Il premio di Most Valuable Player appena ricevuto da Nikola Jokic si configura per molti aspetti come un evento storico, carico di significati che vanno oltre il consueto rituale che con cadenza annuale impone di individuare il giocatore più valuable della regular season NBA. Tra le righe delle doverose celebrazioni dedicate al centro dei Denver Nuggets, primo MVP nei 54 anni di esistenza della franchigia, è probabile che verranno usate spesso espressioni come "per la prima volta" o "nessuno in precedenza", per il semplice fatto che lo straordinario risultato ottenuto da Jokic presenta elementi tangibili di eccezionalità.
Per cercare di mettere nella giusta prospettiva il percorso che ha portato il ragazzo di Sombor al più alto riconoscimento individuale della NBA è però necessario partire da una breve digressione sul senso e sull’importanza del titolo di MVP.
La fissazione del mondo dello sport americano per i premi individuali è cosa nota: si tratta di una tradizione stratificata nel tempo che da questa parte dell’oceano viene scimmiottata con esiti rivedibili. Senza contare quelli aleatori, e anche un po' stucchevoli, di giocatore del mese o addirittura della settimana assegnati dalle due conference, la sola NBA vanta 13 riconoscimenti individuali annuali (oltre a quelli canonici di fine anno ci sono anche quelli “accessori” per il miglior compagno di squadra e per l’impegno nella comunità) ai quali vanno aggiunti i quintetti All-NBA, All-Defensive e quelli relativi ai rookie. Le implicazioni contrattuali derivanti dal raggiungimento di uno o più di questi traguardi, rafforzate durante gli ultimi rinnovi dell’accordo collettivo che norma i rapporti tra franchigie e giocatori, ne hanno irrobustito solo in parte l’effettivo valore.
Perdersi nel mare magnum dei premi assegnati a fine stagione è facile, mentre risulta difficile ricordare chi ha vinto cosa a distanza relativamente breve dalla cerimonia di consegna. Tuttavia questo discorso non vale per il premio di MVP, che dal suo esordio nel 1955 a oggi non ha mai smarrito il tratto distintivo che lo distingue e lo eleva rispetto al resto. La nomina a Most Valuable Player corrisponde di fatto all’investitura nell’aristocrazia NBA, investitura la cui logica conseguenza è l’inserimento nella Hall of Fame (l’unico MVP tra quelli non più in attività ad attendere ancora la chiamata a Springfield è Dirk Nowitzki, ma è solo questione di tempo). La rilevanza del premio è testimoniata dal peso attribuitagli da chi, a suo insindacabile parere, ritiene di averlo vinto troppo raramente come LeBron James o il compianto Kobe Bryant.
Banalizzando un po', si potrebbe dire che il premio di MVP è il più duraturo tra gli status symbol della NBA, agognato anche da chi, come i due appena citati, può vantare una carriera leggendaria a prescindere dai traguardi individuali. Oppure, semplicemente, il premio di MVP è la più profonda e autentica sublimazione dell’egocentrismo di stelle superpagate e celebrità planetarie. Sollevare il trofeo intitolato a Maurice Podoloff, d’altronde, significa scolpire il proprio nome nel granito duro della storia del gioco.
Niente è come sembra
La storia del gioco, in teoria, dovrebbe circoscrivere la possibilità di diventare il giocatore più importante della lega a un ristretto nucleo di predestinati. In realtà negli ultimi vent’anni gli unici ad aver abbinato l’onore della prima scelta assoluta al Draft a quello del premio di MVP sono stati Allen Iverson, Tim Duncan, LeBron James e Derrick Rose. Nello stesso periodo, pur con le ovvie differenze d’estrazione e curriculum, Steve Nash, Kobe Bryant e Giannis Antetokounmpo hanno dato consistenza a quella che nel mezzo secolo precedente era stata un’eccezione testimoniata dai soli Julius Erving e Karl Malone, ovvero che fosse possibile vincere il premio pur essendo stati scelti fuori dalla top-10.
