Si può vincere un Mondiale a diciott’anni, diventare famose quasi quanto Usain Bolt, minacciare il record del mondo e promettere sfracelli senza essere osannate dal pubblico. Anzi, si può essere temute e osteggiate per questo. Finire vittime di controlli al limite della discriminazione, considerate imbroglione quanto e più delle atlete dopate. Passare un calvario di sette anni, tornare, vincere ancora e sospettare che poco sia cambiato.
Berlino, 19 agosto 2009. Nella notte dell’Olympiastadion scendono in pista le otto finaliste iridate degli 800 metri. Fino a questo momento il volto dei Mondiali tedeschi è stato Usain Bolt: il giamaicano ha già migliorato il primato mondiale dei 100 e quella sera ha vinto le semifinali dei 200, preparandosi a battere un altro record. Ma ora in pista c’è un’atleta che ha catturato l’attenzione degli addetti ai lavori. È sudafricana, si chiama Caster Semenya e ha diciotto anni. È all’esordio fra le grandi: si è svelata tre settimane prima ai Campionati africani juniores nelle isole Mauritius, dove ha doppiato 800 e 1.500. Nei 1.500 ha chiuso in 4’08’’01: il suo primato personale, 25 secondi meglio dell’anno precedente, e record dei campionati africani juniores. Soprattutto ha stravinto gli 800 in 1’56’’72. Ha staccato tutte di oltre quattro secondi e mezzo, una distanza siderale. In un colpo ha ottenuto primato personale, record dei campionati, record nazionale assoluto e miglior prestazione mondiale assoluta dell’anno. Ha partecipato anche alla staffetta 4x100, con cui è arrivata terza.
A Berlino la favorita è lei. La kenyana Pamela Jelimo, che l’anno prima aveva dominato la specialità correndo in tempi stratosferici, è uscita mestamente in semifinale. Un’altra kenyana, Janeth Jepkosgei, è l’unica con qualche speranza di batterla. Ci prova partendo forte, corre i primi 200 sotto i 27 secondi. Cerca di tenere un ritmo alto, è in testa fino all’ultimo rettilineo del primo giro. Poi Semenya la affianca, la supera e si mette alla corda. Chiude i primi 400 in 56’’8, se ne va a 200 metri dalla fine con un’accelerazione bruciante. Si gira a metà curva quando ormai ha qualche metro di vantaggio, si volta di nuovo e scava un abisso tra lei e il resto del mondo. Vince in 1’55’’45, dietro Jepkosgei e la britannica Jennifer Meadows sono lontane oltre due secondi. Caster Semenya ha dato una prova di forza paragonabile alle imprese di Bolt. Lo sottolinea mostrando i muscoli. Ma nello stadio non c’è il clima di giubilo e festeggiamenti delle grandi occasioni, ad eccezione l’angolo rumorosissimo dei tifosi sudafricani.
Perché su Semenya, da qualche tempo, girano voci pesanti. Le sintetizza l’italiana Elisa Cusma, sesta e delusa: «Io quella che ha vinto, la sudafricana Semenya, nemmeno la considero, per me non è una donna, e mi dispiace anche per le altre». Si scuserà poche ore dopo, ma le sue parole rendono bene l’atmosfera in cui la giovane ha vinto il titolo mondiale. Cusma non è un caso isolato: prima della finale, racconterà in seguito Jenny Meadows, le altre atlete la fissavano e ridevano. «Basta guardarla», è il giudizio della russa Mariya Savinova, quinta. Poco prima della gara la Iaaf ha reso noto che la sudafricana è stata sottoposta a due test del sesso: uno nel suo Paese, l’altro a Berlino. Ma per i risultati serve tempo. Due ore prima della finale il portavoce Iaaf Nick Davies ha spiegato così la sua mancata esclusione dalla gara: «Non abbiamo elementi tali da impedire che corra». Il motivo è il seguente: «Aspettiamo l’esito degli esami sulla femminilità, semplicemente siamo fuori tempo massimo». Nel frattempo «sarebbe un terribile errore escludere l’atleta». Non lo è annunciare prima della finale che è stata indetta un’indagine sul sesso di un’atleta in gara. Le voci si moltiplicano: non solo la muscolatura accentuata e il tono di voce basso, c’è chi insiste sul fatto che si tratti dell’unica atleta in gara a usare i pantaloncini e che da ragazzina giocasse a calcio con i maschi. Il sostegno che arriva dal suo angolo non è molto meglio in fatto di squallore. Ecco il suo allenatore, Michael Seme: «Telefonate pure alle sue compagne di stanza a Berlino, l’hanno vista in doccia, lì non si può nascondere niente».
