Non ce la faccio più a stare dietro a ogni singola polemica che riguarda il mondo del calcio (grazie Marco D’Ottavi per collezionarle e riassumerle alla fine di ogni anno) ma la vera legna del discorso calcistico sono le polemiche, per cui scaldiamoci al fuoco dell’ultima in ordine cronologico. Quella tra Cavani e la federazione inglese (FA), che poi è diventata tra l’associazione calciatori uruguaiana e la federazione inglese, tra l’accademia delle lettere uruguaiana e la Federazione inglese, tra la confederazione sudamericana (CONMEBOL) e quella inglese.
Riassumo brevemente, perché la vicenda è più complessa di quanto non sembri. Dopo i due gol in un quarto d’ora con cui Edinson Cavani, entrato nella ripresa, ha ribaltato (da 2-1 a 2-3) la partita tra Manchester United e Southampton – più di un mese fa – sulle sue storie Instagram ha condiviso il post di un suo amico/fan che aveva scritto su una sua foto una cosa del tipo “ti voglio così”, a cui Cavani ha risposto “gracias negrito”. In seguito a una lunga indagine (più lunga di quanto ci voglia a leggere un post su Instagram) la FA ha deciso per una squalifica di tre giornate per via di quella che considera una “grave violazione” del proprio regolamento.
Nel frattempo il Manchester United ha scritto che condivide la lotta contro il razzismo della federazione ma spera anche che nelle motivazioni della commissione (che devono ancora essere pubblicate) verrà chiarito che “Edinson Cavani non è un razzista, né che ci fosse una finalità razzista in quel post”. Il suo allenatore, Ole Gunnar Solskjær, ha scusato Cavani ricordando che è appena arrivato in Inghilterra, aggiungendo che forse i calciatori provenienti da culture diverse vanno maggiormente “istruiti”. Un’idea che rispecchia quella espressa da Gary Neville su Sky Sports, secondo cui Cavani avrebbe dovuto essere parte di un programma educativo di inclusione “il minuto in cui è entrato nel Paese”. E la FA, oltre alla squalifica e a una multa, ha deciso anche di sottoporre Cavani a un programma educativo.
A questo si è aggiunta prima la Academia Nacional de Letras uruguaiana (un gruppo di accademici che si esprime in questioni linguistiche, come la nostra Crusca), secondo cui parole come “negrito” o “gordo” vengono comunemente usate tra amici, non necessariamente nei confronti di persone di pelle scura o grassa. Poi l’associazione calciatori uruguaiani (tra cui Diego Godin che l’ha condiviso sul proprio Instagram) che in un comunicato ha difeso Cavani - “Non ha mai commesso nessuna azione che possa essere considerata come razzista” – e accusato la Federazione inglese di aver preso una decisione “arbitraria” (difficile prenderne una oggettiva, d’altra parte), “etnocentrica”, “dogmatica” e “discriminatoria nei confronti della cultura e dello stile di vita degli uruguaiani”. Infine, si è espressa la CONMEBOL preoccupata, in sintesi, per la “reputazione” di Cavani.
Ovviamente, su queste solidi basi polemiche, si è innalzata una pira su cui ardere i commenti dei media più vari, in tutte le bolle social e lingue possibili.
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Un post condiviso da Diego Godín (@diegogodin)
Pubblico e privato, globale e locale
Nonostante il tentativo di certi media e certa opinione pubblica di spaccare con l’accetta in due parti ogni argomento (ok questa è l’ultima metafora con la legna che faccio), vorrei provare a sottolineare alcune complessità inerenti alla vicenda. Ad esempio, siamo d’accordo sul fatto che Cavani stesse parlando a un suo amico, ma ha condiviso la risposta con i suoi 7.9 milioni di follower. Cavani stesso sembra consapevole del suo pubblico internazionale quando traduce la maggior parte dei suoi post (quelli che non consistono in soli emoticon) in inglese, e prima in francese. Così come lo sono i suoi colleghi uruguaiani che hanno pubblicato il comunicato nelle due lingue.