E qui arriva il primo "nessuno in precedenza", perché Jokic non è solo stato scelto fuori dal top-10, bensì alla posizione numero 41, cioè in quello che è il secondo giro del Draft. L’unico precedente di MVP selezionato così in basso risale a Moses Malone, che nel 1974, appena 19enne, diventava il primo liceale a passare direttamente al professionismo saltando il college, venendo scelto al terzo giro del fantasmagorico Draft ABA dagli Utah Stars (se ve lo state chiedendo né la lega né quella franchigia esistono più da oltre 40 anni).
La portata storica dell’impresa di Jokic è intuibile anche solo guardando a questi semplici numeri, che visti oggi appaiono assurdi. Fare dell’ironia sui 40 giocatori (facciamo 39, perché uno è il suo antagonista per il premio vinto quest’anno) scelti prima dell’attuale MVP, magari recitandone i nomi come Draymond Green o Arya Stark, sarebbe però un atto di disonestà intellettuale applicata al basket. Nel giugno del 2014, infatti, nessuno si era scandalizzato quando quel ragazzone che aveva appena chiuso la sua prima vera stagione da professionista a 11.4 punti, 6.4 rimbalzi e 2.5 assist di media nella Lega Adriatica veniva chiamato tra Glenn Robinson III e Nick Johnson (spoiler: sono entrambi fuori dalla NBA al pari di molte altre promesse non mantenute elargite dal Draft di quell’anno). Anzi, nel momento in cui fu selezionato dai Denver Nuggets la trasmissione del Draft era in pausa pubblicitaria e il suo nome scivolò sotto un burrito.
L’embrione dello Jokic che conosciamo in maglia Mega Leks.
Strani giorni
I Denver Nuggets che spendono una seconda scelta su Jokic sono una squadra in piena ricostruzione. Il dopo-Carmelo Anthony si è arenato tra infortuni e problemi ambientali che hanno portato alla fine del rapporto con coach coach George Karl. Tim Connelly ha da poco preso le redini della dirigenza dopo l’addio di Masai Ujiri e c’è parecchia confusione sulla strada da intraprendere. L’unica certezza è che non si vogliono affrettare i tempi, ragion per cui il centro serbo viene lasciato per un’altra stagione in patria. Nonostante le doti messe in mostra, prima tra tutte l’attitudine a creare gioco per i compagni, Jokic non viene considerato ancora pronto per la NBA.
Non è certo la prima volta che si preferisce far maturare dall’altra parte dell’oceano un talento di area FIBA, ma si tratta comunque di una decisione in controtendenza (i Bucks, l’anno precedente, avevano ritenuto apprendistato sufficiente il biennio di Antetokounmpo nella tutt’altro che irresistibile seconda serie greca). Poco male: Jokic fa in tempo vincere il premio di MVP della Lega Adriatica per poi sbarcare in Colorado nell’estate del 2015. Sulla panchina dei Nuggets è appena arrivato Michael Malone, ma la fase di ricostruzione è ben lungi dall’essere terminata.
Seguono due stagioni tortuose, in cui la dirigenza opera scelte di mercato audaci con l’obiettivo di eliminare alcuni dualismi presenti nel roster, non ultimo quello tra lo stesso Jokic e il bosniaco Jusuf Nurkic. Il serbo sfrutta bene lo spazio a disposizione e, dopo essere entrato nel primo quintetto dei rookie all’esordio, alla vigilia della stagione 2017-18 è un punto fermo per coach e compagni. Per il resto della lega, invece, è un lungo con qualche problema di forma fisica che passa molto bene la palla, niente di meno e niente di più.
Al fianco di Jokic persino Kenneth Faried sembrava un giocatore da NBA.
Alla sua terza stagione in NBA Jokic colleziona la prima doppia-doppia di media (18.5 punti e 10.7 rimbalzi) accompagnata da 6.1 assist che, tra i centri, lo posizionano in testa alla classifica della specialità. A impressionare è soprattutto la qualità dei passaggi, in particolare quando il serbo viene coinvolto nel gioco a due con Jamal Murray, guardia canadese che è approdata in NBA un anno dopo Jokic. I due, dentro e fuori dal campo, raggiungeranno un’intesa che darà frutti poco più in là.