Caster Semenya è nata in un villaggio di nome Ga-Masehlong, dalle parti di Polokwane, il 7 gennaio 1991. Nelson Mandela era libero da meno di un anno e si stavano consumando gli ultimi rigurgiti di apartheid. Per lei la segregazione sarà più lunga. Intanto tace, a parte le dichiarazioni di rito alle tv. Anche se del suo fisico parlano tanti: gli allenatori, le federazioni, qualche avversaria. Caster Semenya diventa il volto dei Mondiali di Berlino con Usain Bolt. Ma il giamaicano è l’eroe positivo, lei vince malgrado tutto. Lui è la manna dell’atletica, Semenya una grana micidiale da risolvere.
Mondiali di Berlino 2009: la prima vittoria di Caster Semenya.
Il fango e i mesi sospesi
Caster Semenya non è la prima né l’ultima donna accusata di non esserlo. La stessa sorte è toccata a tante, fin dagli albori dell’atletica femminile. La cecoslovacca Zdenka Koubková, dominò i Giochi dell’Impero Britannico nel 1934 e due anni dopo cambiò il suo nome in Zdenek Koubek. Hermann Ratjen gareggiò alcuni anni per la Germania nazista con il nome di Dora: fu escluso dall’atletica femminile in seguito a un controllo del sesso. Circa due decenni dopo ammise di aver vissuto tre anni da donna, su pressione della Gioventù hitleriana. I controlli hanno avuto diverse modalità di svolgimento a seconda dell’epoca. Spesso sono stati criticati per l’invasività e per l’inefficienza. La prima atleta olimpica nella storia a fallirlo fu la polacca Ewa Klobukowska, bronzo nei 100 metri alle Olimpiadi di Tokyo 1964 e oro nella staffetta 4x100 con annesso record mondiale. Fu squalificata nel 1967 perché il test della cromatina giudicava il suo assetto ormonale incompatibile con quello di una donna. Secondo il Guardian, anni dopo diede alla luce un figlio. Il test del sesso fu aspramente criticato nel 1992 prima delle Olimpiadi invernali di Albertville, sia per la scarsa attendibilità sia per le conseguenze morali e psicologiche per le atlete coinvolte.
Il tema è irrisolto da decenni. Lo scienziato dello sport sudafricano Ross Tucker lo sintetizza così: «Puoi e dovresti avere certi vantaggi se vuoi vincere, ma a un certo punto il tipo di vantaggio che hai, e la sua grandezza, dev’essere controllato. Per un pugile peso medio, succede a 75 chili. Ma per gli uomini contro le donne, succede da qualche parte. Solo, non sappiamo dove».
Caster Semenya resta sui giornali per mesi. Dichiarazioni, accuse e smentite si inseguono. Si rintraccia la nonna Maphuti: «Dio l'ha fatta così, io l'ho tirata su. Queste chiacchiere non mi disturbano molto, perché lei è una donna». La difende il marciatore altoatesino Alex Schwazer: «Io credo che bisognerebbe mettersi anche nei suoi panni, e quindi che bisogna portarle più rispetto di quanto è accaduto finora». Il suo allenatore Seme, lo stesso che invitava i giornalisti a telefonare alle compagne, racconta che una volta cercò di entrare nel bagno femminile di un distributore di benzina. Quando gli addetti la fermarono, «Caster si limitò a ridere e a chiedere se volevano che si abbassasse i pantaloni per dimostrare che era una donna». Un ex allenatore, ovviamente anonimo, assicura che Semenya è un ermafrodito e che il suo caso era già noto al Sudafrica mesi prima. «Tutta spazzatura» replica lapidario il ct Ekkart Abeit, ex tecnico della Ddr. Semenya fa un ritorno trionfale in patria, il Telegraph svela i risultati dei test: «Ha in corpo tre volte il livello normale di testosterone per una donna». Poi è il turno del Sydney Morning Herald: gli esami del sesso indicano la presenza di ovaie e testicoli, il che sta a provare la natura di ermafrodito. Torna alla carica il Telegraph, con le parole del segretario generale Iaaf Pierre Weiss: «È chiaro che è una donna, ma forse non al 100%. Dobbiamo vedere se ha un vantaggio per il fatto di trovarsi tra due sessi rispetto alle altre». Secondo il quotidiano le lasceranno l’oro perché non c’è dolo, ma la squalificheranno a vita. Sempre per il Telegraph, la Iaaf ha suggerito a Semenya di fare un intervento chirurgico perché le sua salute è a rischio.
