La quindicesima edizione dei Mondiali è finita. L’uomo più atteso, Usain Bolt, è uscito imbattuto dal Nido d’Uccello, come quando sette anni fa diventò fenomeno sportivo e mediatico. Le sue vittorie contro l’americano Justin Gatlin, l’unico che abbia tentato di ostacolarlo, l’hanno consacrato come il grande campione di agonismo che è. Questi Mondiali hanno inaugurato una nuova fase della sua carriera, in cui per vincere dovrà fare appello a tutte le sue energie. Il trionfo di quest’anno rappresenta forse il suo capolavoro, dato che è uscito imbattuto nel momento in cui era più vulnerabile. Ora può dire di essere il migliore sotto ogni profilo e, per questo, dovrà ringraziare Gatlin: se non ci fosse stato lui, nessuno l’avrebbe insidiato e le sue doti di agonista non sarebbero emerse in maniera così evidente. Si sarebbe parlato ancora di un extraterrestre invece che di un campione.
Ma la vittoria di Bolt non è l’unico grande evento di una nove giorni che ha visto molti fatti storici o comunque degni di nota. Se il giamaicano ha allungato il suo periodo di imbattibilità (ora è a 17 ori olimpici e mondiali sulle ultime 18 finali disputate), ci sono molti altri momenti che meritano di essere ricordati. Ecco dieci volti che non esauriscono la lista ma riassumono buona parte di Pechino 2015.
1. Rudisha come Bolt
Negli 800 metri, un altro campione si è ritrovato proprio sulla linea di partenza della finale: si tratta del keniota David Rudisha, che tre anni fa fece il record del mondo alle Olimpiadi di Londra. Dopo stagioni di infortuni, quest’anno si presentava in condizioni non eccellenti. Ha vinto grazie all’intelligenza tattica e all’intraprendenza, doti indispensabili per fare di un talento un campione. Qualità che al momento mancano al botswano Nijel Amos, il favorito di quest’anno. Per tutta la stagione ha fatto gara su Rudisha, incollandoglisi alle spalle e battendolo in volata. In semifinale questo comportamento l’ha portato a una meritata eliminazione.
In finale il keniota doveva guardarsi da Amel Tuka. Il bosniaco, esploso quest’anno, è dotato di una volata infernale e, al momento, è pure capace di tempi migliori di quelli di Rudisha. L’unico difetto di Tuka è quello di mettersi in fondo al gruppo ad aspettare gli ultimi 300 metri per risalire. Sfidato a condurre la gara, Rudisha si è messo in testa e ha fatto un primo giro lentissimo. Mentre l’avversario iniziava a muoversi ha cambiato ritmo violentemente, complicandogli di molto la risalita. All’ultima curva, Tuka era ancora in corsia esterna e ha così dovuto percorrere più metri, senza colmare il gap dalla testa. In volata il keniota ha accelerato ancora e ha vinto, mentre il bosniaco faticava ad arrivare terzo. Gli ultimi 200 metri sono stati percorsi in 24’’3, un parziale che ha impedito a Tuka di raggiungerlo. Rudisha ha letto la gara alla perfezione. Se a Londra diede prova di forza, lanciandosi in una lunghissima volata di 800 metri che ammazzò letteralmente la gara, a Pechino ha dato prova di intelligenza. L’unica cosa comune delle due gare è l’intraprendenza, che lo ha portato a decidere come dovessero svilupparsi le finali senza aspettare che lo facesse qualcun altro.
David Rudisha vince l’oro mondiale negli 800 metri.
