafa Nadal era celebre per recuperare palle impossibili, ma i suoi recuperi si traducevano in controffensive enfatiche, sciabolate perentorie; mentre Alcaraz usa sempre il fioretto.

 

 

Zverev resta sempre spiazzato da questi recuperi, fa sempre la figura dello scemo. Li subisce spesso in seguito a volée approssimative, sciatte, buttate là. Del resto è alto e grosso come una guardia di Federico II, e forse gioca a tennis come tale. Non c’è alcun tennista al mondo, almeno tra quelli di alto livello, che ha ridotto così brutalmente il tennis a una questione fisica. Zverev è alto due metri ma si muove con l’agilità di un giocatore con trenta centimetri in meno. È veloce, reattivo, instancabile. Ribalta platealmente tutti gli archetipi della storia del tennis, ovvero l’idea che a un certo tipo di fisico corrisponda un certo tipo di giocatore. Zverev dovrebbe essere un giocatore offensivo che cerca di tagliare corto negli scambi per nascondere i propri limiti fisici, e invece è il contrario di così: è talmente paziente da essere snervante. Si mette dietro la riga di fondo a remare da una parte all’altra del campo ricercando la soglia minima di non passività. E in più serve a 220 chilometri orari da un’altezza giraffesca. Non serve nemmeno conoscere troppo il personaggio, e guardarlo solo giocare a tennis, per considerarlo un incubo della contemporaneità. È come come se tutte le peggiori previsioni sul tennis fatte da qualche nostalgico al bar avessero preso vita in un essere umano, in una singola entità psico-fisica: Alexander Zverev. È passivo, anti-spettacolare, tecnicamente brutale (escluso il rovescio), a rete colpisce come se avesse la racchetta scordata.

 

Il confronto, stilistico e umano, con Alcaraz è acceso: difficile trovare due esseri umani con un approccio più diverso al tennis. Alcaraz che sorride sempre, che rende evidente l’aspetto ludico del gioco, che sbroglia le situazioni difficili con folgorazioni tecniche estemporanee, colpi di puro istinto, di pura tecnica. Non sbaglia mai per mancanza di coraggio ma al massimo per il suo eccesso. Alcaraz che ha un ottimo servizio, ma niente di che, e che probabilmente arriva al metro e ottanta a malapena (niente è più misterioso della misurazione delle altezze nel tennis). Si potrebbe dire che non c’è niente di tennisticamente meno contemporaneo di lui, ma sarebbe una lettura superficiale. Alcaraz è un tennista “pietra e seta”, come lo ha definito Sandro Modeo, capace di un repertorio praticamente infinito di possibili manipolazioni dello spazio-tempo del tennis. La sua base atletica è mostruosa, ed è il presupposto per tutti quei recuperi spettacolari, e per le vittorie al quinto set.

 

Zverev è il futuro come lo avevamo immaginato nelle nostre peggiori previsioni, Alcaraz è come lo avevamo sognato nelle nostre migliori.

 

Un tennista sorridente, positivo, che non ha mai avuto un pensiero malizioso nella sua intera esistenza; che rispetta gli avversari, li elogia, si esalta a giocarci contro perché lo aiutano a esprimersi – e in questo ha capito una verità profonda del tennis, ed è già risolto. Un giocatore che incarna alcuni aspetti classici del tennis, e in particolare l’idea che attraverso l’abilità si possa vincere la forza; ma che d’altra parte è anche incredibilmente forte, esplosivo, dalla presenza in campo straripante in certi momenti. Un tennista che ci costringe quindi a rivedere le nostre categorie.

 

A 21 anni ha vinto il suo terzo Slam su tre superfici diverse: è il più giovane della storia a riuscirci. Nessuno del resto ha la completezza del suo repertorio. Ha dominato il torneo fino alla semifinale, e ha poi vinto sulla distanza le ultime due partite. Sinner resta l’unico giocatore che, al momento, sembra poter competere con lui – se consideriamo Djokovic di un’altra generazione. Sono numero uno e numero due del mondo. Nella semifinale i due sono andati a corrente alternata, e poi la maestosa fiammata di Alcaraz tra quarto e quinto set ha marcato la differenza tra vincitore e sconfitto. Siamo in una fase della rivalità in cui nessuna partita può dirci chiaramente chi è migliore dell’altro.

 

Alcaraz ai microfoni detto che è lo Slam di cui va più fiero, perché in questi mesi ha attraversato tante difficoltà e le sue possibilità fisiche erano incerte. Persino noi abbiamo dubitato di lui e in giro si sono letti vaticini deprimenti: il suo tennis sarebbe troppo dispendioso, il suo fisico già marcio, la sua testa immatura. A 21 anni Alcaraz ha già trovato la sua strada per la vittoria e ora sta cercando quella per la continuità. Ha scelto strade che nessuno prima di lui avevano battuto, che esprimono un gusto estremamente personale e artistico, che lo rendono diverso da tutti. Dobbiamo ritenerci molto fortunati.

 

 

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Emanuele Atturo è nato a Roma (1988). Laureato in Semiotica, è caporedattore de l'Ultimo Uomo. Ha scritto "Roger Federer è esistito davvero" (66thand2nd, 2021) e "Visionari, la percezione alterata degli sportivi" (Einaudi, 2024).