«Football, bloody hell!», esclamava Alex Ferguson al termine di una delle serate più incredibili della sua vita. Teddy Sheringham e Ole Gunnar Solskjaer gli avevano appena consegnato una Champions League che sembrava aver preso la via di Monaco di Baviera grazie a un’astuta punizione di Mario Basler: due zampate in pieno recupero per ribaltare il corso della storia. Rivederlo nella pancia del Parco dei Principi a una manciata di minuti da un’altra impresa dello United, poco meno di vent’anni dopo, con il pugno serrato in segno di trionfo e il sorriso fiero, stretto tra Solskjaer e un’altra leggenda come Eric Cantona, ha scaldato il cuore di tutti.
La Champions League è ormai stabilmente il teatro delle rimonte più impensabili. Partite stravolte anche solo tra un tempo e l’altro, rapporti di forza spazzati via da furie improvvise e inattese, qualificazioni acciuffate all’ultimo respiro o, per usare un termine tanto caro ai tifosi dei RedDevils, in pieno Fergie Time. Il Manchester United è il primo club a ribaltare un doppio svantaggio casalingo in un match a eliminazione diretta, segno che l’asticella viene posta sempre più in alto: ventiquattro ore prima era stato l’Ajax delle meraviglie a schiaffeggiare i tre volte campioni in carica del Real Madrid. Un’escalation continua, con dei picchi rimasti nella storia. Abbiamo raccolto cinque rimonte avvolte da un velo di magia, fissando però alcuni paletti: soltanto sfide giocate in “era Champions League”, quindi dal 1992 a oggi, e solamente match sui 180’. Restano quindi fuori alcuni ribaltoni maturati nell’arco dei 90’ – come la già citata finale del 1999 – e qualche impresa legata alla fase a gironi: se volete rinfrescare la memoria a riguardo, ne ha già scrittoGiuseppe Pastore.
Un elenco di questo tipo costringe obbligatoriamente a fare una selezione: non troverete quindi quel Barcellona-Milan che, nella mente dei tifosi rossoneri, rimane la partita del“palo di Niang”. Esclusa anche la meno epica doppia sfida di semifinale 1996 tra Panathinaikos e Ajax, con i greci andati a vincere in Olanda per poi crollare clamorosamente in casa. Avrebbero forse meritato spazio anche il 3-1 della Juventus al Real Madrid nella semifinale di ritorno del 2002/03, o il primo mattone messo da Roberto Di Matteo nella rincorsa Champions del 2011/12, con un 4-1 al Napoli a stravolgere il 3-1 del San Paolo subito dal suo predecessore André Villas Boas, oppure la tripletta con cui Cristiano Ronaldo spazzò via il Wolfsburg nel 2015/16 dopo aver perso 2-0 in Germania: un precedente che può tornare utile per le speranze juventine in vista del durissimo impegno con l’Atletico Madrid. Con un avvertimento, però: nessuna delle squadre che citeremo ha poi vinto la Champions League.
1992/93: il delirio di Stoccarda-Leeds
L’Unione Sovietica non c’è più, sciolta al tramonto del 1991, in ritardo di un paio di anni sulla caduta del Muro di Berlino. L’Italia di Azeglio Vicini è riuscita comunque a sbatterci addosso, in un giorno d’ottobre del 1991, sotto forma di un palo colpito da Ruggiero Rizzitelli nella partita che avrebbe potuto proiettarci a Euro 1992, dove l’ex URSS sarà rappresentata dalla nazionale della Comunità di Stati Indipendenti. Antonio Di Pietro sta per diventare un’icona pop, Mike Tyson viene condannato per stupro, Anthony Hopkins mette sulla mensola della camera da letto l’Oscar come miglior attore protagonista pur apparendo sul grande schermo per soli sedici minuti durante Il silenzio degli innocenti, gli italiani si scoprono grandi esperti di vela seguendo le avventure del Moro di Venezia nella finale di America’s Cup.