I playoff sfuggono al supplementare dell’ultima partita contro Minnesota, ma si intuisce come a Denver stia prendendo forma qualcosa di davvero speciale. In pochi, però, riescono a prevedere quanto radicale sia la rivoluzione in arrivo. Tra questi c’è Connelly, che nel luglio 2018 concede a Jokic un’estensione contrattuale da 148 milioni di dollari per i successivi 5 anni. Si tratta di una gratificazione economica di norma concessa a quelli che sono, o dovrebbero essere, i giocatori simbolo della franchigia. Qualcuno storce il naso: quel contratto, si dice, è un’apertura di credito eccessiva per un giocatore che non ha ancora messo piede ai playoff e non è mai stato convocato all’All-Star Game.
Sentimento nuevo
I playoff, con dolorosa sconfitta al secondo turno per mano dei Portland Trai Blazers in gara-7, e la convocazione alla partita delle stelle arrivano al giro successivo e mitigano, almeno in parte, lo scetticismo che circonda Jokic. I Nuggets hanno chiuso al secondo posto a Ovest dietro solo agli ultimi Golden State Warriors in versione Hamptons Five, e l’ex Mega Leks, che nel giro di una stagione è passato dal 23.8% al 27.1% di usage rate, è senza dubbio il fulcro attorno a cui ruota una squadra sempre più ambiziosa. Nonostante i numeri dicano l’esatto contrario, ovvero che Jokic è in grado di elevare il livello del suo gioco nella post-season, i dubbi sulla capacità di essere un leader emotivo e tecnico per i compagni nei momenti decisivi rimangono.
Prove generali di grandezza ai playoff 2019.
E forse è proprio qui che emerge per la prima volta il nocciolo della questione che riguarda Jokic o, meglio, la percezione di Jokic come stella della NBA. Il punto è che Nikola è lontanissimo, sul parquet così come nel modo di proporsi, dall’archetipo di superstar a cui siamo stati abituati.
Che Nikola Jokic fosse dotato di personalità, diciamo così, fuori dai canoni è un particolare che può essere sfuggito solo al pubblico meno attento. Tra le interviste rilasciate - non moltissime a dire il vero - affiora il ritratto di un ragazzo che vive il suo status di celebrità senza prendersi troppo sul serio. In questo senso, i due capisaldi necessari per comprendere il mondo di Nikola sono il Q&A del 2017 con Zach Lowe, il suo primo e più accanito sostenitore tra gli addetti ai lavori di spicco, e quella molto più recente con Rachel Nichols.
Da seguire dall’inizio alla fine anche solo per le espressioni facciali di Jokic.
Dalla chiacchierata con Lowe, arrivata quando "The Joker" era un piccolo culto per veri nerd NBA, e da quella con Nichols, raccolta a candidatura a MVP ampiamente lanciata, è possibile farsi un’impressione del personaggio. Si va dalla passione per le corse dei cavalli a quella, rinnegata in nome della forma fisica, per la Coca Cola; dal rapporto con i fratelli, che lo hanno seguito dal primo giorno nella trasferta americana, al racconto della notte del Draft, in cui Nikola era in Serbia e dormiva placido. Il tutto condito con quel senso dell’umorismo tutto slavo che il centro dei Nuggets dispensa anche nei momenti di maggior tensione, rende piuttosto bene l’immagine di un professionista serio ma non serioso, di un ragazzo competitivo e con una passione smodata per la pallacanestro ma con i piedi ben piantati a terra. Definire con la stessa chiarezza il Jokic giocatore, invece, è un’operazione decisamente più complicata.
Shock in my town
È opinione comune che i dieci mesi trascorsi dalla ripresa delle competizioni dopo la pausa forzata imposta dal Covid-19 abbiano rappresentato un’unica lunga stagione. Dieci mesi in cui, a cavallo tra la bolla di Orlando e la regular season 2020-21, LeBron James si era ripreso lo scettro di regnante della lega, Jimmy Butler aveva legittimato la sua candidatura ad antagonista del Prescelto e Nikola Jokic è stato il miglior giocatore di basket sul pianeta Terra. Tra i protagonisti di questo strano anno di NBA, a cui si possono aggiungere Curry, Embiid, Antetokounmpo e Doncic, il serbo è stato sicuramente il più continuo. Se la tenuta atletica, in gran parte risultato del nuovo regime alimentare adottato per aumentare la resistenza agli sforzi ha sorpreso molti, la costanza di rendimento ai massimi livelli è risultata addirittura scioccante. Negli ultimi due anni Jokic non ha mai saltato una partita, scendendo in campo in tutte e 179 le gare disputate dai Nuggets, senza farsi mancare la partecipazione - invero deludente - al mondiale cinese con la nazionale.
