
Ora che i ricordi, i racconti più o meno personali si ritrovano disordinatamente in fila, uno dopo l’altro, a legarli c’è sempre un richiamo alla voce. La voce di Bruno Pizzul, la sua cadenza, il tono con cui entrava nelle case degli italiani per raccontare loro la passione più grande. Eppure, cercando di uscire da questo riflesso pavloviano, fermandosi un attimo a pensare, c’è qualcos’altro che ci sta lasciando un magone fastidioso e ingombrante. Perché la differenza, l’omone friulano, l’ha fatta nei momenti in cui ci privava della possibilità di sentirla, quella voce. L’essenza di Bruno Pizzul stava nelle sue pause intense e nei silenzi che sapevano di resa, generalmente necessari per scandire e al tempo stesso provare invano ad addolcire l’amarezza.
La sospensione dell’anima e della voce in quel mezzo secondo necessario per elaborare l’errore di Roberto Baggio contro il Brasile, triste remake di quanto era accaduto quattro anni prima in semifinale all’allora San Paolo («L’Argentina è finalista in Coppa del Mondo, sono immagini che non avremmo mai voluto commentare») e anticipazione di quel che sarebbe successo nel 1998 nel quarto di finale con la Francia, lasciando entrare nelle case il tonfo sordo della traversa di Di Biagio. Pizzul che tace, affranto come il Paese che lo sta ad ascoltare davanti alla tv. Pizzul sconfitto, come noi, più di noi. Pizzul che raccoglie il testimone dell’Italia mondiale all’improvviso da Nando Martellini nel 1986, dopo il trionfo di Spagna 1982, e lo cede in seguito al tracollo nippocoreano nel 2002, con le sue risate sarcastiche nel commentare gli errori di Moreno e la voce rotta sul colpo di testa di Ahn: un arco narrativo da eroe tragico, l’uomo che ha preso per mano una generazione e l’ha portata in giro per il mondo a fare i conti con il fiele della sconfitta, sempre più amaro ogni anno che passava.
A Pizzul, in quei momenti, ci siamo aggrappati come avremmo fatto con un padre saggio, cercando di capire, di farcene una ragione. È stato l’alfiere involontario e garbato di un’educazione sentimentale che ha riguardato la generazione nata negli anni Ottanta, di un calcio nel quale eravamo grandissimi a livello di club e sempre alle prese con qualcosa che mancava in azzurro. Senza volerlo, ci ha sempre ricordato quanto fosse normale perdere, ché in fin dei conti vince uno soltanto, e tutti gli altri stanno a guardare.
Aveva giocato, Pizzul, ci aveva provato come quell’amico che abbiamo tutti, costretto a fermarsi per un infortunio al ginocchio. Un po’ di B, un po’ di C, da stopper («Ero un giocatore voluminoso, molto statico»), poi la Rai, nel 1969, arrivata dopo una laurea in Giurisprudenza: «RadioTrieste aveva bandito un concorso per programmisti, non si era presentato nessuno. Forse per quello la Rai spedì una lettera di invito a tutti i laureati della provincia. Mi presentai e, forse per non dirmi che non ero adatto al compito, mi suggerirono un’alternativa: “C’è un concorso per telecronisti, perché non prova?”. Fu decisiva la spinta di mia moglie». Maria, la Tigre, soprannome arrivatole in dote per un’analogia con la moglie di un calciatore della Triestina: «Ogni tanto fa ancora qualche smorfia ma si rende conto che il paragone animalesco è assai lusinghiero: la tigre sarà feroce ma è una bestia nobile, bella», ha detto a Giorgio Terruzzi in una lunga intervista sul Corriere della Sera. A suggerire la deviazione era stato Paolo Valenti, membro della commissione giudicante, mente e volto di Novantesimo Minuto. Con Pizzul, tra gli altri, Bruno Vespa e Paolo Frajese. «Cominciò così una carriera inaspettata. Le modalità: irripetibili. Quando un giovane mi chiede come fare a diventare telecronista non so che dire. I giovani fanno fatica e sono troppo spesso sfruttati in maniera invereconda».