2. I due lunghissimi giorni di Ashton Eaton
A Pechino, una famiglia ha fatto 17 gare in nove giorni: i coniugi Eaton, l’americano Ashton e la canadese Brianne, erano iscritti nel decathlon e nell’eptathlon. Brianne Theisen-Eaton è scesa in campo nei primi due giorni della rassegna iridata. Ha conquistato l’argento, il secondo dopo quello dei Mondiali di Mosca 2013. Per farcela ha dovuto correre gli 800 metri della settima prova in 2’11’’52, un ottimo tempo per una eptathleta, guadagnando una posizione. Anche Ashton Eaton ha raggiunto il suo obiettivo alla fine dell’ultima fatica, nel suo caso la decima. Solo che a quel punto la sua medaglia era già praticamente acquisita ed era d’oro. Lui puntava a battere il suo record del mondo di tre anni fa.
Rispetto al 2012, quando non era ancora campione mondiale e olimpico, ha chiuso la prima giornata in leggero ritardo: nei 100 metri ha corso in 10’’23 contro 10’’21, nel salto in lungo si è fermato a 7,88 metri rispetto a 8,23, ha recuperato qualche punto nel getto del peso con un lancio a 14,52 (nel 2012 fu 14,20), ha ceduto quattro centimetri nel salto in alto (2,01 contro 2,05). Il distacco cominciava a farsi pesante: 113 punti sono molti, tra due contendenti i cui elementi di forza sono gli stessi. Ma alla quinta prova della prima giornata, Eaton ha dato il primo scossone correndo i 400 in 45’’00, un tempo mai cronometrato in una gara di decathlon. Tre anni fa aveva ottenuto 46’’70. A metà gara era indietro di soli 25 punti rispetto al suo record. Ed è stato lì che ha cominciato a sperare di farcela.
Il giorno dopo ha iniziato con un sostanziale pareggio nei 110 ostacoli (13’’69 contro 13’’70), seguito da un miglioramento di misura nel lancio del disco (43,34 metri contro 42,81) e perdendo terreno nel salto con l’asta (5,20 contro 5,30). A due prove dalla fine era indietro di 45 punti rispetto alla tabella di marcia, ma qui ha ribaltato la situazione. Nel lancio del giavellotto ha dato una spallata da 63,63 metri, contro i 58,87 del 2012. Per la prima volta si è portato sopra i limiti del record del mondo, in vantaggio di 27 punti. Potevano non bastare: l’ultima gara in programma, i 1.500 metri, andava corsa in 4’18’’25 per pareggiare il primato mondiale.
Nel 2012 aveva chiuso in 4’14’’48, ma quella volta due avversari, Joe Detmer e Curtis Beach, si offrirono di fargli da lepri per aiutarlo. Stavolta, con le medaglie in palio, era impossibile che qualcuno facesse lo stesso. Lui si è incollato all’algerino Larbi Bouraada ed è riuscito a concludere la gara in 4’17’’52. Ha fatto il record mondiale per sei punti, 9.045 contro 9.039. All’arrivo era stremato e prima che riuscisse a festeggiare sono passati diversi minuti. Il decathlon è una disciplina massacrante: ne comprende dieci da svolgere in due giorni. Il tempo di Eaton sui 1.500 metri è incredibile, se si pensa che pesa oltre 80 chili e che deve preparare altre nove gare. In almeno tre di queste (100, 400 e salto in lungo) sarebbe un atleta di alto livello, se avesse deciso di specializzarsi. Ma non l’ha fatto e continua a massacrarsi in una gara poco visibile. Una scelta che gli permette di poter dire di essere il miglior atleta del mondo.
I drammatici 1.500 finali di Ashton Eaton.
3. Un fulmine di nome Dafne Schippers
L’ "olandesina volante" era una sprinter di nome Fanny Blankers-Koen, che vinse quattro ori olimpici alle Olimpiadi di Londra del 1948. Era conosciuta anche come “mamma volante”, perché gareggiava nonostante i due figli (fatto praticamente unico all’epoca). Fu la prima superstar dell’atletica femminile. Polivalente, non disdegnava le prove multiple, ma conquistò i suoi maggiori trionfi nelle gare sprint.
