
Insomma, è stata (è) la Champions League dei giovani o dei vecchi?
Di Lamine Yamal - 17 anni, 14 dribbling, un palo, un miracolo di Sommer, un pallone messo sulla testa di Lewandoski dentro l’area piccola e quell’ultima occasione sul 3-3 fallita di punta, come se proprio in quel momento avesse dovuto scontare tutta insieme la sua gioventù e l’inesperienza; o di Francesco Acerbi - 37 anni, la carriera iniziata in Serie C, con alle spalle problemi di alcool, un tumore, capace di trovare una dose supplementare di energia per segnare quel gol nei minuti di recupero, forse proprio grazie all’esperienza che gli ha insegnato come restare dentro le partite fino all’ultimo?
È la Champions League che mostra il calcio “del futuro” - questa nostra ossessione di anticipare i tempi che verranno, e che ci porta a spostare in avanti quello che, in realtà, è il nostro presente; o della “tradizione italiana” - questa nostra ossessione di immaginare un passato coerente che possa consolarci e guidarci?
Si mischiano moltissime cose in questo genere di analisi al tempo stesso superficiali e con l’ambizione di essere onnicomprensive, che mirano a conclusioni chiare e semplici, valide sempre e per tutti. Però possiamo partire da alcuni dati interessanti, per cui ho chiesto una mano a Federico Martucci. Ad esempio: queste semifinali sono, con poco più di 26 anni di media, le più giovani degli ultimi dieci anni di Champions League. Nelle ultime 20 stagioni solo altre due edizioni (2008/09 e 2012/13) hanno visto in semifinale quattro squadre - si parla degli 11 giocatori titolari - con età media inferiore.
Oppure: PSG e Arsenal avevano entrambe un’età media intorno ai 25 anni - il PSG nella partita di ritorno era ancora più giovane che all’andata perché al posto di Dembélé, 27 anni, giocava Barcola, 22; il Barcellona intorno ai 26. Nella difesa dell’Arsenal - in teoria il reparto che richiede più esperienza, più età - il più vecchio era Kiwior, passato dallo Spezia all’Arsenal appena due stagioni e mezzo fa, che di anni ne ha 25. Il PSG ha messo in campo, tra titolari e subentrati, sei giocatori con 23 anni o meno, all’andata; cinque, al ritorno.
Invece: l’Inter al ritorno con il Barcellona non aveva neanche un 23enne, l’età media era di poco sopra i 30 (il che influenza anche la media generale) e il più giovane in campo è stato Bisseck, 24 anni, e poi il subentrato Frattesi, 25 - autore del gol decisivo a Monaco contro il Bayern e nei supplementari a Milano con il Barça, appunto. Anzi, l’undici titolare dell’Inter è il più anziano ad aver giocato una semifinale di Champions League dopo quello della Juventus nel 2017. E a quanto pare solo 9 squadre con un’età media di 30 anni o più hanno giocato una semifinale di Champions League, e sono tutte italiane.
Per quanto in fin dei conti si tratti di sfumature con variazioni in alcuni casi minime, un paio di anni di scarto appena - Bastoni, Lautaro, Thuram, Dimarco, Barella, Dumfries, hanno tutti meno di 30 anni - e la data di nascita non sia garanzia di niente di certo in un senso o nell’altro (ci sono giovani a cui in qualche modo è bastata l’esperienza delle giovanili e i primi anni o mesi con la prima squadra per mostrare sufficiente maturità; così come ci sono giocatori esperti capaci di ingenuità, o che arrivano ad alti livelli non più giovanissimi, come Kiwior, o che iniziano a giocare stabilmente in Champions dopo i trent'anni come Acerbi) sembrerebbe che effettivamente ci sia una contrapposizione tra un calcio che si propone come sempre più giovane - che cerca, sostiene e spreme giovani appena usciti dall’adolescenza, come quello dell’élite europea - e un calcio che, al contrario, è fiero di sentirsi fuori moda, che pensa di essere più vicino a una qualche verità originale e immutabile, come quello italiano.
Nel discorso comune si sono create alcune dicotomie che oppongono gioventù ed esperienza, e contribuiscono a una visione critica nei confronti persino di giocatori dal talento tanto inequivocabile quanto fuori scala come Lamine Yamal, Pedri o Désiré Doué. Tanto per cominciare, c’è l’idea che quella verità originale - che noi, in Italia, non abbiamo dimenticato - sia andata smarrita per ragioni soprattutto commerciali. Per un vezzo estetico, per una decisione presa a tavolino di cambiare il calcio e renderlo più “moderno”.