Si ritrova, nel giro di un anno, a far parte della squadra di telecronisti per il Mondiale del 1970, quarta voce alle spalle di Niccolò Carosio, Martellini e Luigi Albertini, un momento incredibilmente alto per una carriera appena nata, partita con una telecronaca (Juventus-Bologna) iniziata con 15 minuti di ritardo per “colpa” di un amico e collega come Beppe Viola. A salvarli, il fatto che la partita non fosse in diretta ma in differita. «Quando in Rai cercarono di capire cosa fosse successo e seppero che avevo incrociato Beppe, mi dissero: “Se c’è Viola di mezzo, va bene così”». Con gli occhi e con la mente è rimasto a lungo in quel Messico inaspettato che gli era capitato tra capo e collo: «Ero stato appena assunto, mi mandarono a sorpresa. Non avevo nessuna esperienza. Sono le partite che, nella mia carriera da giornalista, mi sono rimaste più incise nella memoria: se chiudo gli occhi, percepisco ancora suoni e immagini di quei tempi», ha raccontato al Foglio. In Messico si era ritrovato, ancora una volta, fianco a fianco con Dino Zoff, suo compagno di scuola ai tempi di Cormons: uomini e tempi di poche parole, come è facile intuire.
Pizzul non appartiene al genere di telecronisti che hanno cambiato il racconto sportivo, ma le sue qualità sono fin troppo sottovalutate. Parlava bene, con una proprietà di linguaggio che il calcio nevrotico e isterico degli ultimi vent’anni ha masticato e lasciato andare. Utilizzava verbi che oggi ci suonano arcaici: chi è che oggi direbbe in telecronaca che scrosciano gli applausi? Aveva ritmo, un suo ritmo, ma lasciava che le immagini fossero protagoniste. È passato senza fare una piega dal racconto a una voce a quello in cui si affacciavano i commentatori tecnici, sempre dando la preferenza alla parola giusta, scelta con cura all’interno di un lessico variegato come era richiesto ai giornalisti dell’epoca. Era un altro calcio e, di conseguenza, un racconto diverso: i dati statistici quasi non esistevano, c’era invece il gusto per il parlato, figuriamoci per uno che prima di arrivare in Rai, dopo la laurea, si era dilettato con l’insegnamento delle materie letterarie alle medie. «Mi pare che adesso ci sia una eccessiva presenza di parole. Venivamo accusati di parlare troppo quando la telecronaca era fatta da una sola persona, oggi sono coinvolti tre o quattro cronisti. Sono tutti bravi, persino troppo. E qualche volta ho la sensazione che sia la televisione a raccontare se stessa più della partita».
Era ironico, a tratti persino divertente pur all’interno di una veste inevitabilmente istituzionale, si è adattato al calcio che cambiava modellandosi con sorprendente versatilità. Fumava, anche durante le telecronache: «Ogni volta che incrocio Boninsegna, ripete: mi hai affumicato durante quegli anni». Quando non c’erano le telecronache, gli toccava il lavoro di redazione: era lui, quasi sempre a braccio mentre scorreva un filmato che aveva avuto a malapena modo di intravedere qualche istante prima, a raccontare agli italiani le immagini del posticipo domenicale in diretta alla Domenica Sportiva, della quale era stato anche elegante conduttore.
Il ricordo di Pizzul, come di rado accade per una figura come quella di un telecronista, sta diventando non solo nazionalpopolare, ma soprattutto personale, legato anche a motivi anagrafici. C’è chi lo lega alle Notti Magiche di Italia ’90, chi a quell’alternanza ipnotica di Dino-Roberto-Dino a Usa ’94, per evitare di infognarsi con la ripetizione eccessiva del cognome Baggio, e infine chi lo porta nel cuore per i trionfi europei della propria squadra di club, in un arcobaleno che ha coperto più di 25 anni di calcio italiano orgogliosamente esportato nelle competizioni Uefa. In mezzo, anche la pagina nefasta dell’Heysel, la telecronaca che mai avrebbe voluto fare, quella che gli provocò le critiche più aspre. Basta toglierla dall’album dei ricordi e concentrarsi sul resto, sull’educazione sentimentale che ci ha trasmesso un uomo al quale, nella maggior parte dei casi, non abbiamo nemmeno mai stretto la mano, eppure ci è sempre sembrato di casa più di tanti parenti mal sopportati.