Ci sono voluti oltre sessant’anni, ma l’Olanda ha trovato la sua erede. Dafne Schippers ha 23 anni e nel 2013, ai Mondiali di Mosca, arrivò terza nell’eptathlon. A quel punto ha deciso di cambiare strada, buttandosi sulla velocità. Da allora ha ottenuto miglioramenti strabilianti: l’anno scorso ha vinto i campionati europei sia sui 100 che sui 200, quest’anno è scesa per la prima volta sotto gli 11 secondi nei 100. A Pechino ha esagerato.
Nella gara più veloce si presentava con un personale di 10’’92, già record nazionale olandese. Ha dominato le batterie e la sua semifinale, scendendo a 10’’83. In finale si è trovata la strada sbarrata da Shelly-Ann Fraser-Pryce, la migliore dell’ultimo decennio nei 100 metri. La giamaicana era favorita e ha vinto nettamente in 10’’76, in una gara senza storia. Ma alle sue spalle Schippers, che paga molto alla partenza, è schizzata fuori dalle retrovie e ha chiuso a cinque centesimi: il suo 10’’81 le è valso il secondo posto e il terzo record nazionale olandese in una stagione.
La finale dei 100 l’ha resa favorita dei 200 orfani di Fraser-Pryce e Allyson Felix. Molti la ritenevano in grado di scendere sotto i 22 secondi, vista la sua eccezionale accelerazione. Nelle batterie e in semifinale ha dominato passeggiando, in finale è uscita dalla curva in quinta posizione. Davanti a lei Elaine Thompson è passata in testa a 80 metri dalla fine. Schippers si è sbarazzata facilmente delle altre avversarie, ma ha fatto molta fatica a rimontare la giamaicana. Ci è riuscita sul traguardo. La fatica non era dovuta a stanchezza, ma al fatto che aveva corso in 21’’63 contro i 21’’66 di Thompson. Nel giro di una gara, sono diventate la terza e la quinta sprinter più veloci di sempre. Schippers ha battuto il record europeo dei 200 femminili, siglato nel 1979 pochi mesi prima che Pietro Mennea facesse lo stesso tra gli uomini: apparteneva a Marita Koch, tedesca dell’est sospettata di pratiche illecite. Davanti all’olandese, nelle liste all-time, resistono solo Florence Griffith, chiacchierata almeno quanto Koch, e Marion Jones, che oltre a chiacchiere ha subito pure condanne penali. Elaine Thompson è diventata la seconda giamaicana di sempre dietro a un mito dello sprint caraibico come Merlene Ottey. Terza è arrivata Veronica Campbell-Brown, 21’’97. Era da Seul 1988 che non si vedeva una finale con tre atlete sotto i 22 secondi.
Dafne Schippers è la prima vincitrice non giamaicana o americana di una delle due gare più veloci dal 2004. Ce l’ha fatta con una delle prestazioni migliori dell’atletica recente. Ha anche dimostrato quanto sia fuorviante spiegare i risultati dello sprint basandosi su elementi come il colore della pelle. Le manca ancora un ulteriore salto di qualità, prima di arrivare a mettere in difficoltà Shelly-Ann Fraser-Pryce. Ma a Rio 2016 la giamaicana dovrà uscire molto bene dai blocchi, per mettersi al sicuro dalla progressione della nuova olandese volante.
Dafne Schippers ed Elaine Thompson volano sui 200.
4. Il giro della morte di Wayde van Niekerk
I 400 di quest’anno sono stati formidabili fin dalle batterie. Li chiamano “giri della morte” perché mantenere la velocità quasi massima per oltre 40 secondi comporta uno sforzo tremendo. Si intuisce quanto sia una gara dura nell’ultimo rettilineo, un calvario per tutti. Chi cede meno velocità piazza rimonte che, viste dall’esterno, sembrano ottenute grazie a un’accelerazione che in realtà non c’è. Quest’anno, già in batteria, 18 atleti sui 24 qualificati alla semifinale hanno corso in meno di 45 secondi. Due hanno chiuso sotto i 44: il saudita Yousef Ahmed Masrahi e il giamaicano Rusheen McDonald, con 43’’93, hanno ottenuto rispettivamente il primato asiatico e il record giamaicano.