Quindi il commento di Cavani è sì affettuoso e la relazione con @pablofer222 personale, ma è anche pubblico, per questo non cambia niente se @pablofer222 si sia offeso o meno, come invece teorizza l’Academia de Letras.
Inoltre, va detto che il contesto linguistico c’entra fino a un certo punto. Il regolamento della FA non sanziona solo il linguaggio apertamente razzista ma vieta qualsiasi “riferimento a colore/razza/etnia”. E sarà pur vero, come sostengono gli accademici uruguaiani, che “negro” o “negrito” si possono usare anche per persone non di pelle scura, e che questo magari fuori dall’Uruguay non lo sanno tutti; ma l’origine del termine è di carattere razziale e questo invece può essere evidente a chiunque, tra cui il pubblico inglese e quello, chiamiamolo così, “internazionale”.
In questo senso, il “caso Cavani” somiglia molto da vicino a quello di Sebastian Coltescu, il quarto uomo che per indicare al collega arbitro il vice-allenatore del Basaksehir, Pierre Webo, ha scelto di definirlo per il colore della pelle, usando la parola rumena “nigru” (causando l’uscita dal campo dei giocatori di entrambe le squadre e il rinvio della partita di Champions League tra Istanbul e PSG). Anche qui, una volta chiarito che non si trattava di una vera e propria offesa razzista, la questione non svanisce nel nulla: come sottolinea a muso duro Demba Ba, panchinaro del Basaksehir, è problematico di per sé discriminare – distinguere, differenziare – una persona in base al colore della pelle.
E anche in questo caso non c’entra niente il fatto che gli arbitri stessero parlando tra di loro, dal momento in cui non solo Pierre Webo e Demba Ba (e chissà quanti altri) li hanno sentiti, ma i due arbitri sapevano benissimo di far parte di uno spettacolo mediatizzato. Oltretutto, se si considerasse solo il contesto – linguistico e culturale - anche offese omofobe o sessiste possono diventare tollerabili (o quanto meno inoffensive) tra gruppi ristretti di amici, pubblicamente le cose cambiano.
Non è ipocrisia, funziona così per moltissime cose, anche un bambino cambia linguaggio a seconda che si trovi davanti ai propri amici o ai genitori. L’ipocrisia, semmai, è quella di chi finge si tratti di un’eccezione dovuta al “politicamente corretto” o alla “cancel culture”. Quando parliamo, sempre, stiamo attenti che il nostro messaggio non venga frainteso e se così avviene ci preoccupiamo di chiarirlo e, nei casi migliori, correggerlo per il futuro. E la lingua non è un monolite, io non parlo come i miei nonni, i miei nipoti non parleranno come me, anche per via della sensibilità che cambia.
A chi fa comodo eliminare le sfumature?
Detto questo, si può trovare comunque esagerata la sanzione della FA e pensare che non aiuterà in nessun modo a ridurre il razzismo o il linguaggio discriminatorio nel calcio; o pensare che un social-network sia fuori dalla sua giurisdizione (salvo magari casi estremi, qualora ce ne fossero). Io, ad esempio, la penso così. Ma non ci vedo niente di particolarmente significativo sull’epoca in cui viviamo, mi sembra si tratti di un’applicazione alla lettera di un regolamento, non di una battaglia civile.
Anzi, trovo altrettanto esagerato, se non un filo ridicolo, tirare in ballo la cultura e lo stile di vita uruguaiano, come se dipendesse dall’utilizzo di quella specifica parola, o la federazione inglese fosse intervenuta con i carrarmati per sradicare una tribù indigena come in Avatar. Allo stesso modo nessuno, se non chi è intervenuto in sua difesa, ha tirato in ballo la reputazione di Cavani.
Né, come detto, è necessario che la sua intenzione fosse quella di offendere il suo interlocutore per trovare sbagliato un appellativo che tira in ballo la pelle scura. Qualcuno può ritenere che non ci sia niente di male nell’utilizzo di quel termine, qualcun altro sì, e le singole istituzioni prenderanno delle posizioni rispetto a quella che è la loro opinione.