E in questi due anni Jokic ha compiuto a grandi falcate il percorso, non certo breve, che porta dall’essere uno dei migliori all’essere il miglior giocatore della NBA. Percorso avviato con l’evoluzione che dall’essere uno dei migliori lunghi a passare la palla l’ha portato a essere uno dei migliori a passare la palla punto e basta, guardie e ali comprese. Gli assist di media (8.3 nell’ultima regular season, 7° in tutta la lega, ma con 10.2 punti generati da screen assist è anche nella top-10 di quest’altra categoria) non bastano a spiegare quanto "The Joker" sia elemento cruciale per gli equilibri offensivi di Denver. Il 60.1% degli assist potenziali smazzati dal serbo portano ad un canestro, una precisione che di certo ha a che fare con le qualità balistiche dei compagni ma che è del tutto fuori portata per i migliori assistman della lega come Westbrook, Harden e Young che viaggiano tra il 53% e il 57%. E Jokic stacca gli assistman di cui sopra di almeno dieci lunghezze anche quanto a passaggi effettuati di media a partita (74.9) e tocchi a partita (101, primo nella lega). Ora come ora dovrebbe essere chiaro a tutti che Nikola Jokic non agisce come playmaker dei Nuggets, Nikola Jokic è il playmaker dei Nuggets.
A fine carriera è probabile che l’highlight con i migliori assist di Jokic durerà almeno un paio d’ore.
La stagione dell’amore
A sancire il passaggio da All-Star a candidato MVP, tuttavia, non è stata tanto l’abilità di Jokic nel servire i compagni, prerogativa a torto o a ragione data ormai quasi per scontata, quanto il balzo in avanti in termini di produzione offensiva individuale. I 26.4 punti di media con cui ha chiuso la regular season sono per distacco il miglior dato in carriera (19.9 la stagione precedente, 20.1 nel 2018-19) e lo piazzano al 12° posto nella classifica marcatori, unico centro insieme ad Embiid ad entrare in top-20.
L’assenza di Jamal Murray e dei suoi 21.2 punti di media a partita nell’ultima parte di stagione ha senza dubbio contribuito ad aumentare i volumi di tiro, anche se in realtà il dato relativo ai punti messi a tabellino è rimasto costante da dicembre a maggio. I 18 tiri presi di media a partita, anche in questo caso career-high con ampio margine di scarto sul pregresso, sono stati accompagnati da un netto miglioramento dell’efficienza con una percentuale effettiva che dal 56.5% della stagione precedente è passato al 60.2%. Un miglioramento che è risultato della paziente opera di pulizia del gioco offensivo operata da Jokic, che ormai seleziona con estrema cura le opzioni di tiro a lui più congeniali (il 69% delle sue conclusioni arriva da tiro in sospensione e layup).
Non solo: senza grandi clamori il serbo è diventato uno dei giocatori più affidabili ed efficaci nei finali punto a punto. In situazioni clutch il suo Usage passa da 29.3% a 37.7%, un dato maggiore rispetto a colleghi ben più celebrati come Harden, Lillard e Doncic. E in quelle situazioni Jokic ha un differenziale su 100 possessi migliore (+8.8) rispetto a quello, già notevole, registrato di media durante la stagione (+7.7). Insomma, pur senza avere il phisique du rôle del closer classico, il centro dei Nuggets è uno di quei giocatori a cui affidare la palla quando il risultato è in bilico e occorre inventarsi un modo per mettere punti a tabellone. Un modo di mettere punti a tabellone che Jokic si è inventato perfezionando il suo signature shot: la "Sombor Shuffle" (definizione inventata da Chris Marlowe, telecronista di casa Nuggets), dal nome del suo paese natale in Serbia.
La Sombor Shuffle si rivela efficace pure quando Jokic è raddoppiato.
