Esclusive per gli abbonati
Newsletters
About
UU è una rivista di sport fondata a luglio del 2013, da ottobre 2022 è indipendente e si sostiene grazie agli abbonamenti dei suoi lettori
Segui UltimoUomo
Cookie policy
Preferenze
→ UU Srls - Via Parigi 11 00185 Roma - P. IVA 14451341003 - ISSN 2974-5217.
Menu
Articolo
Chi è felice dopo City-Atletico?
06 apr 2022
Uno scontro tra due modi molti differenti di intendere il calcio.
(articolo)
12 min
(copertina)
Vincent Mignott/vi/DeFodi Images via Getty Images
(copertina) Vincent Mignott/vi/DeFodi Images via Getty Images
Dark mode
(ON)

I quarti di finale di Champions League sono il momento dell’anno in cui desideriamo che il calcio si allinei alla nostra idea di esso. Che i fenomeni facciano i fenomeni, che le partite si accendano, che, insomma, ci sia lo spettacolo vero, quello che fa sembrare alcuni scontri più simili a film d’azione che allo sport. Anche a causa di accoppiamenti non fortunatissimi, Manchester City-Atletico Madrid si era ammantata un po’ di questa patina, dopotutto era l’incontro tra i due allenatori più pagati al mondo, due tecnici con un’idea di calcio così diversa che metterla in scena sullo stesso campo poteva essere come mettere una mentos in una bottiglia di Coca Cola, magari non quello che desiderate per la vostra cucina, ma di certo qualcosa di bello da vedere.

Come buon augurio si era citato il precedente delle semifinali del 2016, quando ancora Guardiola sedeva sulla panchina del Bayern Monaco, un doppio confronto che era stato il picco del Cholismo, due partite in cui l’Atletico Madrid aveva passato tutto il tempo a difendersi ma aveva reso la difesa un qualcosa di sensuale e divertente, non solamente un atto noioso e conservativo. Potevamo assistere di nuovo a una sfida del genere? Il momento storico dell’Atletico Madrid sembrava dire di no. La squadra di Simeone è solo l’undicesima difesa della Liga e anche a livello di narrazione i protagonisti di oggi non sembrano avere la mistica di quelli di allora, soldati dalle facce antiche come Godin, Juanfran e Gabi.

Eppure in una maniera diversa, meno spettacolare sicuramente ma non per questo non interessante, abbiamo avuto quello che volevamo. L’Atletico Madrid in qualche modo ce l’ha fatta a giocare la sua partita, a rendere il calcio un esercizio di attesa infinito in cui bisogna sperare soprattutto che il tempo passi il più rapidamente possibile e che in 90’ minuti non succeda nulla. La squadra di Simeone ha rispettato al massimo l’obiettivo che si era posta, come banalmente ci dicono le sue statistiche offensive che, appunto, sono nulla, nel senso più matematico e meno filosofico del termine. Zero occasioni, zero tiri, zero anche nei calci d’angolo che pure possono arrivare semplicemente per caso, non volendoli. Dall’altra parte il City ha mantenuto i nervi saldi, in campo più che nell’atteggiamento di Guardiola che con il linguaggio del corpo in panchina ha mostrato di essere meno tranquillo dei suoi giocatori, e alla fine ha vinto con merito.

Tutte e due le squadre escono dall'andata in qualche modo contente: il City per aver raccolto almeno un gol di vantaggio che gli consente due risultati su tre al ritorno, l’Atletico perché è riuscito a tenere aperta la qualificazione per il ritorno che giocherà in casa contro un avversario più forte, che ha fatto la partita per ogni singolo minuto di essa.

Come è si è arrivati al 5-5-0

Il City è sceso in campo con un 4-3-3 buono soprattutto per le riprese dall’alto prima del calcio di inizio e poi scompigliato da una realtà che vede la squadra di Guardiola essere molto fluida nella sua interpretazione in fase di possesso (quindi per il 71% della partita). A sinistra Aké, schierato al posto di Cancelo dirottato sull’altra fascia per sostituire Walker, stringeva vicino ai centrali, a destra il portoghese saliva per fare il suo, ormai apprezzato anche dalla critica, lavoro ibrido tra terzino, mezzala e ala. Davanti Bernardo Silva ha vinto la concorrenza di Foden per il ruolo di falso nove. Simeone, invece, ha optato per un 5-3-2 formale, che nelle fasi iniziali rimaneva tale anche senza palla (cioè praticamente sempre). Felix e Griezmann rimanevano piuttosto vicini al centro, con l’idea di schermare la costruzione centrale del City e farla fluire sulle fasce, ma avendo anche una funzione positiva, ovvero quella di essere pronti a ricevere rapidamente dai compagni una volta recuperato il possesso.