Il Sudafrica si appella all’Onu contro la Iaaf, tacciandola di razzismo e sessismo. In patria Semenya viene fatta posare in abiti femminili per il magazine sudafricano You. «Non si è mai vista Caster in un vestito. Fu imbarazzante», ricorda il giornalista sudafricano Wesley Botton, che ha seguito tutta la carriera della fuoriclasse sudafricana. Ne parla in questo lungo pezzo del Guardian, pubblicato il 29 luglio 2016, sette anni dopo l’esplosione della ragazza-prodigio: «Caster aveva bisogno di aiuto e fu avvicinata da persone di cui non avrebbe dovuto fidarsi». Che si trovasse in mezzo a un gioco molto più grande di lei, e in cui lei era solo, a seconda dei campi, un problema o un’arma da medaglie, si era già capito dai tempi della finale mondiale di Berlino: «Mi è stato detto che avevano preso la decisione di ritirarla dopo le batterie. Ma i politici la costrinsero a correre. Volevano quella medaglia e lei era la prima donna nera sudafricana a vincere un titolo mondiale in pista. Così gettarono Caster ai lupi».
Sapendo bene a cosa andavano incontro. Nemmeno un mese dopo la finale il presidente della federazione sudafricana Leonard Chuene finisce nella bufera: secondo il quotidiano Mail and Guardian, aveva già disposto test del sesso su Semenya settimane prima della gara, quei test erano già stati definiti “non buoni” e Harold Adams, medico della squadra, aveva suggerito di ritirarla. Senza successo. Sono i primi mesi di una lunghissima gogna. Per molto tempo, Semenya pare destinata ad abbandonare l’atletica leggera: la sua vittoria è una condanna.
Il ritorno e il freno a mano
Ma nel 2010 Caster Semenya è tutt’altro che finita: vuole rientrare. Prima però deve aspettare che la Iaaf decida se permetterglielo. Uno stallo paradossale che si risolve il 6 luglio: è una donna, può gareggiare. I dettagli medici dei test e dei risultati non vengono resi noti, per tutelare quel poco di privacy che le è rimasto. Lei continua a rinviare. Manca la forma. Ufficialmente per problemi fisici, ma influisce anche ciò che ha vissuto. Il manager Jukka Harkonen la porta a Lappeenranta, una cittadina finlandese. È il 15 luglio 2010, da Berlino sono passati quasi undici mesi. I test l’hanno tenuta ferma più di certe sospensioni per doping. Il livello del meeting è risibile, ma ci sono cronisti da tutto il mondo. Lei vince in un mediocre 2’04’’22. Continua con i meeting, ma salta i Giochi del Commonwealth e chiude la stagione.
Intanto arrivano le reazioni delle avversarie. Molte nel suo addio ci hanno sperato. Ora la sua forma migliore è lontana, ma sanno che la sudafricana è estremamente più forte di loro: «È frustrante correre contro qualcuno che sembra non fare fatica –spiega la canadese Diane Cummins -. Noi tutte pensiamo che possa battere il record del mondo della Kratochvilova». E se correre è un suo diritto, l’americana Jemma Simpson replica così: «Certamente è una questione di diritti umani, ma in una gara i diritti umani riguardano tutti». Non accettano di perdere contro Caster Semenya: secondo Cummins «se è una donna, è davvero al limite del range biologico. Per questo la maggior parte di noi ha la sensazione di correre letteralmente contro un uomo». Non sono tanto le lamentele a colpire, quanto il fatto che l’ostracismo su Semenya non tocchi nessun’altra. Poco importa che i livelli di testosterone siano più alti per cause naturali: parte delle avversarie e del pubblico la considerano dotata di un vantaggio più irregolare di quello che ha chi il testosterone lo assume, magari alternandolo all’Epo.
