Secondo la DRAE, il termine spagnolo fracaso denota un suceso lastimoso, inopinado y funesto, vale a dire un esito penoso, inopinato e funesto. Si tratta di una tripletta di aggettivi che affondano le loro radici in piani temporali diversi: qualcosa si manifesta nella sua penosità in media res, mentre accade (o non accade, il che lo rende ancora più penoso); l’inopinatezza, invece, cioè l’accadere imprevedibilmente, muove i passi da una previsione, perlopiù sbagliata, che rende un evento sorprendente. Ad essere funesti, infine, sono i risultati hic et nunc, ma soprattutto le ripercussioni nel futuro più o meno immediato.
La partecipazione dell’Uruguay a questa Copa América è stata un fracaso con tutti i crismi: inseriti in un girone tutto sommato alla loro portata, gli uomini di Tabárez dicono addio alla competizione che nella sua storia li ha visti vincitori più di ogni altra Nazione in maniera magari non clamorosamente inattesa (nella nostra Guida Ufficiosa, ad esempio, ci eravamo chiesti se non fossimo di fronte a un’impasse), ma quantomeno difficile da pronosticare: lo scarto qualitativo, in termini tecnici soprattutto, con Venezuela e Giamaica c’era ed è sostanziale, nonostante il livellamento generale del Subcontinente americano.
Il primo errore dell’Uruguay è stato quello di sottovalutare il peso specifico che la gara contro il Messico, cioè la sua d’esordio, avrebbe rappresentato nella dinamica di definizione delle gerarchie interne al girone. Sono convinto si sia trattato di una fallacia di tipo psicologica: la contraerea formata da Giménez e Godín, così solida quando immersa nel cholismo, si è sciolta al primo affondo di Héctor Herrera. In generale è assurdo come alla Celeste sia venuta a mancare proprio la caratteristica sulla quale hanno fondato la loro mitografia, cioè la garra charrúa. Di fronte ai messicani sono apparsi melliflui e fallibili, la più velleitaria e rinunciataria delle selezioni uruguaiane che si sia mai vista.
A rendere penoso il fallimento della Celeste è stato principalmente il fatto che questa edizione speciale della Copa América è stata ideata per celebrare il Centenario di una kermesse la cui prima edizione si è tenuta nel 1916 e che ha visto la Celeste trionfare: è un po’ come se alle Nozze d’Oro di una coppia la sposa avesse abbandonato gli invitati all’antipasto, ritirandosi nella sua stanza d’albergo, e ora fosse costretta ad osservare il resto della festa con malinconica tristezza dalla finestra, obbligata a ripensare a quanto fosse bella, il giorno del suo matrimonio, e quanto fosse al centro delle attenzioni, allora, mentre ora non più.
Forse Luís è stato l’unico a viverla come andava vissuta.
La storia calcistica dell’Uruguay ha una serie di corsi e ricorsi che la legano a doppia mandata agli anniversari. La prima edizione del Mondiale per nazioni si è tenuta nel paese rioplatense per festeggiare il centenario dell’indipendenza: mai ricorrenza venne festeggiata più adeguatamente.
Nel ventennale del primo Mondiale distrusse i sogni di gloria di una concorrente continentale invidiosa del suo lustro; e a ottant’anni di distanza tornò a stupire, e forse stupirsi, strappando un risultato totalmente, anche stavolta, ma con accezioni più positive, inopinato.
Se fossi uruguayano mi commuoverei ancora. Per quanto dovrei vivere nel ricordo di questa storia?
Muslera ✔︎✔︎, Gastón Silva ✔︎, Godín ✔︎✔︎, Maxi Pereira ✔︎✔︎, Giménez ✔︎; Arévalo Ríos ✔︎✔︎, Álvaro González ✔︎, C. Sánchez ✔︎; Gastón Ramirez, Stuani ✔︎, Cavani ✔︎✔︎.
Questa è la formazione con la quale l’Uruguay è crollato di fronte alla non-certamente-irresistibile selezione Vinotinto: la spunta significa che il giocatore era già presente, l’anno scorso in Cile, nell’undici iniziale; la doppia spunta che era già tra i titolari nel 2010, in Sudafrica.
A distanza di sei anni la Celeste non è cambiata molto, quasi per niente: l’ossatura, e i cinque undicesimi, sono gli stessi che scatenarono uno tsunami, nel mare magnum della retorica idealista e celebrativa, di una squadra combattiva nonostante e in virtù del fatto che rappresentasse un Paese piccolissimo, guidato da un presidente che tutti avremmo voluto come presidente; il suo cammino era l’incarnazione più cristallina del cliché caro a Eduardo Galeano secondo il quale ogni uruguayo, alla nascita, gridi gol! prima ancora che mamma.
In Cile, l’estate scorsa, l’Uruguay ha passato il primo turno come migliore terza classificata, allo stesso modo della Colombia. Entrambe vennero eliminate ai quarti, rispettivamente da Cile e Argentina, cioè le due squadre che poi si sarebbero contese la finale.
La Colombia, quest’anno, si è presentata alla Copa América Centenario con un roster molto diverso da quello del 2015 (e del 2014, cioè forse l’highest-peak della squadra negli ultimi dieci anni di storia calcistica), come a voler dare un segnale di rinnovamento.
L’Uruguay no.
Tabárez, avvoltolato nella sua aura inscalfibile di Maestro, ha voluto forzare fino alle estreme conseguenze il concetto di affidabilità: si è fidato dei suoi senatori, forse in un certo senso gli ha voluto concedere una possibilità di rivalsa, o chissà, magari era già cosciente della fine di un ciclo e voleva soltanto che gli eventi gliene dessero una conferma certa. Aver lasciato fuori, inscritto nella lista dei convalescenti, un Luis Suárez che più di ogni altro avrebbe potuto risollevare le sorti della squadra è stato, inquadrato in questa ottica, un gesto di clemenza e direi quasi, osando, di riconoscenza nei confronti del suo calciatore più talentuoso. Tabárez ha voluto salvareEl Pistolero, lo ha defraudato dei galloni di Caudillo e gli ha affidato un incarico modesto sottocoperta perché sapeva che quella alla quale il galeone celeste stava andando incontro era una Tempesta Perfetta.
Il Campionato Clausura uruguayo del 2016 lo ha vinto il Plaza Colonia, battendo il Peñarol fuori casa alla penultima giornata: lasciando da parte per un attimo le sirene della leicesterità (il club solo due stagioni fa militava in Segunda División, dove occupava le ultime piazze, ed è al primo successo in assoluto nella sua storia), il fatto che dopo dieci anni il titolo sia andato a una squadra non montevideense è per certi versi un segnale.
Domenica i patasblancas affronteranno i carboneros nella finale playoff che deciderà il campione finale e definitivo della stagione uruguagia: in tribuna, a impegni statunitensi sospesi in anticipo, potrebbe esserci Tabárez.
Chissà che non possa prendere appunti per cominciare a disegnare un futuro nuovo per la sua Nazionale, che va rifondata dalle fondamenta. Un futuro pianificato nei minimi dettagli per evitare ulteriori fracasos. Un futuro, per la Celeste, che sia meno blues.