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Cattivissimo me
08 dic 2016
Draymond Green è il migliore a fare quello che fa, ma quello che fa non sempre è piacevole.
(articolo)
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Tra le attrazioni del Michigan’s Adventures, parco divertimenti non troppo distante da dove Draymond Green è cresciuto, spicca lo Shivering Timbers, roller-coaster mozzafiato tra i migliori del pianeta, almeno secondo la rivista Amusement Today. Per provare a capire il multiforme mondo di Draymond Green e sezionare quanto accaduto durante l’ultima estate, quell’attrazione potrebbe rappresentare un buon punto di partenza. Proprio come un convoglio delle montagne russe, l’ala dei Warriors ha vissuto quei mesi in un forsennato alternarsi di alti e bassi, tutti affrontati con la medesima tracotanza.

L’inizio del percorso è il famigerato contatto con le regali pudende di King James, reiterarsi di un trattamento già dispensato ad altri avversari, seguito dalla squalifica per la successiva gara-5 che, senza Green in campo, ha dato il via alla clamorosa rimonta dei Cavs. Impresa che culmina nel trionfo di gara-7, partita in cui il reprobo Green è — viene quasi da dire ovviamente — il migliore in campo dei suoi con 32 punti e 15 rimbalzi. La delusione viene in parte mitigata dalla convocazione tra i dodici componenti di Team USA per le Olimpiadi di Rio, traguardo non proprio scontato per uno scelto alla numero 35 del Draft.

Gli altri 34, in compenso, sono ben memorizzati.

Se giocare per il proprio paese costituisce un grande onore, il picco nell’estate di Green è rappresentato dal ruolo decisivo che l’ex Michigan gioca nel reclutamento di Kevin Durant. I due si scambiano messaggi e pareri da tempo, e quando il fenomeno di Thunder diventa free agent, il rapporto a distanza coltivato con pazienza da Green si rivela decisivo nell’orientarne la bussola verso la Baia. Il colpo, per gli Warriors, è di quelli sensazionali e nessuno all’interno dell’organizzazione fa mistero di come l’amicizia tra Green e Durant abbia giocato un ruolo fondamentale.

Draymond, mentre trascorre l’estate a East Lansing — città a cui rimane legato dopo l’esperienza in maglia Spartans — decide di festeggiare l’impresa prima facendosi arrestare per rissa in un bar, quindi producendosi inavvertitamente (pare) in un nudo integrale che finisce su Snapchat e genera un picco d’attenzione non proprio indispensabile. L’avventura in forza a Team USA, infine, si conclude con un Green poco adattabile al contesto tecnico e confinato ai margini della squadra che porta a casa l’oro senza faticare nemmeno troppo. Lo spirito olimpico, a ben vedere, ha poca presa sull’ala degli Warriors, le cui affinità con il barone de Coubertin si limitano alla comune appartenenza alla specie umana.

Questo è Draymond Green, prendere o lasciare. Gli Warriors hanno preso e appaino intenzionati, nonostante tutto, a continuare a farlo. Il motivo è molto semplice: in una squadra ai limiti della perfezione estetica e straripante talento, serve qualcuno in grado di sobbarcarsi l’enorme mole di lavoro sporco, qualcuno disposto a fare le cose che a nessun altro va di fare. E Draymond Green è il migliore a fare quello che fa, ma quello che fa non è sempre piacevole.

Strenght in Numbers

Quando si tratta di Green, è facile scadere nello stereotipo dell’underdog. La sua carriera è una continua rivincita contro tutto e tutti, sempre a testa alta. Snobbato in un Draft non eccelso nella parte finale (a proposito: qualcuno ha notizie di Marquis Teague di Arnett Moultrie?), nonostante fosse finito con merito nel primo quintetto All-American, l’ex Spartans ha saputo capitalizzare sulle perplessità altrui. Ci è riuscito alzando via via l’asticella fino a diventare non solo parte integrante di un gruppo che ha scritto la storia del gioco, quanto addirittura l’archetipo di giocatore che le squadre avversarie cercano, invano, di replicare. L’impresa è improba perché sul campo Draymond Green è un modello pressoché unico per caratteristiche tecniche, fisiche e caratteriali. Se spesso le ultime hanno il sopravvento dal punto di vista mediatico, è la combinazione di atletismo, velocità, visione di gioco e furia agonistica a renderlo inimitabile, spina dorsale che puntella la sinuosa struttura dei Golden State Warriors.