Nel 2011 la Iaaf, che sta chiudendo gli occhi sul doping di Stato in Russia e su una miriade di casi sospetti, vara il primo codice per regolare la partecipazione alle gare di atletica di donne con iperandrogenismo (definito come eccessiva produzione di testosterone). È la prima federazione a farlo, spiega orgogliosamente l’introduzione. In sostanza una donna può gareggiare a due condizioni: 1) avere livelli di testosterone più bassi della media maschile; 2) qualora i livelli di testosterone siano nella media maschile, avere una resistenza all’ormone che le impedisca di averne un vantaggio competitivo. Il livello limite di testosterone verrà definito in 10 nmol/L. Un pool di medici indagherà i casi sospetti.
Le prestazioni di Caster Semenya peggiorano: ci sono gli infortuni, c’è la scarsa concentrazione, c’è il fatto, mai confermato ufficialmente ma sussurrato da quasi tutti gli osservatori, che Semenya sta prendendo medicinali per abbassare i livelli di testosterone. Si sta riducendo la cilindrata per poter continuare a correre. Non è l’unica. Nel 2013, a Nizza, quattro atlete tra i 18 e i 21 anni di Paesi in via di sviluppo si sottopongono a un intervento chirurgico per rimuovere le gonadi e ridurre la clitoride. Contro l’iperandrogenismo è guerra aperta, più spietata di quella al doping.
Le sconfitte
Per quanto depotenziata e in difficoltà, Caster Semenya è ancora temibile. Ai Mondiali di Daegu 2011, in finale, la kenyana Jepkosgei imita la tattica di due anni prima: una partenza a razzo per tentare di mettere in difficoltà la sudafricana. Funziona a metà: Semenya, a metà del gruppo, perde qualche metro. Torna in cattedra nel secondo giro: sul penultimo rettilineo si beve le tre avversarie che ha davanti. L’ultima a cedere è Jepkosgei, a 180 metri dal traguardo. Sembra il film visto a Berlino: Semenya ha una prateria davanti e un paio di metri sul resto del gruppo. Ma nell’ultimo rettilineo qualcosa si inceppa. La sudafricana non riesce a uccidere la gara. Alle sue spalle c’è un’ombra che l’ha inseguita per quasi due giri: è la russa Mariya Savinova. La stessa che, due anni prima, indicandola aveva detto «Basta guardarla» a chi le chiedeva cosa ne pensasse sulla campionessa del mondo. Savinova la recupera, l’affianca, la supera e la stacca. Chiude in 1’55’’87, primato personale. Semenya, con 1’56’’35, è nove decimi più lenta di due anni prima. Un miracolo, se si pensa a quanto sono diverse le condizioni. Per lei è comunque una rivincita, per le avversarie la dimostrazione che la sudafricana si può battere. Manca un anno alle Olimpiadi, Semenya cambia allenatore: da ottobre 2011, la sua coach è una donna africana, una che come lei ha dominato gli 800 metri vincendo tre Mondiali e un’Olimpiade. Si chiama Maria Gracia de Lurdes Mutola e viene dal Mozambico. Anche lei appassionata di calcio. Anche lei accusata di eccessiva mascolinità.
La finale degli 800 metri di Daegu 2011.
Nel 2012, a Londra, il canovaccio è sempre lo stesso: partenza a razzo per mettere Semenya in difficoltà. Il ritmo lo dà l’americana Alysia Johnson Montano, a 300 metri dalla fine la sudafricana è ultima. Montano ci crede, ma al suo fianco sfila un fantasma con la divisa del Kenya. È Pamela Jelimo: ha sconvolto il mondo nel 2008, vincendo il titolo olimpico a Pechino e, poche settimane più tardi, ottenendo a Zurigo un 1’54’’01 che è il terzo miglior tempo della storia. Peccato per le voci di iperandrogenia, le stesse di Mutola e Semenya. Il dominio di Jelimo è durato un battito di ciglia, poi anni di anonimato che la kenyana vuole riscattare a Londra. Il sogno dura poco. Dal gruppo emerge come una scheggia Savinova, intenzionata a fare la doppietta Mondiali-Olimpiadi. Supera Jelimo all’imbocco del rettilineo. Scappa via al doppio della velocità, mentre Jelimo si rialza e si lascia lentamente sfilare. Arriverà quarta, beffata sul traguardo dall’altra russa Ekaterina Poistogova. E Semenya? È rimasta defilata fino a 250 metri dalla fine. All’imbocco dell’ultimo rettilineo è sesta, ma risucchia quattro avversarie con una rimonta disperata e spettacolare. È di nuovo argento, come un anno prima. Nelle retrovie c’è una ragazza di 19 anni: Francine Niyonsaba, dal Burundi. A differenza di Semenya, resta nell’anonimato ancora qualche anno. Il tempo della prossima Olimpiade.