Ma hanno sprecato molte energie ed è stato un errore. Il giorno dopo, in semifinale, McDonald è sprofondato nelle retrovie e Masrahi si è qualificato a fatica. Curiosamente, si sono trovati nella stessa serie sia al primo turno che al secondo. In gara con loro c’era anche Isaac Makwala. Il botswano, leader mondiale 2015 con un sorprendente 43’’72 ottenuto a luglio, era finito alle loro spalle in batteria e li ha battuti abbondantemente in semifinale. Ma ha peccato di tracotanza. Si è comportato, alla partenza e all’arrivo, come il Bolt del 2008 senza esserlo. Dopo le semifinali si è pure prodigato in qualche flessione. Sarebbe scomparso nella finale, dominata da tre atleti che fino a quel momento si erano limitati a passare i turni senza strafare.
Kirani James è il campione olimpico in carica e vincitore dei Mondiali del 2011. Deve ancora compiere 23 anni ed è l’eroe nazionale di Grenada. LaShawn Merritt è un americano di 29 anni. Due volte campione mondiale, sette anni fa a Pechino vinse il titolo olimpico. Il sudafricano Wayde van Niekerk è il meno celebre dei tre, ma quest’anno si presentava tra i favoriti. Nel 2015 è sceso per la prima volta sotto i 20 secondi nei 200 e sotto i 44 nei 400.
Appena dopo lo sparo è scappato via, cercando di mettere più terreno il possibile tra sé e i due avversari più titolati. È passato ai 300 metri in 31’’4, più veloce del record africano da lui siglato. Nessun altro, nella storia, ha mai fatto un passaggio così veloce a tre quarti di gara. Alle sue spalle, rispettivamente con due e tre decimi di ritardo, sono passati Merritt e James, con a rimorchio Makwala. Il botswano è affondato, mentre l’americano e il grenadino hanno provato a ricucire lo strappo con van Niekerk. Non ce l’hanno fatta, ma hanno corso la finale più veloce di tutti i tempi: per la prima volta nella storia tre atleti sono scesi sotto i 44 secondi. Van Niekerk è diventato il quarto più veloce di sempre con un 43’’48 che rappresenta un miglioramento di quasi mezzo secondo rispetto al suo “vecchio” personale di inizio luglio. Merritt si è migliorato a 43’’65, sopravanzando Kirani James, che con 43’’78 ha corso una delle migliori gare della sua carriera.
Dopo l’arrivo il concetto di “giro della morte” si è manifestato in tutta la sua chiarezza. Van Niekerk ci ha messo qualche minuto per riprendersi e andare a esultare sotto le tribune. È crollato quasi subito, esausto. Se Bolt, dopo le vittoria, si esibisce negli show che l’hanno reso celebre quasi quanto la sua velocità, il sudafricano è uscito in barella dal Nido d’Uccello e ha passato qualche ora in ospedale per accertamenti.
I 400 di van Niekerk, Merritt e James.
5. Tianna Bartoletta e un salto lungo dieci anni
Per salire sul podio nella finale del salto in lungo bisognava atterrare oltre i sette metri. La prima a farlo è stata la serba Ivana Spanovic, atterrata a 7,01. Al terzo turno Shara Proctor l’ha superata volando a 7,07 metri, record britannico. All’ultimo giro di salti, quando la classifica era cosa fatta, è arrivata Tianna Bartoletta. L’americana non partecipava a un Mondiale di salto in lungo da otto anni. Dopo Osaka 2007 era sparita dai radar, per ricomparire alle Olimpiadi di Londra 2012 in veste di sprinter. Era arrivata quarta nei 100, ma soprattutto aveva corso benissimo la frazione iniziale della staffetta che sconfisse la Giamaica con il record del mondo di 40’’82.