Riferendosi alla passata stagione, i numeri lasciano poco spazio a chiacchiere o interpretazioni. Miglior Net Rating personale dell’intera lega (+18.9 a fronte di un comunque assurdo +11.6 di squadra), 13.2 di plus/minus e un PIE di 13.6 (10.8 quello di squadra). Tredici triple doppie in stagione, primo per distacco nel suo ruolo, e 33 doppie doppie. Leader di squadra per assist e rimbalzi, secondo per stoppate e dietro al solo Curry nelle categorie che riguarda il rating offensivo. Le statistiche in sé dicono molto, ma non bastano a descrivere l’impatto che Green ha sulla squadra, innanzitutto sul piano tattico. L’abilità di passare dal post e in particolare di raggiungere il compagno sul lato debole a seguito degli immarcabili blocchi tra le guardie, unita alla versatilità nelle situazioni di pick and roll — aspetto del gioco in cui è in grado di agire con la medesima efficacia sia da bloccante che da portatore di palla — lo rendono un facilitatore straordinario.

Non bastasse, nella propria metà campo Green è forse l’unico nella lega a poter difendere su tutti e cinque gli avversari in campo, consentendo a Kerr di spingere i limiti del cambio difensivo verso limiti che le altre squadre non possono neanche immaginare. Il repertorio di Green, inoltre, è illimitato: protezione del ferro ( -11% negli ultimi due metri di campo contro di lui), difesa in aiuto (14.5 tiri contestati a partita), istinti difensivi (4.4 deflections a partita, primo in Nba, e 2.3 palle rubate) con pochi eguali declinati con assurda intensità. Oltre a racimolare cifre che da sole ne tratteggiano il peso specifico in campo, l’ala degli Warriors eccelle in tutti quegli ambiti del gioco che non saltano all’occhio del tifoso casuale ma che finiscono in ultima analisi per fare la differenza tra una squadra divertente e una vincente.

Per dire, senza la sua versatilità e volontà di sacrificarsi, prima di tutto fisicamente, il celeberrimo Death Lineup semplicemente non potrebbe esistere. A maggior ragione ora che il ruolo di Harrison Barnes in quella gioiosa macchina da canestri è stato preso da Kevin Durant, avvicendamento che se da una parte aumenta a livelli esponenziali la pericolosità offensiva, dall’altro induce una redistribuzione di compiti e spazi d’iniziativa personale per i compagni. Ad oggi, il rinominato Super Death Lineup, ha fatto registrare un Net Rating di +28 (124 in attacco e 96 in difesa) ma si stratta di un dato poco significativo in quanto riferito a campione numericamente troppo ridotto. L’anno scorso, durante la trionfale cavalcata che ha portato al miglior record di sempre, il Net Rating si assestava a un clamoroso +47 (142 off, 95 def), per altro crollato a -5.3 durante i Playoffs.

L’altra faccia della medaglia, quanto a nude cifre, è rappresentata dai falli tecnici — 13 in stagione regolare, 5 durante i playoff la scorsa stagione, siamo a quota 4 nelle prime 20 partire disputate in quella attuale —, specialità che è costata a Green due partite di squalifica durante la regular season per poi sfociare nella sospensione per gara-5 delle Finals. Cestisticamente parlando, la fedina penale di Green è tutt’altro che intonsa, ma Golden State è disposta a pagare di volta in volta la cauzione richiesta, pur di avere con sé il proprio numero 23.