Con la seconda sconfitta di seguito, l’anomalia della sudafricana sembra definitivamente sconfitta. Si gareggia alla pari, o quasi: qualche anno dopo le russe Savinova e Poistogova verranno squalificate per doping. Il presidente della commissione d’inchiesta Dick Pound ne chiederà la radiazione a vita. Troppo impegnata a controllare le atlete con iperandrogenismo, la Iaaf ha dimenticato che non sempre per vincere servono le caratteristiche fisiche: spesso basta doparsi.
Nuovo allenatore, nuove regole, nuove vittorie
Semenya sparisce dai radar. Nel 2013 e nel 2014 è pressoché inesistente, bloccata dagli infortuni al ginocchio. Ai Mondiali del 2015 esce in semifinale, sembra la pallida ombra dell’atleta che fu. Come per Pamela Jelimo e chissà quante atlete meno note, pare che le regole abbiano funzionato e che la stella sia definitivamente implosa. In realtà, le cose stanno cambiando. Nell’ottobre 2014 la sudafricana ha salutato Mutola e si è trasferita a Potchefstroom, 120 chilometri da Johannesburg. Il suo nuovo allenatore è Jean Verster. Da qui parte la sua rinascita.
Ma se Caster Semenya torna l’ottocentista più forte del mondo è merito anche di un’atleta indiana. Una che probabilmente non vincerà mai niente, ma che non rinuncia a combattere le sue battaglie. È una sprinter, si chiama Dutee Chand. Nel 2014 ha 18 anni ed è sconosciuta al grande pubblico. I tempi non sono quelli di una fuoriclasse: 11’’63 nei 100 e 23’’57 nei 200, il mondo che conta viaggia a un’altra velocità. Ma ai Giochi del Commonwealth ci potrebbe andare. E per una ragazza di diciott’anni non è poco. La federazione dell’India invece la ritira poco prima della kermesse. Il testosterone è troppo alto, se vuole continuare a correre dovrà sottoporsi a trattamento medico e farlo tornare nella norma. Molte ragazze della sua età, troppo intimidite per replicare, l’hanno fatto. Lei si rifiuta.
Chand ha diciotto anni, come Caster Semenya quando a Berlino dovette tacere mentre chiunque si sentiva autorizzato a sentenziare sul suo corpo. L’indiana non tace e finisce sul New York Times. «Sento che è sbagliato dover cambiare il proprio corpo per poter fare sport. Io non cambierò per nessuno». Racconta di essersi fatta un giro su Internet e di avere pianto tre giorni di seguito: «Dicevano “Dutee: ragazzo o ragazza?”. E io pensavo, come potete dire queste cose? Sono sempre stata una ragazza». Dutee Chand, del villaggio di Brahmapur a oltre 600 chilometri da Calcutta, combatte. Si appella al Tas, il massimo organo giudiziario dello sport mondiale. Secondo gli avvocati Chand non ha colpe per i suoi vantaggi genetici, la norma della Iaaf discrimina le donne perché agli uomini non viene controllato il livello “naturale” di testosterone e la soglia di testosterone oltre la quale non si può gareggiare è arbitraria. A luglio 2015 il Tas le dà ragione: per il Tas non ci sono prove sufficienti che le donne con iperandrogenismo abbiano un vantaggio tale da rendere necessario escluderle dalle gare femminili. Se la Iaaf vorrà, potrà presentarne di più concrete entro luglio 2017. Nel frattempo Chand può gareggiare. E con lei può continuare a farlo Caster Semenya, liberata dall’accusa di non avere un corpo a norma. Manca ancora qualche mese alla fine del 2015, la sudafricana convola a nozze con la fidanzata Violet. Intanto la sua avversaria Safinova, che nel 2009 la derise e la accusò di essere un uomo, è stata squalificata per doping. Gli ori del 2011 e del 2012 potrebbero andare a lei. «Non mi piace vincere a tavolino – ribatte -. All’Olimpiade sono arrivata seconda, se il Cio decidesse di darmi l’oro sarei felice per il mio Paese, ma non lo sentirei mio e non avrei nulla da celebrare».