D’altra parte gli stessi che oggi tirano in ballo Orwell, appena ieri (poco più di un mese fa) con un doppio-carpiato logico si bevevano le giustificazioni di quella parte dei tifosi del Millwall (i duemila riammessi per la prima volta allo stadio tra una chiusura e l’altra dovuta a ragioni sanitarie) che aveva fischiato i propri giocatori inginocchiati prima della partita contro il Derby County. Perché in quel caso non stavano fischiando un gesto contro il razzismo (anche se questo è il significato universalmente condiviso di uno sportivo inginocchiato, da Kaepernick in poi), ce l’avevano bensì con il movimento “marxista” Black Lives Matter. Come no.
A proposito di ipocrisia: chi fischia degli sportivi inginocchiati non è razzista, sta manifestando un pensiero in ambito di politica-economica; perché per essere razzista non basta avere il Mein Kampf sul comodino, possono esserci ragioni puramente culturali e storiche, certo, in compenso se ti inginocchi prima di una partita fai parte di un movimento comunista che imbratta le statue di vecchi eroi patriottici.
Quanto ci si può allontanare dal centro della questione prima che tutta la polemica diventi un insulto all’intelligenza di chi vi partecipa?
Proviamo a riavvicinarci alla realtà: nel “caso Cavani” si discute della possibilità, o meno, di allargare la nostra sensibilità alle parole – anche non offensive – che tirano in ballo il colore della pelle. Se accettiamo di adottare questa precauzione è perché in base al colore della pelle delle persone sono state schiavizzate (a differenza delle persone sovrappeso, dei “gordi”) e tutt’oggi sono vittima di violenze e pregiudizi. Le persone che decidono di eliminare quel tipo di parole dal proprio linguaggio, o le istituzioni che decidono di vietarlo, scelgono di creare una società leggermente più equa di quella da cui veniamo, in cui erano normali un sacco di cose che oggi consideriamo problematiche.
Nessuno aveva usato Cavani per dire che gli uruguaiani sono razzisti o come esempio di quanto il razzismo sia una presenza costante nel calcio. Semmai è l’inverso, qualcuno ha preso la decisione di un’istituzione nei confronti di un singolo per farne un caso generale, culturale (e se è per questo va detto anche che la FA resta nel suo squalificando un proprio membro se lo ritiene opportuno, mentre qualsiasi altra istituzione si esprima sta compiendo un’ingerenza). Tipo l’ex compagno di squadra di Cavani a Parigi, Ander Herrera, spagnolo, bianco, secondo cui la sanzione prova addirittura che il “mondo sta andando a farsi f….” .
Questa levata di scudi mostra una sensibilità che è sospetta. Una permalosità uguale e contraria a quella di cui viene accusato l’anti-razzismo militante o l’indignazione social più generica. Così come mi pare ambigua la scelta lessicale di chi parla di “auto-gol”, e porta avanti la contraddizione secondo cui si tratta di una questione ridicola ma al tempo stesso ne scrive a ogni minima novità.
Parlare di auto-gol significa implicitamente vedere la lotta al razzismo come una partita, in cui può vincere una squadra o l’altra. In cui, soprattutto, ci sono degli spettatori neutrali, in cui non siamo coinvolti tutti. E invece l’uguaglianza tra generi, etnie e religioni dovrebbe essere la normalità, dovrebbe essere scontata (oltre ad essere sancita dalla Costituzione). Quella che sta avvenendo in questi anni non è un’opera di convincimento, per spingere più persone possibili a “non essere razzisti” – sarebbe come pensare di dover convincere qualcuno a non rubare, a non uccidere, eccetera – ma una presa di coscienza nuove verso vecchie abitudini.
È il razzismo ad essere l’elemento di disturbo, per questo col razzismo non si può discutere, solo resistere.