Qui dopo pochi minuti su una palla gestita da dietro dal City i due attaccanti dell’Atletico rimangono piuttosto alti. I compagni sono 30 metri dietro.

Questa strategia aveva un limite: quando il City costruiva sugli esterni, soprattutto a destra con Cancelo sempre pronto a creare superiorità o con la sua presenza o con i suoi dribbling (4 alla fine, ma anche Sterling a sinistra, 5 dribbling), le due mezzali Kondogbia e Llorente erano costrette a un lavoro di pendolo dal centro all’esterno che, alla lunga, non sembrava nella potenzialità di esseri umani dotati di due gambe e due polmoni. Il 3-1-6 con cui attaccava il City creava più di un problema alla struttura difensiva dell’Atletico e, senza creare occasioni particolarmente pericolose, nei primi dieci minuti i difensori dell’Atletico avevano già respinto due tiri da buona posizione usando il loro corpo, una dinamica non così atipica delle partite della squadra di Simeone.

Kondogbia non sa se deve prendere la salita di Stones oppure coprire su Cancelo. Il portoghese è libero di ricevere e alzare la testa e Lodi è costretto a arretrare. Scaricando su Mahrez potevano creare un pericoloso 2 contro 1 in fascia.

La partita quindi si è sviluppata come si poteva immaginare: l’Atletico a difendere la propria porta e il City ad attaccare. I giocatori di Guardiola hanno accettato il loro ruolo con pazienza, senza mai forzare la mano, che poi è sempre la speranza delle squadre che si difendono, ma anche peccando un po’ di imprecisione, anche naturale conseguenza di spazi sempre più stretti. L’Atletico però non sembrava impermeabile: se Gundogan fosse stato un po’ più deciso, de Bruyne avesse tirato più angolato, Mahrez si fosse mostrato più presente, la partita avrebbe potuto rapidamente scivolare verso il City già nei primi venti minuti.

A quel punto Simeone ha pensato di passare da un 5-3-2 in fase difensiva a un più lineare 5-5-0, allargando Joao Felix e Griezmann sugli esterni. Eravamo appena al 20’ del primo tempo. Napoleone diceva che non aveva senso scendere in battaglia con dei piani troppo precisi, perché si iniziava e si vedeva poi quello che succedeva. Simeone ci aveva pensato prima? Oppure è stata un’intuizione? Per quanto criticabile da un punto di vista teorico, la sua squadra non stava tenendo un pallone in attacco e avere i fianchi scoperti per avere un riferimento al centro e poi lasciare che Oblak (36 passaggi fatti, il terzo maggior numero di squadra) sparasse palloni lontano (44% di precisione alla fine) non era certo un modo intelligente di attaccare. Con due linee da 5, l’Atletico poteva essere più aggressivo sui portatori di palla, con i giocatori sicuri di avere un raddoppio in ogni circostanza e comunque continuare a non attaccare. Avere poi dieci uomini pronti a occupare spazio in area di rigore rendeva anche più difficile la tattica classica del City, ovvero di creare occasioni pericolose arrivando dal lato corto dell’area di rigore e poi crossando basso verso il centro.

20’39, la prima situazione in cui l’Atletico è schierato chiaramente con il 5-5-0.

In una situazione del genere Reinildo, Savic e Felipe, pur senza avere il fascino dei loro predecessori, hanno finito per esaltarsi. Il City poteva vedere la porta, ma questa era come l’orizzonte di Galeano. Tutta la seconda parte del primo tempo è filata veloce come un brutto esercizio di attacco contro difesa, ma valida per l’accesso alle semifinali di Champions («Sembrava una partita di allenamento in un campo ridotto» dirà poi de Bruyne). Tra il ventesimo e il fischio dell’arbitro, il City ha costruito solo un tiro in porta da lontano con Stones, finito in piccionaia, e anzi la posizione esterna di Joao Felix ha rischiato di creare anche un paio di ripartenze pericolose per l’Atletico, che non si sono concretizzate perché comunque attaccare 70 metri di campo in due è difficile anche se hai il talento del portoghese.

