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Carlos Alcaraz è troppo bello per essere vero
14 lug 2024
Un altro Wimbledon vinto, una finale dominata, che lascia Djokovic a leccarsi le ferite.
(articolo)
10 min
(copertina)
Foto di IMAGO / Xinhua
(copertina) Foto di IMAGO / Xinhua
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Su Novak Djokovic non c’è vera tristezza, mentre stringe il piatto dello sconfitto sul centrale di Wimbledon. Giusto un velo di malinconia, infuso in un’intervista post-partita stranamente dolce, risolta, per un giocatore che ha appena rimediato una sconfitta tremenda. Ammessa la superiorità di Alcaraz, nel suo discorso Djokovic passa oltre il campo. Si rivolge alla sua famiglia sugli spalti: «A mia moglie: ti amo. Grazie per sostenermi. Grazie per essere qui. Grazie ai miei bellissimi bambini, grazie per farmi sorridere ogni singolo giorno». Parole di una solennità che associamo a qualche momento finale, a un commiato, e chissà che non lo sia stato davvero. Avevamo iniziato a guardare la partita aspettandoci una battaglia, e due ore e mezza dopo - un tempo insolitamente breve - ci siamo ritrovati davanti una situazione molto diversa. Non pensavamo di commentare un vincitore e uno sconfitto decretati così chiaramente. Non pensavamo di sentir parlare un Novak Djokovic privo di scorie d’adrenalina, con i toni di chi pare aver già fatto un passo leggermente oltre l’agone competitivo.

Un anno fa era stata una finale molto diversa. Una finale di fulmini ed elettricità, in cui il tennis fiammeggiante di Carlos Alcaraz si era incrociato con quello computerizzato di Novak Djokovic creando una reazione chimica che non dimenticheremo mai. Era stata una partita di margini stretti, millimetri e istanti; una partita con un’estetica così travolgente da sembrare creata artificialmente. Djokovic aveva perso per un paio di punti scellerati e forse si era stupito di trovare un avversario così duro, così completo, capace di vincere una partita di quel tipo - dei margini stretti, appunto - su un palcoscenico così importante. Nole aveva incassato, e poi si era rimesso a lavorare. A Cincinnati, compresso nel formato del 2 su 3, il loro scontro aveva toccato vette d’eccellenza ancora più strabilianti, e Djokovic ne era riuscito a vincere. Abbiamo goduto della nascita di questa paradossale rivalità, in cui tra i due contendenti passavano 16 anni di differenza. L’arrivo di Alcaraz invece di spazzare definitivamente via Djokovic, l’aveva tenuto in vita. Gli aveva restituito sensazioni che forse gli erano mancate, in quel periodo in cui dominava il circuito senza più Nadal e Federer a mettergli degli ostacoli.

Ci aspettavamo il secondo capitolo della saga, e il primo game del match sembrava preannunciarlo - ancora più epico, pantagruelico del solito.

Un game con la faccia di una partita intera. Si è trascinato per 20 punti, promettendo tempi biblici, scontri da saga mitologica. Saremmo riusciti a guardare la finale degli Europei, a quel ritmo? A 14 minuti a game, se si fossero giocati 10 game per 4 set la partita sarebbe durata più di 9 ore. Alcaraz ottiene 4 palle break, e alla quinta fa il break. Dentro quel game ci vedevamo una partita lunga ed estenuante, dovevamo vederci invece la fatica di Djokovic a tenere il proprio turno di servizio; a giocare un tennis alla pari con quello di Alcaraz pur con il vantaggio del servizio a disposizione. Stavamo guardando dalla parte sbagliata.

Dentro quel game si possono leggere - come le tracce sulla neve - i problemi che Djokovic avrebbe avuto per tutta la partita. L’incapacità di mettere in difficoltà Alcaraz col servizio, gli errori banali e, soprattutto, l’inefficacia del proprio gioco a rete.