Despicable Me

Alter ego di campioni dalla faccia pulita come Curry e Thompson, Draymond Green interpreta la parte del cattivo della compagnia un po’ perché il copione lo richiede, e un po’ perché sembra venirgli del tutto naturale. I comportamenti che non collimano con questa immagine, come l’impegno civile nella comunità locale o la beneficienza a titolo personale (nel 2015 Green ha donato al suo ex-ateneo 3,1 milioni di dollari, elargizione più generosa nella storia di Michigan State, lo stesso ateneo di Magic Johnson), sembrano destare molto meno interesse.

Barometro emotivo della squadra, le occasioni in cui Green è stato separato a forza dai compagni durante gli allenamenti oppure si è preso la scena nel bel mezzo di un timeout non si contano nemmeno. Nonostante questo, anzi forse proprio per questo, i Warriors della nuova era KD hanno ancora più bisogno di lui. Dopo aver vampirizzato la lega con l’acquisizione dell’ex Thunder, Curry e compagni hanno infatti ultimato quella trasformazione che nel mondo del wrestling viene definita passaggio da face, ovvero bravi ragazzi coccolati dal pubblico, a heel, cioè cattivi detestati da chiunque non sia loro tifoso e oggetto di fischi e boati di disapprovazione in tutte le arene.

A maggior ragione, quindi, Draymond Green è il vero uomo copertina dei nuovi Warriors che, dopo aver scritto la storia e i record, vogliono tornare a far l’unica cosa che conta: alzare il Larry O’Brien Trophy. E Green questo l’ha capito, decidendo di ritagliarsi da subito un ruolo e un obiettivo ben precisi per la stagione in corso. Preso atto di come gran parte degli addetti ai lavori prospettino per la nuova versione dei Warriors una connotazione prettamente offensiva, conservando il proverbiale basso profilo, Draymond ha fatto sapere di volersi occupare lui della faccenda e, ça va sans dire, di ambire al premio di difensore dell’anno.

Siccome siamo pur sempre nella galassia di Draymond Green, parallelamente all’annuncio di voler correre per il premio, è arrivata anche la critica alle metodologie di valutazione nell’ambito che, a suo dire, lo penalizzerebbero per lo stile di gioco praticato da Golden State. La prima parte di regular season ha visto Green dare seguito alle promesse coi fatti, prendendosi il palcoscenico nei momenti decisivi. Nel contempo l’incorreggibile propensione a eccedere nell’attenzioneriservata agli avversari, che si tratti di vecchi rivali o nuovi arrivati, si è trasformata in pratica ormai quotidiana, tanto da costringere la lega ad aggiornare il regolamento con l’intenzione di disciplinare gli ‘atti innaturali’ commessi sul campo da gioco. Invece di cospargersi il capo di cenere e cercare di limitare la propria irruenza, l’ex-Michigan ha pensato bene di reagire alle polemiche elaborando una replica in due atti, puro teatro della provocazione. Atto primo: postare sul proprio account Twitter foto a tema Bad Boys, intesi come film con Will Smith e Pistons dell’era Chuck Daly. Atto secondo: spalleggiato dal proprio agente, l’ex Bulls e tre volte campione NBA B.J. Armstrong, ironizzare pesantemente sugli estensori della regola che “non sarebbero in grado di toccare il ferro saltando ma decidono come dovrebbe reagire il tuo corpo in quelle situazioni” e sui dirigenti della lega che “non sapevo fossero così esperti a proposito di movimenti corporee: forse tra le skills richieste per occupare quelle posizioni occorre aver frequentato corsi di kinesiologia”.

D’altra parte Green, grande appassionato di football — nel suo anno da junior ha anche esordito da tight end con gli Spartans —, non ha mai fatto mistero di ispirarsi, quanto a spirito competitivo e condotta di gioco, agli Oakland Raiders degli anni ’70/’80.