Quest’anno è riuscita a strappare un biglietto per Pechino ed è tornata all’antico amore, la sabbia. A Helsinki 2005, sulla pedana, aveva vinto il Mondiale con un balzo a 6,89. All’epoca si chiamava ancora Madison, aveva vent’anni e prometteva grandi cose in quella disciplina. Stavolta, prima dell’ultima rincorsa, era terza. Poi è partita, ha staccato al limite ed è volata fino a 7,14. Pochi l’hanno vista, perché negli stessi minuti Dafne Schippers era entrata in pista per i 200 metri. A lei importa fino a un certo punto: l’ha presa un po’ larga, ha fatto qualche deviazione, ma alla fine ha rispettato le promesse di dieci anni fa.
L’ultima chiamata per Tianna Bartoletta.
6. Yarisley Silva e la maturità del salto con l’asta
Nel 2003 si svolsero gli ultimi Mondiali di salto con l’asta femminile prima dell’esplosione di Yelena Isinbayeva. La russa arrivò terza saltando 4,65, superata da Svetlana Feofanova (4,75) e da Annika Becker (4,70). Furono le uniche tre atlete in grado di oltrepassare i 4,60: le altre si fermarono a 4,55 o più in basso. A Pechino Isinbayeva non c’era: ha appena ricominciato ad allenarsi dopo la maternità. In Cina nessuna atleta ha saltato meno di 4,60 metri e sette sono arrivate almeno a 4,70. Ha vinto la cubana Yarisley Silva, con salto vincente a 4,90 metri.
Durante il decennio di Isinbayeva, il salto con l’asta femminile è progredito in maniera enorme e la finale di Pechino segna un prima e un dopo nella storia di questa disciplina, che ormai è sufficientemente matura da sopravvivere al suo volto più noto. Isinbayeva tornerà a saltare a Rio e forse pure a vincere, ma adesso anche senza di lei ci sono molti risultati di alto livello e gare vibranti fino all’ultimo volo. Isinbayeva ha perso almeno tre gare importanti nella sua vita: Berlino 2009, Daegu 2011 e Londra 2012. E il record del mondo indoor le è già stato soffiato da Jennifer Suhr, l’unica altra donna in grado di superare i cinque metri. Ma la gara di Pechino è stata la prima occasione in cui si è vista una vittoria con un salto da 4,90 fatto da qualcuna che non fosse lei. Un salto che, simbolicamente, è un centimetro superiore a quanto fece la zarina a Mosca 2013, durante la sua vittoria più bella e sofferta. L’anno prossimo sarà interessante vedere la campionessa russa impegnata in un nuovo confronto: lei è diventata umana, le altre l’hanno studiata per anni e sono cresciute tecnicamente fino ad avvicinarla.
La gara femminile è stata molto avvincente, una delle più belle dei Mondiali. Quella degli uomini, invece, è stata rovinata da una progressione folle: 15 centimetri a salto fino a 5,70 metri, poi dieci fino a sei metri. Una scelta scellerata, finalizzata ad accorciare al massimo una gara storicamente tra le più lunghe del Mondiale. Renaud Lavillenie, il favorito, ne ha pagato lo scotto a 5,90, quando ha sbagliato tre volte la misura nonostante avesse dimostrato di poterla passare abbondantemente. Il canadese Shawnacy Barber e il tedesco Raphael Marcel Holzdeppe sono riusciti a superarla, ma a quel punto la gara è stata distrutta dal passaggio successivo: 6,00 metri, misura che nessuno dei due aveva nelle corde. Ha vinto con merito Barber, talento di 21 anni che è riuscito a saltare i 5,90 alla prima misura. Holzdeppe, che aveva saltato 5,90 al terzo tentativo, si è dovuto accontentare dell’argento. Per quello che si è visto l’ordine del podio è ampiamente giustificato. Ma se dopo i 5,80 metri, misura che già aveva lasciato in gioco solo sei atleti, si fosse progrediti di cinque centimetri alla volta, la battaglia sarebbe stata più combattuta e appassionante.
