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Paola Egonu ci mostra ciò che non vogliamo vedere
17 ott 2022
Cosa ci dice tutto il rumore intorno alla pallavolista italiana.
(articolo)
10 min
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Rene Nijhuis/Orange Pictures/BSR Agency/Getty Images
(copertina) Rene Nijhuis/Orange Pictures/BSR Agency/Getty Images
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La pallavolo è crudele: pur essendo uno sport di squadra le responsabilità non sono equamente distribuite. Se sei la migliore giocatrice al mondo e hai la palla per andare 2-1 nella semifinale di un campionato del mondo, non hai diritto di sbagliare. È una vita che ripeti gli stessi gesti, gli stessi salti e gli stessi attacchi sulle stesse diagonali, nelle stesse geometrie. Ogni giorno ti alleni per quello. Questa però è la crudeltà della pallavolo, come degli sport fondati sulla ripetizione del gesto: si può finire per sbagliare, nel momento più importante, una cosa che facciamo da tutta la vita. Così, Paola Egonu, la migliore pallavolista al mondo - o insomma, una delle migliori due o tre - sbaglia l’attacco che avrebbe portato l’Italia sul 2-1 della semifinale contro il Brasile. Non è il primo errore della sua partita. Alla fine primo set aveva sbagliato l’attacco del potenziale pareggio, e il Brasile era andato 1-0. Non sarà l’ultimo errore della sua partita, una delle meno brillanti con la maglia della Nazionale.

Paola Egonu ha fatto 275 punti, più di chiunque altra giocatrice nel mondiale di Volley, ma alla fine l’Italia ha perso e si è finiti a parlare più che altro dei suoi errori.

Come tutti gli atleti su cui sono proiettate grandi aspettative, dopo il fallimento di un grande evento internazionale (se così si può definire l'eliminazione in semifinale...), Paola Egonu ha ricevuto critiche più o meno severe sui media nazionali. Era già successo dopo il fallimento dei Giochi Olimpici, con una sconfitta contro la Serbia dopo la quale il ct Mazzanti aveva detto: «Ho raccomandato alle ragazze di staccarsi da quello che le circonda, perché la melma quando arriva, arriva; ed è dura levarsela di dosso». Anche stavolta il tono di queste critiche per Egonu hanno preso una piega vagamente morbosa. Un articolo di Gazzetta ipotizzava che Egonu volesse lasciare la Nazionale, come reazione ai dissidi che ci sono nello spogliatoio e anche col tecnico Mazzanti. Il tono di queste critiche sui social network ha preso, come sempre quando si tratta di Egonu, delle pieghe razziste. Lo ha detto il presidente della Federazione volley Manfredi: «Dopo la gara con il Brasile la giocatrice è stata attaccata sui social da qualche cretino con post di stampo razzista».

Al termine della finale per il bronzo, che l’Italia ha vinto contro gli Stati Uniti, Egonu si è sfogata a bordo campo con il suo procuratore: «Basta! Basta! Non puoi capire, è stancante. Mi hanno chiesto addirittura perché sono italiana. Questa è la mia ultima partita con la Nazionale». La scena è stata ripresa col telefono da uno spettatore e ha circolato sui social, aprendo a interpretazioni anche esagerate rispetto a un discorso strappato a caldo da una sfera privata.

Nell’intervista ai microfoni di Sky, dopo la partita, Egonu, più calma, ha precisato che è stanca ma che non vuole dare addio alla Nazionale, al massimo prendersi una pausa, e che vuole esserci la prossima estate. Dopodiché, a Repubblica, ha di nuovo tirato in ballo il razzismo come motivo del suo disagio: «Mi fa ridere pensare a persone che mi hanno chiesto perché sono italiana, mi chiedo perché con la maglia della Nazionale debba rappresentare persone del genere che mi scrivono queste cose. Io ci metto l’anima e il cuore, non manco mai di rispetto a nessuno e fa male».