In una lega che rifugge da qualsiasi tipo di controversia, dai Bad Boys di cui sopra al Malice in the Palace con protagonista Ron Artest, è come presentarsi a un festival vegan sbandierando il trofeo di campione del mondo di barbecue. Ora, la sfida vera, per lui e per chi si troverà ancora una volta a gestirne gli eccessi, sarà cercare un punto di equilibrio che non ne comprometta il volume d’energia prodotto. Non trattandosi di un esperimento in laboratorio, a pesare sarà la variabile relativa all’aspetto umano. E se l’indulgenza con cui spesso viene osservato il processo di maturazione dei giocatori nel caso di Green è inversamente proporzionale alla sua esuberanza, occorre comunque tenere in considerazione che quella appena iniziata è solo la sua quinta stagione da professionista.

L’uomo giusto al posto giusto

La cultura a cui si sono ispirati gli Warriors sin dal momento della loro acquisizione da parte di Joe Lacob e Peter Guber, mutuata in buona sostanza dai dettami delle aziende della Silicon Valley, si ispira al concetto di gruppo creativo, all’interno del quale possono e devono convivere personalità anche contrastanti, purché esista un leader in grado di gestirle. Steve Kerr, al netto delle traversie derivanti da un rapporto non lineare con Green, ha finora dimostrato di avere ciò che serve per governare lo spogliatoio e ottenere il massimo dei risultati. Il giocatore, dal lato suo, pur non rinunciando a manifestare la propria personalità, non si è mai tirato indietro quando si è trattato di assumersi le proprie responsabilità e, all’occorrenza, recitare la parte del capro espiatorio — ruolo di cui Phil Jackson aveva teorizzato l’importanza già nei suoi libri, individuandolo in Horace Grant per i suoi primi anni ai Chicago Bulls.

Così, la colpa della sconfitta nelle ultime finali è ricaduta su Green in maniera sproporzionata rispetto alla pur grave sospensione di gara-5, lasciando in secondo piano gli errori di gestione tecnica dello stesso Kerr o il blocco mentale che pareva aver attanagliato il resto della squadra nelle ultime tre partite della serie, tanto da portare una fonte interna a commentare la loro prestazione in gara-5 senza Green con queste parole nel pezzo seminale uscito su ESPN: “Gli altri potranno essere frustrati dalle sue bravate, ma avevano l’opportunità di dimostrare di che pasta fossero fatti e hanno giocato come un branco di codardi”.

Più della coesistenza tra Curry e Durant, più della forzata rinuncia a elementi che caratterizzavano l’identità della squadra (Andrew Bogut in primis), è opinione comune che il sentiero degli Warriors verso il successo debba per forza passare dalla tenuta dei rapporti tra Kerr e e la sua ala multiuso. Nei momenti di giubilo ce la si è cavata grazie al senso dell’umorismo, che non difetta a nessuno dei due; quelli un po’ meno felici riportano di sfuriate reciproche tra le mura dello spogliatoio e di un Kerr piuttosto isolato all’interno di squadra, front office e proprietà, dove l’infatuazione per Draymond e per il suo modo di stare al mondo non conosce tentennamenti. Kerr, forte dell’esperienza in ambito relazioni complicate giocatore/allenatore maturata sotto la guida di Jackson e Gregg Popovich, i Freud e Jung dell’NBA contemporanea, e ben consapevole di non poter premere il tasto ‘pause’ e arrestare, anche solo per un istante, il ciclone Green, dovrà saper declinare in modo impeccabile l’antica ricetta dell’alternanza tra carota e bastone.

Quanto al giocatore, le manovre d’avvicinamento all’arcipelago Kerr appaiono evidenti, prima fra tutte l’appoggio incondizionato al coach in merito alla recente polemica sull’uso della marijuana.

Tutto in puro stile DG, ovviamente. Lo stesso che manterrà dentro e fuori dal campo, attenendosi al copione che lo vuole nella parte dell’antipatico, spaccone e villano o, stando a quello che ci racconta lui, semplicemente essendo se stesso. Perché nell’universo di Draymond conta solo ciò che crede lui; per il resto, critiche e offese dei tanti haters compresi, la reazione è e sarà sempre più o meno la stessa.

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