Arriva il 2016. Per Semenya è ora di riprendersi tutto. In un pomeriggio di aprile vince tre ori ai campionati sudafricani. Domina i 400 (50’’74). Lascia passare cinquanta minuti e stravince gli 800 (1’58’’45). Altre tre ore dopo, sui 1.500, vince in 4’10’’93. A luglio, ai campionati continentali africani, è oro negli 800, nei 1.500 e nella 4x400. A Rio la favorita sui due giri sarà lei. Non tutti sono entusiasti del suo exploit, nemmeno in patria. Lo studioso Tucker, per esempio, vede nel testosterone la base della differenza tra prestazioni maschili e femminili: «Riguardo alle atlete intersex, la mia posizione è che i livelli di testosterone dovrebbero essere abbassati ma a un livello più alto della media femminile. Le regole della Iaaf erano un compromesso accettabile». Tucker pensa soprattutto alle avversarie di Semenya: «Non è giusto nei loro confronti non avere regole».
La rivincita
Alle Olimpiadi di Rio de Janeiro tutti si aspettano che Caster Semenya, dopo sette anni di travagli, possa battere quel record del mondo che sembra traballare dalla notte di Berlino 2009. In lizza per le medaglie ci sono altre due atlete con iperandrogenismo: Francine Niyonsaba, del Burundi, e Margaret Nyairera Wambui, del Kenya. Niyonsaba era in finale anche quattro anni prima, a Londra. Ma finì sesta e nessuno le fece caso. Stavolta, con le russe dopate fuori dai giochi, può arrivare sul podio. Se nel 2009 Semenya era rimasta nell’ombra fino alla finale, stavolta il terzetto è sotto gli occhi di tutti da settimane.
La Iaaf intanto non fa nulla per evitare che le cose vadano come sette anni fa. Il 17 agosto Sebastian Coe, in piena bufera doping (la Russia è stata esclusa, altri hanno rischiato la stessa fine), annuncia che la Iaaf tornerà davanti al Tas per ribaltare la sentenza. Poi cerca di smorzare i toni, in maniera – per usare un eufemismo - maldestra: «Ma bisogna ricordare che questi sono esseri umani. È un tema sensibile: sono atlete, figlie, sorelle e c’è bisogno di essere molto chiari su questo».
Il 20 agosto, sette anni e un giorno dopo l’oro di Berlino 2009, c’è la finale. Nessuno mette in dubbio la vittoria di Semenya, tanti si aspettano il record del mondo. Lei va in testa dall’inizio e passa a metà gara in 57’’6, un ritmo tranquillo. Niyonsaba tenta il colpaccio a 350 metri dalla fine, ma Semenya non le dà scampo. La supera di prepotenza e sull’ultimo rettilineo se ne va, verso l’oro olimpico e verso la rivincita. Il tempo, 1’55’’28, è esattamente a due secondi dal record. Migliora il primato sudafricano, ma molti dicono che si è trattenuta. Lei non se ne cura, mentre intorno si ripetono scene già viste. Con la differenza che stavolta finisce nel ciclone tutto il podio. Niyonsaba ha tenuto agilmente la seconda posizione, pur finendo a oltre un secondo da Semenya. Wambui ha battuto per 13 centesimi la canadese Melissa Bishop, l’ultima ad arrendersi. La nordamericana dopo l’arrivo scoppia a piangere. Nei giorni successivi evita le polemiche: «Ho mancato il podio perché non ho corso abbastanza veloce, non a causa di chi era in gara». È un’eccezione. Oltre alle diverse atlete deluse, tra cui la britannica Lynsey Sharp che si lamenta per il cambiamento di regole, arrivano i commenti grevi: su Twitter il britannico Nigel Levine si dichiara «felice per Lynsey Sharp per essere arrivata terza negli 800 metri donne». Interviene anche la ex maratoneta Paula Radcliffe: secondo lei le altre «non saranno mai in grado di competere con quel livello di forza e di recupero che quell’elevato livello di testosterone porta». Per Radcliffe la soluzione è abbassare testosterone o un intervento chirurgico. La primatista mondiale della maratona aveva già espresso qualche settimana prima le sue paure: «Sappiamo che ci sono alcune comunità dove la condizione di “intesex” e iperandrogenismo è più comune. Non vogliamo che la gente vada in queste comunità per cercare ragazze, portarle via e allenarle». Uno scenario apocalittico, anche se nessuno si pone questi problemi con gli altri sport, soprattutto se maschili: nella pallacanestro la percentuale di uomini sopra i due metri è elevatissima, molto più che nel resto dell’umanità.