Eppure una parte dell’opinione pubblica ha provato a scansare in fretta la componente razzista nella decisione di Egonu. Vale la pena parlarne anche se non mi sto riferendo a nessuno in particolare, se non a un rumore di fondo che però conosciamo benissimo. Un vociare che ci tiene a specificare che il razzismo non c’entra niente, che ormai si vuole vedere il razzismo ovunque, che Egonu farebbe bene a non fare la vittima. Questi discorsi suonano molto come un tentativo di auto-assoluzione, rispondono al nostro desiderio di non voler vedere, di distogliere lo sguardo. Il razzismo non c’è: discutiamo solo un’atleta da cui ci si aspetta molto. Lo stesso che succede a Jannik Sinner, o ai calciatori della Nazionale di calcio. In fondo viene criticata Paola Egonu, che dall’alto del suo privilegio deve saper gestire questo tipo di critiche. Saper gestire la pressione, si dice. Eppure, si può ancora usare una parola blanda come “pressione” quando si ricevono insulti razzisti? Fin dove è lecito che un’atleta sopporti questa pressione? Il commento o il post sui social di un semplice cretino non conta nulla, resta innocuo, per un’atleta abituata alla sovraesposizione mediatica e alla sclerosi della gogna pubblica?

Il punto qui è che non possiamo saperlo, e dovremmo limitarci ad ascoltare, ed è stata Paola Egonu a parlare di razzismo. A dirci che «è facile dire di non leggere i commenti» - e anche qui: noi che ne sappiamo? E se persino il primo ministro Mario Draghi ha ritenuto opportuno telefonarle per esprimerle sostegno, è perché ha rilevato una dimensione sociale nel suo disagio. Non lo sfogo capriccioso di un’atleta sotto pressione.

Invece di sminuire il disagio che Egonu denuncia, riducendolo a semplice sfogo di qualche cretino sulla tastiera, dovremmo limitarci ad ascoltarlo per provare a capire. Ascoltare lei, o chi può parlare con cognizione di causa di questo tipo di razzismo sfiancante, come Igiaba Scego, scrittrice italiana di origini somale che si è identificata nel disagio di Egonu. Nella sensazione che il razzismo «ti sfinisce, ti toglie energie». Oltre alle forme di violenza razzista più manifesta, ci sono le espressioni più subdole e sottili, in cui il razzismo agisce «vampirizzando lentamente le tue risorse, togliendoti entusiasmo, forza, amore. Ti umilia goccia a goccia».

Egonu in questi anni non ha fatto nulla per sottrarsi dalle attenzioni, e sarebbe stato inutile vista la grandezza del suo talento. Le è stata addossato un po’ a forza il peso di essere un simbolo di eccellenza e progressismo di un paese diviso su molti temi sociali, a volte in modo goffo. Andò ospite da Fazio che la definì “un simbolo di integrazione”, nonostante Egonu sia nata in Italia. A tratti siamo davvero ai limiti dell’oggettificazione. Non è solo l’Italia ma anche il mondo a considerarla simbolo di qualcosa di più grande. Ai Giochi Olimpici di Tokyo ha portato tra le sue mani la bandiera a cinque cerchi. Rappresentante quindi non soltanto degli sportivi italiani, ma di quelli di tutto il mondo. È un’atleta di successo, con un talento eccezionale e capace di prendersi le responsabilità che ne derivano.

Solo che se nasci nera e italiana, e in più con potere o con un talento eccezionale, una parte di questo paese proverà in tutti i modi a renderti la vita difficile. Dovrai essere perfetta, non ti saranno concessi errori o anche il semplice diritto a vivere la tua figura di sportiva come meglio credi. Dovrai essere schiva, riservata, umile fino all’auto-annullamento per non passare per viziata, arrogante, montata. Il tuo atteggiamento dovrà in ogni modo giustificare la tua identità per qualcuno inaccettabile: italiana, nera, eppure di successo. Paola Egonu invece è rumorosa, balla davanti alle telecamere, si veste in modo estroso, è sponsorizzata da Emporio Armani, ha detto di amare un’altra donna e, in generale, non si fa problemi ad assumere posizioni che potrebbero metterla in difficoltà. Per tutto questo una parte del paese, quando arrivano grandi eventi internazionali come il Mondiale, ne aspetta il fallimento.

C’entra sicuramente un desiderio generale del pubblico di abbattere il talento, di farlo cadere da un piedistallo immaginario, di ferirlo, come ha scritto Giulia Zonca su La Stampa. Un istinto oscuro che nel calcio trova diversi esempi anche restando agli anni più recenti: Chiesa, Donnarumma, Zaniolo, sportivi che per motivi diversi sono stati considerati immorali, perché in campo erano troppo teatrali, perché fuori volevano guadagnare troppo, o perché non conducevano la vita del buon cattolico. Perché non hanno considerato il loro talento un dono divino da vivere con sacerdotale modestia. Viviamo in un mondo in cui gli sportivi non fanno che ripetere l’importanza dell’umiltà, per sfuggire all’etichetta di arroganti, o anche all’odio di classe in una società sempre più diseguale.