Qualcosa è cambiato

Nel secondo tempo l’Atletico ha cambiato conformazione difensiva un’altra volta: Griezmann è tornato in avanti, così da disegnare un 5-4-1. Forse Simeone pensava di aver bisogno di un riferimento in avanti per contenere le avanzate dei difensori del City o forse ha finito per pensare che zero attaccanti era troppo anche per lui. Nel giro di pochi minuti l’Atletico ha finito per creare i due presupposti - non si può parlare di tiri o occasioni - più pericolosi della sua partita. Nel primo Griezmann è scappato quasi da solo verso la porta, non trovando le forze per fare qualcosa di eccezionale, nel secondo invece il francese ha sbagliato scelta in maniera piuttosto grave per un calciatore come lui, non servendo la corsa di Joao Felix che si sarebbe trovato solo davanti a Ederson.

Questo, al 50’, è stato il momento in cui la partita è cambiata, ma non come voleva l'Atletico. Dopo questo spavento le maglie celesti del City hanno iniziato a costruire una tela intorno ai dieci giocatori avversari in maniera più armonica. A suo modo è stato uno spettacolo: la pazienza di chi vuole costruire, la perversione di chi vuole distruggere. Guardiola ha mosso un po’ le pedine: prima ha spostato Sterling al centro, per avere più elettricità nei tagli dietro alla difesa, allargare un po’ le maglie, poi ha pensato bene di guardare alla sua panchina. In un colpo ha inserito Gabriel Jesus, Grealish e Foden per Sterling, Gundogan e Mahrez. Nel calcio dei cinque cambi non è male poter fare una cosa del genere. Pochi minuti prima Simeone aveva fatto anche lui tre cambi, ma de Paul, Correa e Cunha non avevano cambiato molto la sua squadra (6 e 5 passaggi in mezz’ora per gli ultimi due).

Prima della partita Guardiola aveva scherzato, forse, non è mai chiaro con lui, sull’accusa di overthinking nelle partite importanti: «Mi piace pensare troppo e creare tattiche stupide» aveva detto. Far entrare Foden a 22 minuti dalla fine è stato un errore o una mossa perfetta? L’inglese è sembrato avere un passo diverso rispetto ai suoi compagni, che pure stazionando in maniera stoica nella trequarti del City (alla fine il conto sarà 283 tocchi nell’ultimo terzo di campo per gli inglesi, 36 per gli spagnoli) erano irretiti dalla difesa dell’Atletico, finendo per giocare tutti partite sufficienti ma non brillanti. Foden invece è stato brillante nel senso più utile del termine: in una partita in cui stava succedendo poco, ha fatto succedere qualcosa al primo pallone toccato. Con lui è sembrato molto facile fare gol: ha ricevuto da Rodri nel mezzo spazio di destra, girandosi verso la porta già con il controllo, perfetto, con cui ha costretto gli avversari a uscire su di lui. In un attimo in quattro lo hanno circondato mentre avanzava di qualche metro, con quella sua corsa sincopata e rapidissima, ma è stato un errore: il talento di Foden negli spazi stretti è ogni giorno più decisivo e con un tocco tra le gambe di Reinildo ha disegnato un filtrante perfetto per il taglio di de Bruyne. Paradossalmente dopo aver sbattuto sulla difesa della porta dell’Atletico per 70’, con una sola giocata di Foden, il belga ha potuto scegliere se tirare direttamente oppure servire Gabriel Jesus al centro, che avrebbe potuto segnare un gol ancora più semplice. De Bruyne ha tirato e ha segnato.