Il salto decisivo di Yarisley Silva.
7. Christian Taylor e un volo infinito
La finale del salto triplo era una delle più attese della rassegna. Il duello annunciato tra il cubano Pedro Pablo Pichardo e l’americano Christian Taylor, che quest’anno si sono sfidati nei meeting più importanti superando più volte i 18 metri, ha infiammato il Nido d’Uccello, mettendo in secondo piano la rivincita Bolt-Gatlin sui 200 metri. Il primo a passare in testa è stato Pichardo, 17,52 metri, a cui l’americano ha replicato il giro successivo con 17,49. Al terzo turno di salti il cubano è arrivato a 17,60 e Taylor ha risposto con la stessa identica misura. A metà gara era già chiaro a chi sarebbero andati oro e argento. Taylor è tornato in testa appena rimesso piede in pedana, 17,68. Dopo un quinto turno interlocutorio, all’ultimo salto l’americano ha chiuso la partita.
Ha staccato a 11 centimetri dalla plastilina, ha fatto i tre balzi ed è atterrato mentre il pubblico lo stava già applaudendo. In tribuna c’era Jonathan Edwards, detentore del record del mondo con 18,29. Faceva il telecronista. Chissà cos’ha raccontato agli spettatori in quella manciata di secondi che è servita a misurare il salto e chissà se si è sentito forte e chiaro il sospiro di sollievo che ha tirato: 18,21, il fortino ha resistito per otto centimetri. Un sottobicchiere ne misura nove. Su un salto lungo quanto tre camper, Taylor ha mancato il nuovo record del mondo per un sottobicchiere. Cinque uomini nella storia hanno superato i 18 metri, ma negli ultimi vent’anni nessuno si è mai avvicinato a Edwards quanto lui. Negli stessi minuti, a qualche metro di distanza, la polacca Anita Wlodarczyk lanciava il martello a 80,85 metri, sfiorando il suo primato mondiale fissato a 81,08. Il premio IAAF per un record abbattuto ammonta a 100 mila dollari.
Christian Taylor salta più lontano di (quasi) tutti.
8. La rincorsa inutile di Allyson Felix
Nel disastroso tracollo della velocità americana, sconfitta in otto gare su dieci, solo due persone hanno battuto la Giamaica. Uno è LaShawn Merritt, che ha portato alla vittoria la staffetta 4x400. L’altra è Allyson Felix, che ha combattuto una guerra solitaria contro chiunque indossasse una divisa gialla. Le sprinter giamaicane e quelle americane non si possono vedere. Lei ha quasi trent’anni ed è una della vecchia guardia. Ha iniziato a respirare quell’acredine quando era ancora nelle categorie giovanili. È diventata protagonista di una faida pluridecennale a partire da Atene 2004, quando non aveva ancora 19 anni e fece il record mondiale juniores nei 200 (22’’18) finendo alle spalle di Veronica Campbell. Da quel momento è diventata l’incubo di tutte le duecentiste, oltre che una frazionista eccezionale in entrambe le staffette. Ha vinto diciannove medaglie mondiali e olimpiche, di cui tredici d’oro, con il suo marchio di fabbrica inconfondibile: una corsa leggera e potente, fatta di falcate lunghissime.
Quest’anno ha deciso di non correre i 200 metri, di cui è stata la migliore interprete negli ultimi dieci anni. Ha puntato tutto sui 400, gara che finora aveva corso soprattutto in staffetta. In finale si è trovata contro quattro giamaicane e la campionessa in carica Christine Ohuruogu, che proprio a Pechino aveva vinto l’oro olimpico. Ha deciso di sfidare la britannica superandola fin dalla prima curva, con una partenza bruciante. Ohuruogu si è spaventata e ha accelerato eccessivamente per recuperarla, disperdendo energie preziose. È naufragata poco dopo metà gara mentre Felix ha chiuso in 49’’26, migliorando di oltre tre decimi il suo personale. Alle sue spalle è arrivata la bahamense Shaunae Miller e poi, in fila, il quartetto di giamaicane.