Dal punto di vista estetico la “Sombor Shuffle” non può certo reggere il paragone con il gancio cielo di Jabbar o lo step-back di Doncic, ma quanto ad efficacia non ha niente da invidiare ai tiri che hanno segnato epoche più o meno recenti della NBA. In parte nata dall’esigenza di contenere il dolore per un infortunio alla caviglia sinistra, in parte ispirata al movimento quasi identico di un altro grande clutch scorer europeo come Dirk Nowitzki, la Sombor Shuffle si avvantaggia inoltre della maestria di Jokic nel leggere le difese avversarie e, nel caso di raddoppi, trovare il compagno libero come alternativa alla soluzione personale.
Maestria nella lettura del gioco che il neo-MVP applica anche all’altra fase, quella che di solito viene accusato di ignorare o come minimo trascurare. Le 1.3 palle rubate di media a partita, dato migliore di colleghi come Bam Adebayo e Anthony Davis, giustamente considerati tra i migliori difensori della lega, testimoniano di come Jokic abbia nel corso degli anni trovato il modo di rendersi utile anche nella propria metà campo. Poco dotato a livello di mobilità laterale e verticalità, il centro dei Nuggets riesce comunque a essere un difensore almeno nella media e partecipa attivamente ai meccanismi di squadra. Come per molto altro che lo riguarda, in definitiva, l’idea che parte dell’opinione pubblica ha di Jokic è frutto di preconcetti che, oggi come oggi, è più che mai il caso di abbandonare.
No time, no space
Lasciando perdere le immancabili polemiche che da queste parti definiremmo ‘da bar’, i preconcetti o quantomeno la diffidenza con cui è stato accolto il premio di MVP alla stella dei Nuggets sono comprensibili. Sì, perché Jokic è un giocatore davvero difficile da decifrare: il suo stile gioco è ultra-moderno tanto da rendere obsoleta la divisione rigida per ruoli, eppure il suo repertorio è per molti versi vintage e assomiglia a una versione rivisitata e corretta di quello sfoggiato, al netto delle tante magagne fisiche, da Bill Walton e Arvydas Sabonis tra gli anni ’70 e i ’90. E il paradosso che accompagna l’incredibile e imprevedibile ascesa del serbo sta anche nel fatto che sia proprio lui il primo centro a vincere l’MVP dal 2000, quando a trionfare fu uno Shaquille O’Neal al culmine della carriera, pur essendo distante anni luce dalla concezione di centro classico.
Più che a Shaq o ad altri grandi centri del passato, da Russell a Olajuwon passando per Jabbar, il premio assegnato a Jokic ricorda i due guadagnati a metà anni zero da Nash, bravo a sfruttare un momento di vuoto di una NBA in fase di ricambio generazionale e premiato per l’influsso sul rendimento complessivo di squadra, o quello vinto da Nowitzki nel 2007. I paragoni con il tedesco, spesso alimentati dalla comune passione per quel fadeaway cadendo indietro su una gamba sola e per un esercizio della leadership del tutto priva di derive egocentriche, sono forse quelli più azzeccati, anche se rispetto a WunderDirk il tragitto di “The Joker” verso la vetta della NBA è stato decisamente più breve e meno accidentato.
Nella storia recente, infatti, solo Iverson, Rose e Curry sono stati in grado di inanellare la prima convocazione all’All-Star Game, tappa d’avvicinamento obbligatoria, e il premio di MVP nel giro di una singola stagione, mentre Jokic, così come il suo predecessore Antetokounmpo, ne ha impiegate due. È più o meno il lasso di tempo resosi necessario affinché l’anomalia rappresentata dallo stile di gioco e dalla personalità del serbo fosse compresa o almeno accettata. Il passo successivo è stato riconoscerne la validità e la grandezza a prescindere dalla rispondenza a modelli già sperimentati, questo sì esercizio di onestà intellettuale applicata alla pallacanestro.
In questo senso, l’affermazione di Jokic è da leggere anche come prova della crescente sofisticatezza e apertura mentale con cui buona parte di tifosi e addetti ai lavori guardano alla NBA, con buona pace di chi su entrambe le sponde dell’Atlantico persevera nel dipingerla in modo caricaturale e attraverso luoghi comuni e vecchi schemi, tattici e non, che per nostra fortuna nel 2021 non hanno più alcuna applicazione nella realtà. In questo senso Jokic non è solo un MVP più che degno, è soprattutto l’MVP di cui abbiamo bisogno.