Se poi sei nero diventa ancora più difficile. Non è soltanto un problema italiano se guardiamo al modo in cui gli inglesi hanno trattato Raheem Sterling. Un giocatore a cui è stata appiccicata l’etichetta dell’avido, dell’arraffone, del viziato in tutti i modi possibili, con alcune storie grottesche costruite dai tabloid. Sterling è stato criticato perché vestiva da Primark o andava a Poundworld nonostante fosse ricchissimo; ma è stato criticato anche perché aveva macchine di lusso o perché aveva comprato una villa a sua madre. A Sterling non è stato concesso di vivere i suoi vent’anni in modo normale, di sfuggire alla costante revisione dell’altro, «Al mille per cento per quello, perché sono nero» ha detto al New York Times. Ovviamente per qualcuno Sterling rimane solo un milionario vittimista.

Questo tipo di discriminazioni sono spesso sottili e sfuggenti, e visto che riescono a non sfociare nel registro della violenza più palese, per qualcuno semplicemente non esistono. Una delle più acute opere degli ultimi anni sulla discriminazione, la serie tv Atlanta, mette in scena la condizione afroamericana soprattutto come uno straniamento esistenziale. Dentro situazioni spesso surreali, nella loro normalità, i personaggi riconoscono i rapporti di forza sociali che li assoggettano, ma sono impotenti, incapaci di sconfiggerli, come se fossero preda di un incantesimo. «Voglio che le persone siano spaventate, perché è così che ci si sente ad essere neri» ha dichiarato il creatore della serie, Donald Glover. Essere neri non significa ricevere insulti razzisti ogni giorno, ma vivere una condizione emotiva di angoscia, spavento e subalternità.

Il razzismo non è l’unica dimensione messa in risalto dal caso di Paola Egonu. Naturalmente c’è anche quella della pressione psicologica con cui devono convivere atleti così esposti mediaticamente. Soprattutto in questo contesto in cui nello sport si parla più apertamente di salute mentale - qualche giorno fa Lorenzo Musetti ha avuto un attacco di panico mentre era in campo, a Firenze. In queste situazioni però il razzismo funziona da carburante tossico per tutto il resto.

Egonu non è certo la prima sportiva italiana nera a ricevere un trattamento speciale. Se Mario Balotelli ha perso la voglia di giocare a calcio a poco più di vent’anni non è certo solo colpa del razzismo, ma il razzismo nella sua storia ha un peso indiscutibile. Chi lo nega è in cattiva fede, o ha una visione molto parziale di come funzionano le cose. Balotelli è stato un altro talento nero, italiano e rumoroso. Un atleta il cui successo a un certo punto è stato insopportabile per qualcun altro. In una partita tra Cagliari e Juventus, nel 2019, Moise Kean ha ricevuto ululati razzisti e versi da scimmia. Lui ha risposto segnando e allargando le braccia verso il settore dei tifosi del Cagliari: un gesto preso male da qualcuno, come se Kean dovesse rispettare il diritto di qualcun altro a insultarlo per il colore della sua pelle, senza quindi rispondere in nessun modo. Il presidente del Cagliari Tommaso Giulini ha parlato di “troppi moralismi” e Leonardo Bonucci ha detto che le colpe erano al 50% del pubblico razzista e al 50% del giocatore. Moise Kean sembrava sulla buona strada per vivere un’altra condizione infernale (nero, talentuoso, estroso), e ora è come se la piega minore che ha preso la sua carriera lo stesse proteggendo.

Sempre nel 2019 la Nazionale di atletica leggera ha pubblicato un video, patrocinato dal CONI, in cui gli atleti leggono i commenti che ricevono sui social: «Possono avere anche la cittadinanza ma restano sempre africani di quella terra. Mai faranno parte di questo Paese»; «Piuttosto che la Nazionale italiana sembra la Nazionale africana».

Lo sport ci offre sempre un teatro privilegiato di osservazione del conflitto sociale. Il trattamento riservato da una parte del paese agli atleti italiani neri, in questi anni, è la parte visibile di un odio sociale che rimane più occulto nel quotidiano. Esiste una relazione innegabile tra le discriminazioni che subiscono Raheem Sterling o Paola Egonu, e le discriminazioni che vivono quotidianamente migranti e seconde generazioni. Questi atleti, come Paola Egonu in questi giorni, ci mostrano quello che non vogliamo vedere. «Il mio passo indietro è anche per farvi riflettere» ha detto ai microfoni.

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