A voler sottostimare il gesto di Foden si potrebbe dire che, la scelta di Simeone di avere una linea da 4 a centrocampo e non più da 5 abbia punito l’Atletico, che magari avrebbe potuto mandare Cunha su Rodri e non Kondogbia, che invece sarebbe potuto a chiudere ulteriormente lo spazio in cui poi l’inglese ha creato i presupposti del gol. Ma sarebbe un pensiero cervellotico, anche perché poi Foden ha mostrato in almeno un’altra occasione che i giocatori più ispirati possono rompere da soli anche i piani di distruzione più perfetti. Con un paio di passi di danza, sulla fascia destra, ha fatto fuori di nuovo Kondogbia e Reinaldo, questa volta col pallone, arrivando fino all’area piccola dove il suo cross, dopo un rimpallo, è finito tra i piedi di Bernardo Silva, che ha scaricato dietro per de Bruyne, per una di quelle conclusioni che per il belga sono meglio dei rigori. Il belga ha colpito troppo col malleolo rispetto alle sue solite frustate a giro, ma è la risposta dell’Atletico a essere la parte interessante.

Tra de Bruyne e la porta c’erano ben sette calciatori dell’Atletico, di cui solo uno era il portiere. Questo carattere tragico della difesa della squadra di Simeone può piacere o non piacere, ma è certo a suo modo unico, inscalfibile negli anni. Anche in una stagione grigia, nel momento più importante, Simeone è riuscito a trasmettere questo spirito ai suoi giocatori. Negli ultimi dieci minuti di partita, quando concedere il secondo gol sarebbe stato drammatico per il ritorno, abbiamo visto la versione più sadica del Cholismo. Ogni rimessa richiedeva qualche secondo in più, a ogni fallo c’erano più proteste, Grealish è stato preso di mira, un po’ per sfogare la pressione, un po’, forse, come più probabile avversario a cui far saltare la mosca al naso, cercando piccole risse per far perdere ulteriore tempo o magari proprio delle sanzioni disciplinari. Gabriel Jesus, per esempio, si è fatto ammonire per una protesta su una banale rimessa laterale e salterà il ritorno. In un frangente in cui gli spagnoli erano particolarmente stanchi, il City è riuscito solo a tirare da lontano sempre con de Bruyne e a vedersi respinti altri cross. In qualche modo l’Atletico ha convinto il City che l’1-0 finale era un buon risultato per loro.

Dopo la partita Guardiola ha detto che «Loro si sono schierati con un 5-5-0 e così attaccare diventa difficile. Lo è stato nella preistoria, lo è oggi e lo sarà tra centomila anni» quasi dovesse giustificare la vittoria risicata. Al contrario Simeone, lo sconfitto, è apparso più contento. Ha esaltato il gioco del City, finendo però per rigirarlo in complimenti alla sua squadra, capace di perdere con uno scarto minimo contro la squadra più forte del mondo: «Se si elogia un sistema offensivo corale, allora va elogiato anche un sistema difensivo forte e sfacciato» è stato il suo spin. L’allenatore dell’Atletico ha forse ottenuto ciò che voleva, una sconfitta di misura fuori casa che rende incerto il ritorno, ma lo ha fatto in una maniera che lascia più di un dubbio sulle reali possibilità di cambiare l’inerzia quando la contesa si sposterà al Wanda Metropolitano. Come faranno a tirare in porta al ritorno e allo stesso tempo impedire al City di essere pericoloso?

Ieri l’Atletico è sembrata una coperta di quelle belle pesanti, ma troppo corta. Certo al ritorno potranno avere un’altra delle loro notti, con in più il proprio pubblico. Anche solo le parole del capitano Koke in risposta a Guardiola - «Innamorato della tua storia fin dalla preistoria, orgoglioso di essere dell’Atletico» - lasciano intendere che venderanno cara la pelle, ma il City, pur non giocando il suo miglior calcio, anzi dovendo ricorrere alla verve di un giocatore della panchina per vincere, ha mostrato una facilità imbarazzante nel dominare il gioco e, fino a quando Simeone non ci proverà il contrario, chi domina nel calcio vince. Noi possiamo essere grati per avere davanti una seconda partita con questi presupposti: forse non sarà l'idea di quarto di finale più spettacolare possibile, ma nel calcio la bellezza sta anche nella sua varietà e non c'è niente di più vario di come Guardiola e Simeone intendono questo gioco.

Attiva modalità lettura
Attiva modalità lettura