Era stata la strategia principe del suo torneo: più discese a rete, scambi più brevi, anche per sollecitare meno il ginocchio operato negli spostamenti laterali - e nascondere, comunque, una forma che non poteva essere ottimale con meno allenamenti sulle gambe. Contro Rune, contro Musetti, aveva ricamato delle partite finissime, giocate a velocità ridotte, con scambi più brevi e ricchi d’inventiva. Rune era stato inebetito da quella strategia, Musetti battuto direttamente sul suo campo. Ad Alcaraz, invece, un Djokovic più offensivo ha fatto il solletico. Con i piedi vicini alla riga di fondo, ha cominciato a bombardarlo di passanti - a partire da quel primo game. Djokovic non è uno che si lascia intimidire, ed è rimasto fedele alla propria strategia, continuando ad attaccare Alcaraz - ma non funzionava mai. I serve and volley in slice da destra gli tornavano tra i piedi, anche gli attacchi più profondi provocavano i passanti più fulminei. Djokovic ha fatto punto con appena 2 delle prime 8 discese a rete. Alla fine del match la percentuale sarà un misero 51% (27 su 53). Pensate che contro Musetti erano stati 46 punti su 56 discese a rete; contro Rune 29 su 37.

Dopo quel primo game, è iniziata un’emorragia di Djokovic che non si è più arrestata. Nole ha un vantaggio teorico, nello scontro diretto con Alcaraz, nei colpi di inizio scambio. Se non ha più il ritmo da fondo per pareggiare l’energia e la varietà dello spagnolo, col servizio e la risposta può provare a tenere in equilibrio la partita. La cosa che gli riesce con Sinner e Medvedev, che oggi gli sono forse superiori nel ritmo da fondo. È questo uno dei segreti meno nascosti della sua longevità (Musetti ha definito “uno scherzo” le risposte di Djokovic in semifinale). Nella finale, invece, ha servito peggio di Alcaraz, e ha risposto peggio di Alcaraz. Dalle difficoltà nei punti di inizio scambio si è infettato, progressivamente, il resto del suo gioco.

Senza far male al servizio non riusciva a prendere il controllo dello scambio, e ad accorciarlo come gli era riuscito per tutto il torneo. Senza riuscire a rispondere - in crisi permanente soprattutto quando il servizio era al corpo - non riusciva a mettere pressione ad Alcaraz, che col primo colpo in uscita tocca vertici d'efficacia talvolta federeriani.

Quando queste cose gli riuscivano, Alcaraz aveva l’intensità per alzare subito il livello e affogare le velleità di Djokovic di tornare competitivo. Con la prima di servizio lo spagnolo è stato inattaccabile, con percentuali di vittoria del punto vicine al 90%, nei primi due set; quando Djokovic giocava la seconda, non faceva mai punto, ne ha vinti 9 in due set.

Alcaraz gioca sempre a tennis in modo superlativo, ma quando è in vantaggio ancor di più. Quando decade l’aspetto competitivo, e il tennis diventa una forma consapevole di intrattenimento per il pubblico, Alcaraz non ha rivali. Gioca con un narcisismo virtuoso, un tennis in cui non esistono colpi impossibili. Gioca palle corte con l’astuzia del torero, risposte in anticipo da entrambi i lati, dritti d’artiglieria. Sembra un tennista da videogioco, prodotto dalla nostra fantasia, che controlla la realtà con un joypad truccato. Il suo talento cognitivo, prima che tecnico e atletico, è strabiliante. In questo punto, per esempio, rallenta i battiti della realtà, finta il lungolinea, e poi spiazza Djokovic con un dritto alto e lento. Guardate però come ha girato l’inerzia dello scambio. Nole aveva giocato un lungolinea solido e abbastanza profondo, e si è visto tornare un’accelerazione incrociata di rovescio che puoi fare solo se corri più veloce delle cose stesse.

Quando si pone sul piedistallo, a inventare colpi, Alcaraz si può solo ammirare da lontano. Riagganciarsi alla partita diventa impossibile - almeno se non ti chiami Novak Djokovic. Lui e Sinner sono gli unici, per ora, a riuscire ad assorbire queste fiammate, a sporcargli la partita, a incrinarne le certezze. A subire, e poi tornare, senza lasciarsi travolgere.

È stato triste vedere Djokovic non farcela, questa volta, non trascinare a forza la finale nel territorio della competizione. Non era in forma, e non ha potuto raschiare nel fondo di sé stesso quella specie di energia pazza e disperatissima che in carriera ha opposto a tutti - l’ultimo il povero Cerundolo, che al Roland Garros ha perso da un Djokovic col menisco rotto. Quel fuoco a tratti spaventoso, quel carattere conflittuale, che ci fa pensare: questo è Novak Djokovic. Invece abbiamo visto Nole accettare di buon grado la disfatta. Scuotere la testa e abbassare le spalle. Arreso. Nessuna esultanza rabbiosa, nessun mind game, nessun colpo intimidatorio, nessun guizzo d’astuzia. Nessun tentativo di mescolare le carte, cercare una nuova angolatura. Nessuna magia a rete o scambio feroce vinto da fondo, rompendo l’ultimo limite di fatica e concentrazione possibili. Non gli è riuscito niente, non è mai venuto fuori dall’involucro sonnolento in cui ha giocato la partita. Almeno per i primi due set, scorsi in un’ora e 15 minuti.