In conferenza stampa, alle tre premiate viene chiesto se è vero che sono state sottoposte a trattamenti ormonali per abbassare i livelli di testosterone e, se sì, che effetti hanno avuto. Loro rifiutano di rispondere: «Non siamo qui per parlare della Iaaf, non siamo qui per parlare di speculazioni, stasera è tutto sulla performance. Questa conferenza stampa è tutta sugli 800 che abbiamo corso oggi», taglia corto Semenya.
Il dominio, il record e le altre
Un oro olimpico e uno mondiale in tasca, le vittorie del 2011 e del 2012 che potrebbero esserle assegnate per squalifica. Un dominio inavvicinabile, la sensazione che le cose sarebbero simili nei 400 e nei 1.500. Caster Semenya ha scritto un pezzo di storia degli 800 e ha ancora 25 anni. Per chiudere il cerchio le manca il primato mondiale. L’unocinquantatrèeventotto di Jarmila Kratochvilova, due giri che, nel 1983, proiettarono la cecoslovacca in una dimensione fuori dal tempo. Per avere un termine di paragone: nel 1983 il record dei 100 uomini era il 9’’93 di Calvin Smith. Da allora sono scesi sotto quel limite 48 sprinter. Kratochvilova è stata appena avvicinata. È diventata icona, come sanno gli Offlaga Disco Pax. Ora c’è un’atleta che tutti indicano come la predestinata a spodestarla. Non c’è tifo per questo risultato, ma un senso di ineluttabilità: quello di Caster Semenya è un atto dovuto che prima o poi arriverà.
Ma Semenya, non è mai scesa a meno di due secondi dal record. Molti dicono che corre col freno a mano tirato, per limitare le polemiche. Forse sì: si vede a occhio nudo che ha margini di miglioramento molto elevati. Ma tra il suo tempo e quello della Kratochvilova c’è un salto di qualità. Non è detto che Semenya lo valga per intero. Inoltre, tra Semenya e il record ci sono dieci atlete nelle graduatorie all time. E dire che lei valga, a occhi chiusi, più di ciascuna di loro, è una grande mancanza di rispetto. Si può presupporre che possa batterle, darlo per scontato come una formalità no.
Gli 800 donne non sono una gara come le altre: quei due giri rappresentano uno dei passaggi più critici dello sport femminile. Fecero parte del primo programma olimpico femminile dell’atletica, nel 1928 ad Amsterdam. Vinse la tedesca Lina Radke-Batschauer, seguita dalla giapponese Kinu Hitomi. La finale si svolse il giorno dopo le semifinali: molte atlete, all’arrivo, si accasciarono distrutte. Vederle stanche bastò al Cio per bandire gli 800 dal programma femminile per 32 anni. Le donne, si spiegò, non erano fisicamente in grado di affrontare quella gara. Già questo è sufficiente per capire quanto gli 800 metri siano stati sempre fonte di discriminazione. Uno spartiacque tra ciò che una donna può fare e ciò che non può fare, tra ciò che è e ciò che non è. L’esercizio perfetto di Nadia Comaneci è perdonabile, un 800 strabiliante no.