Un dato a sostegno di questa tesi: la squadra più giovane di sempre in una semifinale di Champions League è stata quella di Lipsia di proprietà della Red Bull - letteralmente un incrocio tra calcio e marketing, al tempo stesso un progetto sportivo e una gigantesca impresa di lobbying - nella stagione del Covid 2019/20.
Far giocare i giovani, quindi, per un’esigenza puramente estetica, d’immagine, superficiale. Per creare false speranze o, come si dice oggi, hype. Un’idea che va a braccetto con un altro fondamento del calcio italiano: prima la difesa; o meglio: prima non correre rischi. Il calcio italiano - e non c’è stagione migliore di questa per vederlo chiaramente, con il Napoli di Antonio Conte che mostra la propria supremazia con pudore, vincendo le partite senza mai strafare, sempre con lo sforzo minimo e sufficiente - che pensa di poter controllare e razionalizzare le variabili che determinano l’andamento di una partita, navigandone i momenti come vecchi lupi di mare, evitando pirati e tempeste. Partendo, però, da un presupposto puramente negativo: cosa non bisogna fare, quali rischi non bisogna correre, e che vede nei giocatori giovani un fattore maggiore di rischio, sia come investimento di lungo termine che sul piano delle prestazioni in campo.
Non è solo perché i club di Serie A non possono permettersi economicamente giovani del talento come Désiré Doué (pagato 50 milioni la scorsa estate) che si è creata questa narrazione, ma anche - quantomeno anche - perché alla base c’è una sfiducia di fondo nei confronti dei giocatori giovani proprio perché l’idea di gioventù è intrinsecamente collegata a quella di rischio - tant’è che non giocano, o giocano poco, anche i giovani che i club italiani avrebbero a disposizione; con le dovute eccezioni: Yildiz, Diao, Comuzzo, Castro, per fare degli esempi.
Lo ha detto pochi giorni fa persino il CT della Nazionale femminile italiana di pallavolo, Julio Velasco, che pure in Italia viene ascoltato come un guru: «Credo che Lamine Yamal in Italia non giocherebbe, qui c'è sfiducia e sospetto nei giovani».
Proviamo allora, anziché chiederci perché in Italia non si creda nei giovani, o ci si creda con difficoltà, perché - al netto del costo e della rarità di talenti così giovani che siano al livello del resto dei loro organici - le squadre dell’élite europea hanno nei loro undici titolari almeno uno o due giocatori alle prime armi, alle loro prime stagioni, come se ci fosse qualcosa nella loro inesperienza che anziché essere problematica sia, piuttosto, un valore aggiunto, qualcosa in più. Cosa vedono, fuori dall’Italia, nella gioventù?
Dato che parliamo spesso di talenti offensivi molto giovani (non sempre, vedi i casi di Mainoo o Lewis-Skelly), quel qualcosa in più potrebbe essere proprio la tendenza a correre rischi, la leggerezza con cui giocano. Ovvero: dentro e fuori dall’Italia vediamo la stessa cosa nei giovani, solo che gli diamo un valore diverso. Per noi è una cosa negativa, per loro preziosa.
Come se correre rischi non sia solo una questione di istintività, di stile individuale, ma anche un calcolo strategico. Cercare opzioni imprevedibili, che non si possono programmare, allenare, ma solo improvvisare. Come se in quell’inesperienza e incoscienza dei giocatori che si affacciano sul palcoscenico della Champions League pesino meno i giudizi esterni, o comunque non abbiano ancora potuto creare danni psicologici, spingendoli a scegliere soluzioni più sicure. Ed è vero che Lamine Yamal sembra giocare con un coraggio che altri non hanno, gettandosi nel fuoco delle difese senza riflettere sulle possibili conseguenze di una palla persa o un cross sbagliato.
È un'inversione di tendenza anche rispetto alla storia più recente della Champions League, che un paio d'anni fa era stata dominata dalla versione più rigida del calcio di Guardiola, intento con il suo Manchester City a spegnere ogni rischio, a soffocare ogni imprevedibilità (anche a costo di spegnere Grealish e ridurre Haaland a toccare meno palloni possibile).