La scarsissima resistenza opposta da Djokovic in quei due set è quasi incredibile. Stavamo davanti al televisore invocando che succedesse qualcosa. Djokovic sembrava ridotto a un pezzo di carne. Era così diverso dal solito. Oltre al tennis, un linguaggio del corpo passivo e abbattuto. Nessun urlaccio, nessuna conversazione tormentata col suo angolo, nessuna chiamata al fisioterapista, litigi col pubblico, provocazioni. La partita è scivolata su una lastra liscia e priva di imperfezioni su cui, mano a mano, Alcaraz ha esposto tutta la sua mercanzia. Seguendo il suo flow incredibile, ha messo il silenziatore alla partita, che si è svolta in una strana bolla ovattata, in cui Djokovic ha fatto da sparring partner al tennis sfavillante del suo avversario.

Nel terzo set, poi, la finale è stata tenuta in vita artificialmente. Mentre Alcaraz, con uno schiaffo al volo di dritto, stava per chiudere i conti, qualcuno si è lasciato scappare un urlo che ha fatto perdere le misure allo spagnolo. È seguita una lieve sbandata, che ha protratto il match al tiebreak, dove Alcaraz ha ripreso a giocare il suo tennis da fantascienza. Sul 3 pari, nel primo momento incerto della partita, Carlitos ha sfoderato uno dei tanti colpi da highlights: una stop volley di sensibilità magica su uno strepitoso recupero di Djokovic.

«Non mi considero ancora un campione» ha detto lo spagnolo ai microfoni, con i piedi ancora sul prato del centrale, che promette di diventare il suo giardino personale per i prossimi anni. È solo il nono giocatore a riuscire nella difesa del titolo a Wimbledon. Come i campioni sanno fare, ha giocato la sua migliore partita del torneo in finale: 42 vincenti e 24 errori non forzati il computo definitivo. In più punti del torneo ha rischiato: ha vinto solo i primi due turni senza perdere un set. È andato a due punti dalla virtuale sconfitta contro Frances Tiafoe, è stato vicinissimo ad andare al quinto contro Hugo Humbert, ha perso il primo set contro Tommy Paul e Daniil Medvedev - e sembrava aver davanti una strada tortuosa. Vive ancora brutti sgonfiamenti d’intensità, che a posteriori sembrano delle rincorse per slanci ancora più poderosi. Tolti questi, però, non si vedono punti deboli. Il suo gioco, in questo torneo, è parso addirittura in crescita; se non altro più centrato e a fuoco tatticamente. È sembrato più in controllo del suo immenso repertorio, e più efficace con la prima di servizio. Se riuscisse a economizzare un poco il suo gioco, forse diventerebbe più efficace, ma - come lui stesso ha ammesso - «a volte mi è difficile rinunciare a un colpo bello per uno più efficace». Di questo dovremmo essergli grati.

Per Djokovic è stato un ottimo torneo in generale, e un incredibile torneo se pensiamo che si è operato al menisco solo poche settimane fa. Tuttavia ha mancato ancora una volta il suo venticinquesimo Slam, e nel torneo in cui era senz’altro più competitivo - quello che più poteva mascherare la sua sofferenza fisica. Se su cemento i suoi avversari sono più numerosi, su terra ed erba in questi anni probabilmente sarebbe riuscito a inanellare altri Slam anche in questa sua versione ridotta. Purtroppo per lui è arrivato Alcaraz, che lo ha battuto nell’ultimo Roland Garros e negli ultimi due Wimbledon. Anche in questo lo sport sa rispecchiare la crudeltà della vita: prima o poi arrivano i giovani a prendere il tuo posto, a ricordarti che tutto finisce, anche se per un po' è bello lottare, anche se certe cose sono più dure delle altre, e sembrano davvero eterne. Nella conferenza stampa Djokovic ha dato una lettura inequivocabile, e così vera che fa male: «Gli sono stato inferiore in campo. Era un giocatore migliore. Basta. Ha giocato ogni singolo colpo meglio di quanto abbia fatto io. Non penso che avrei potuto fare molto di più». A un certo punto si può essere felici anche facendosi da parte. Magari dopo Parigi.

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