Che per le staffette si mettesse male deve averlo capito lì. Nella 4x100 non ha potuto nulla contro la superiorità della Giamaica e l’errore di due americane all’ultimo cambio. Per la prima volta, ha perso una staffetta olimpica o mondiale. Poi ha corso la 4x400, dove si è trovata con tre compagne di squadra in condizioni di forma pietose. Nonostante fosse abbondantemente la migliore è stata messa in terza frazione, scelta inspiegabile. Quando le è arrivato il testimone le giamaicane erano due secondi avanti con quasi venti metri di vantaggio. Felix si è lanciata in un inseguimento feroce e ha agganciato Stephenie Ann McPherson. A 50 metri dal traguardo l’ha superata, consegnando il testimone a Francena McCorory, che è stata battuta in volata da Novlene Williams-Mills. La sua frazione è stata cronometrata in 47’’72, la terza più veloce della storia. Non è bastato per vincere, ma ha tenuto in gara fino all’ultimo una squadra mediocre. Prima di Pechino era famosa per essere la quarta duecentista di sempre con un personale di 21’’69. Ora è sesta, ma è diventata la prima donna a vincere il titolo sia sui 200 che sui 400. Sarà interessante vedere cosa farà a Rio: sceglierà di difendere il titolo olimpico sui 200 contro Dafne Schippers ed Elaine Thompson o punterà ai 400?
In terza frazione, la rimonta rabbiosa (e inutile) di Allyson Felix.
9. Coraggio e classe di Almaz Ayana
Genzebe Dibaba era la favorita indiscussa per la finale dei 5.000. L’etiope aveva dominato i 1.500 metri, dove inizialmente non sembrava nemmeno interessata a correre, correndo gli ultimi 800 in 1’57’’, un tempo che le sarebbe bastato per vincere anche la finale di specialità. L’ultimo giorno di gare era leggermente affaticata dai turni (tre sui 1.500 e uno sui 5.000) ma fiduciosa di potercela fare. Purtroppo per lei, gareggiava anche la connazionale e coetanea (24 anni) Almaz Ayana. Il parziale dei loro scontri diretti è di 7-2 per Dibaba, altrettanto forte sul ritmo e nettamente più veloce in volata.
Ayana ha lasciato che le giapponesi tirassero i primi due chilometri a un ritmo discreto. Poi si è messa in testa e ha dato uno strattone violento, lanciando un’accelerazione su ritmi insostenibili per quasi tutte. L’unica che poteva tenerli, Dibaba, le si è accodata. Alla fine del terzo chilometro erano rimaste in due, poi Ayana ha accelerato ancora rischiando tutto. Dibaba non ha saputo reagire. A tre giri e mezzo dal traguardo ha cominciato a perdere metri. Inizialmente pochi, poi ha visto la rivale sparire all’orizzonte. All’ultimo chilometro ha sofferto come mai le era capitato e sull’ultimo rettilineo non si è accorta che le sue avversarie la stavano raggiungendo. Ha perso l’argento sulla linea del traguardo, sopravanzata dalla connazionale Senbere Teferi.