Due anni dopo l'Arsenal del suo emule, Mikel Arteta, è parso troppo imballato, troppo prevedibile rispetto al PSG giovane ed elettrico di Luis Enrique; persino Saka (che rientrava da un infortunio) e Martinelli sono sembrati già leggermente "passati", appunto vecchi, pur avendo 23 anni ciascuno.
All’inizio di questa stagione, in un altro articolo, ho chiamato “calcio dei rimpalli” quello giocato da queste nuove generazioni di campioni. Nella newsletter Stili Di Gioco di sabato scorso ho ripreso in mano il concetto, parlando della semifinale di andata giocata da Doué contro l’Arsenal, a Londra: "Doué è un degno rappresentante di quello che tempo fa ho definito calcio dei rimpalli, un’idea di calcio in cui la capacità tecnica e mentale di reagire agli imprevisti e di improvvisare strada facendo è superiore a quasi tutto il resto. Un calcio che ama il rischio, che lo cerca anzi, che non esiste senza il brivido di poter perdere palla in ogni momento, di potersi trasformare in un caos senza forma, in una specie di autoscontro con la palla. Ed è un calcio che porta con sé anche un’altra idea: che quello che conta è solo il momento.
(...) Se volete possiamo chiamarlo “calcio del momento” anziché calcio dei rimpalli, e anche questo è in linea con tutte le riforme più o meno recenti. Dalla legge Bosman che ha facilitato i trasferimenti, ai parametri zero, alle modifiche al regolamento che hanno aumentato la velocità del gioco, fino ad arrivare all’abolizione del valore doppio del gol fuori casa nelle coppe; ma in linea anche con l’importanza di bilanci e plusvalenze: tutto ha complottato per un calcio in cui la dimensione di lungo periodo a cui erano abituati i tifosi - la maglia, sempre quella, il proprio stadio come fortino inviolabile, i giocatori bandiera di cui essere fieri - finisse sotto una slavina di momenti sempre più eccezionali, concentrati di calcio istantanei".
Giusto o sbagliato che sia, è un calcio adatto ai giovani, in cui l’errore può essere tollerato - può essere persino efficiente, pragmatico - se sostenuto da un alto volume di gioco. E per giocare un calcio di questo tipo ci vuole una grande forza psicologica. Quando un calciatore normale dice che pensa solo «a divertirsi» sembra stia facendo un esercizio retorico, ma quando è Lamine Yamal, dopo la sua prima grande semifinale europea (quella di andata), a dirlo in diretta tv a una leggenda come Thierry Henry che gli sta chiedendo perché per lui «è tutto così facile», allora forse dovremmo starlo a sentire.
«Provo a divertirmi, questo è il segreto», ha detto a Golazo, poco più di una settimana fa, Lamine Yamal. E in passato in un’intervista a COPE, aveva raccontato di come fosse importante proprio dal punto di vista psicologico puntare costantemente i terzini. «Se me ne vado una volta, quello poi è spaventato. E io improvviso di volta in volta cosa fare». E più avanti diceva di essere lui a chiedere al suo allenatore di lasciargli giocare ogni volta l’uno contro uno.
In fin dei conti, persino l’Inter è stata costretta a giocare una partita fuori controllo. Si è parlato a lungo della difesa alta di Flick e di come il Barcellona “non sapesse difendere”, ma anche la la linea a cinque attenta e prudente di Inzaghi si è fatta rimontare tre gol all’andata e due al ritorno, e l’Inter è dovuta andare a cercare il gol del pareggio con un difensore improvvisato attaccante.
Il gol della vittoria, poi, lo ha segnato il giocatore in rosa più vicino al tipo di calcio qui descritto, quello che più improvvisa e più rischia, Davide Frattesi. Quello con un’energia al tempo stesso straripante - che si sente male dopo il gol perché dice di aver strillato troppo - e leggera, che, sempre ad Henry nella trasmissione Golazo, dice di aver pensato, prima di calciare in porta il gol del 4-3: «Se non segno sono fottuto».
Uscendo quindi dalla contrapposizione anagrafica giovani-vecchi, possiamo dire che il calcio verso cui stiamo andando è necessariamente un calcio rischioso, non rigido, insicuro per propria scelta. In cui l’imprevedibilità è una qualità da ricercare, anche a discapito di un po’ di controllo, e da proteggere, tenendo a distanza le critiche sempre troppo severe. Non sono i giovani a dover maturare in fretta, semmai sono i 37enni a dover cercare dentro di sé lo stesso spirito con cui giocano i 17enni.