Forse per questo, le grandi ottocentiste hanno storie complicate da raccontare. Le dieci davanti a Semenya sono state discriminate come lei per l’aspetto. Si sono dopate, o sono state sospettate di averlo fatto. Hanno avuto un’esistenza tragica, o sono finite coinvolte in trame da romanzi gialli. Pamela Jelimo e Maria de Lurdes Mutola hanno passato un’intera carriera con il marchio del sospetto addosso. Tra le risatine, le allusioni e gli ammiccamenti di compagne, avversarie e pubblico. Per la tedesca dell’est Sigrun Grau e le tre sovietiche Nadezhda Olizarenko, Olga Mineyeva e Tatyana Kazankina non era una condanna l’aspetto ma la nazionalità, che le dava automaticamente coinvolte nel doping di Stato. Olizarenko e Mineyeva ottennero i due migliori tempi di sempre alle Olimpiadi di Mosca 1980. Olizarenko vinse in 1’53’’43, seguita da Mineyeva. Terza chiuse Tatyana Providokhina, un’altra sovietica. In quell’Olimpiade nessun atleta risultò positivo all’antidoping. Le prime due corsero meglio di Kazankina, una che l’accoppiata oro-record del mondo l’aveva ottenuta quattro anni prima, a Montreal. E che nel 1984 chiuse una carriera piena di primati con una squalifica per essersi rifiutata di sostenere un test antidoping. La slovacca Jolanda Ceplak, ottava donna più veloce di sempre sugli 800, fu trovata positiva all’Epo nel 2007.
Jarmila Kratochvilova, la più grande di tutte, fu accusata di tutto: la chiamavano «portaerei cecoslovacca» perché troppo grossa, muscolosa e potente per essere una donna. E la carta d’identità cecoslovacca la battezzava per dopata, come il fatto che fosse esplosa tardi. Lei respinse sempre tutte le accuse e fece sfracelli, ma non vinse mai un oro olimpico. Il 26 luglio 1983 a Monaco corse il miglior 800 di sempre: «A trenta metri dal traguardo vidi il cronometro e pensai: è guasto». Pochi giorni dopo abbassò il record dei 400 di Marita Koch, correndo in 47’’99: la tedesca ci mise due anni per riprenderselo con un inarrivabile 47’’60. Nel 1984 Kratochvilova era favoritissima, ma troppo orientale per le Olimpiadi di Los Angeles: le fecero scrivere una lettera, sotto dettatura, in cui diceva di essere contenta del boicottaggio.
Nessuno sospettò mai di doping la rumena Doina Melinte, che proprio a Los Angeles vinse il suo oro. Lei fu accusata di avere dopato o fatto dopare Iulia Negura, campionessa de1l mondo di corsa su strada. Con una motivazione quasi banale: Negura, a Melinte, aveva rubato il marito. Finì tutto in nulla e, oggi, Melinte è vice presidente dell’Agenzia nazionale antidoping.
Si può avere una vita difficile e tragica anche senza subire accuse di doping o di mancata femminilità. La cubana Ana Fidelia Quirot era fortissima: 1’54’’44 nel 1989, bronzo olimpico nel 1992. La chiamavano Tormenta del Caribe. Nel 1993 aspettava una bambina. Le esplose un tostapane in faccia e andò a fuoco. Si bruciò il 40% del corpo. La bimba nacque prematura, sopravvisse pochi giorni. Lottò tra la vita e la morte, venne a trovarla Fidel Castro: «Io devo tutto a Cuba e alla sua medicina. Quando ho avuto l'incidente sentivo un odore di gomma bruciata. Solo che era la mia pelle. Avevo tanta sete. Il 38% del mio corpo era bruciato. Ustioni di terzo grado: sullo stomaco, sul collo, sotto le braccia. Ero un orrore. Avevo 29 anni. Quando mi hanno dato uno specchio ho urlato: dovevate farmi morire». Tornò a gareggiare con le cicatrici in faccia, alternando gli 800 agli interventi chirurgici. Vinse due ori mondiali, nel 1995 e nel 1997. Le manca solo l’Olimpiade: ad Atlanta 1996 fu seconda. Ma se chiedete a Fidel Castro, vi risponderà che la medaglia della sua amica «vale molto più dell’argento. È una medaglia di diamante e ha un valore straordinario».
1995: Ana Fidelia Quirot torna a vincere.
Pensare che Caster Semenya possa scartare come birilli gli imbrogli, i sospetti, la discriminazione e il dolore che queste storie portano con sé è offensivo per le sue colleghe, per lei e per lo sport femminile. Caster Semenya può scalare quella graduatoria, ma dovrà soffrire. Dovrà battere atlete che hanno barato o che sono sospettate di averlo fatto. Superare ragazze che sono state scrutate in un lungo e in largo per trovare il modo di provare che non fossero donne. Fare meglio di donne che, come lei, hanno vinto contro tutto.