Ayana ha vinto con un’impresa clamorosa. Il tempo finale, 14’26’’83, è record dei campionati mondiali sottratto a Tirunesh Dibaba. Gli ultimi 3.000 metri sono stati percorsi leggermente sotto gli 8’20’’. Per avere un’idea di che cosa significa bisogna sapere che nei 3.000 metri piani, per molti anni disciplina olimpica femminile, solo cinque donne nella storia hanno fatto meglio di lei. Una è Genzebe Dibaba, che l’anno scorso in sala ha corso circa tre secondi più veloce. Le altre sono quattro cinesi del gruppo che nel 1993, a Pechino, polverizzò i record mondiali del mezzofondo nel giro di una settimana: l’esercito di Ma, una generazione di atlete tra le più sospettate della storia, sparite quasi tutte nel nulla nel giro di pochissimi anni. Per piegare la resistenza di Dibaba, Ayana ha corso gli ultimi 3.000 in un tempo solo 13 secondi superiore a un record del mondo molto discusso. Ha avuto coraggio e ha portato a casa la medaglia d’oro contro un’avversaria che vale i suoi stessi tempi e ha una volata fulminante.
Contemporaneamente, ha dato una lezione ai suoi colleghi che da anni non riescono a sconfiggere Mo Farah. Leggendo i parziali, si scopre che dai 2.000 ai 4.000 metri è andata 16 centesimi più forte di quanto non si sia fatto nei 5.000 maschili. Per sperare di poter battere i più veloci, bisogna attaccarli da lontano. I ritmi alti fanno emergere le difficoltà di chi non è al massimo della forma, come ha dimostrato Ayana portando Dibaba oltre i suoi limiti di quella giornata. Se le due etiopi fossero arrivate insieme, Dibaba, anche in condizioni precarie, non avrebbe avuto problemi a battere Ayana. Lei lo sapeva, l’ha sfidata sul ritmo e ha avuto ragione. Tra gli uomini manca qualcuno che abbia il coraggio di Ayana. Si dirà che nessuno ha lo stesso talento ed è vero, ma nemmeno Mo Farah vale tra gli uomini quanto Dibaba tra le donne.
L’azione coraggiosa di Almaz Ayana.
10. Il sogno di Aries Merritt
A Pechino c’era anche l’americano Aries Merritt, trent’anni, oro olimpico a Londra sui 110 ostacoli e record mondiale tre mesi dopo. Due anni fa, ai Mondiali di Mosca, non brillò. Si sentiva debole e si fece visitare: gli dissero che i suoi reni erano stati attaccati da una rara patologia genetica e da un virus. Da ottobre 2013 ad aprile 2014 è stato in ospedale, nonostante scappasse al campo di atletica tutte le volte che poteva. Allenarsi seriamente, in condizioni di debolezza estrema, non era possibile, ma quantomeno riusciva a distrarsi.
L’anno scorso ha partecipato, senza brillare, a diversi meeting. Il suo miglior tempo, 13’’27, era molto lontano dal 12’’80 con cui si era preso il record del mondo due anni prima, ma non ne ha fatto un dramma: «Dopo che mi era stato detto che non avrei corso mai più, ero solamente felice di poter fare ciò che amo». Quest’anno si è preparato per essere ai Mondiali, nonostante funzioni renali molto ridotte. Si è qualificato ai Trials americani ottenendo l’ultima posizione utile (la terza). A Pechino si è presentato dimagrito e privo della potenza che aveva tre anni prima. Lui ha fatto sapere di puntare alla finale e a una medaglia. Per sottolineare il concetto, ha corso le batterie nel secondo miglior tempo generale.
Nonostante l’evidente perdita di massa muscolare, saltava l’ostacolo come nessun altro. In attesa della semifinale ha spiegato perché per lui la medaglia fosse così importante: «Più mi alleno, più i miei reni peggiorano e per questo mi sto per sottoporre a un trapianto». Il rene nuovo glielo donerà la sorella. «Sono qui più che altro per la mia sanità mentale. Preferisco stare fuori a godermi la vita perché, chissà, questi potrebbero essere i miei ultimi campionati se l’operazione non va bene». In semifinale ha corso più veloce di tutti, 13’’08. In finale ha vinto il russo Sergey Shubenkov, davanti al giamaicano Hansle Parchment. Al terzo posto, in 13’’04, è arrivato Aries Merritt. Che ora è in ospedale con una medaglia di bronzo al collo.