L’Europa del calcio si prepara al primo passo di una rivoluzione epocale. Il principale torneo continentale per club cambia nome, il Milan e le altre grandi danno il benvenuto alla Champions League: addio Coppa dei Campioni,sparita, dimenticata, scordatela. Sulla Uefa piovono sette nuove federazioni al posto della vecchia Unione Sovietica: dentro Russia, Armenia, Azerbaigian, Bielorussia, Moldavia, Georgia e Ucraina, in aggiunta al trittico baltico Estonia-Lettonia-Lituania già inglobato da qualche mese. Le formazioni che hanno diritto di partecipazione sono 36, quattro di troppo. Il sedicesimo di finale della prima edizione della Champions League è un’accozzaglia di partite più o meno probabili: senza teste di serie, può succedere di tutto. Il Milan rifila sette gol all’Olimpia Lubiana, l’Olympique Marsiglia ne fa otto al Glentoran così come il PSV Eindhoven allo Zalgiris Vilnius, il Porto archivia la pratica Union Luxembourg con un 9-1 di aggregate. Ma ci sono anche sfide equilibrate. Per esempio, i campioni d’Europa del Barcellona non vanno oltre l’1-0 nella doppia sfida con i norvegesi del Viking. Già dal sorteggio, però, un abbinamento spicca più degli altri. La Bundesliga 1991/92 aveva vissuto un epilogo assurdo: tre squadre a pari punti in testa a 90’ dalla fine, l’Eintracht poteva contare su una differenza reti superiore a Borussia Dortmund e Stoccarda ma si era fatto fuori dalla corsa cadendo contro l’Hansa Rostock poi retrocesso. I gialloneri aveva vinto la sua gara, ma lo aveva fatto anche la formazione di Christoph Daum. Lo Stoccarda campione di Germania pesca il Leeds di Gary Speed ed Eric Cantona.
I tedeschi giocano una partita di andata da stropicciarsi gli occhi.Fritz Walter realizza il gol del vantaggio con un delizioso scavetto sull’uscita del portiere, per poi raddoppiare in spaccata dopo un miracolo di Lukic su un tiro da fuori. Buck fissa il 3-0 con un bel diagonale, gli inglesi hanno bisogno di un’impresa per sperare di passare il turno. Le squadre si ritrovano due settimane dopo a Elland Road. Torre di Cantona per unsinistro al volo sotto la traversa di Gary Speed, ma quel vantaggio dura poco, e lo Stoccarda è convinto di aver passato il turno: altro diagonale di Buck, 1-1 poco dopo la mezz’ora. McAllister riporta avanti il Leeds dal dischetto, Cantona in avvio di ripresa fa 3-1, a 12’ dalla fine Chapman trova il gol che terrorizza lo Stoccarda e Christoph Daum.
Nel tentativo di proteggere un 4-1 che varrebbe comunque la qualificazione, il tecnico tedesco getta nella mischia il difensore centrale Jovo Simanic al posto di Maurizio Gaudino. Presenze in prima squadra fino a quel momento: zero. L’esperimento paga, lo Stoccarda blinda la porta e passa il turno. Anzi, no. C’è un problema. Il general manager del club, Dieter Hoeness, fratello del più celebre Uli, non ha tenuto conto del regolamento Uefa, che obbliga le società a schierare solamente tre calciatori stranieri. Con Dubajic e Sverrisson già in campo, e Knup entrato dalla panchina, Daum non avrebbe potuto inserire anche Simanic.
Il Leeds fa immediatamente ricorso chiedendo la qualificazione a tavolino, la Uefa è alle prese con una gatta da pelare di dimensioni cosmiche, i tabloid inglesi colgono l’occasione e ribattezzano il tecnico rivale Christoph Dumb. Lo Stoccarda, spiazzato, prova la carta del contro-ricorso: gli inglesi sono scesi in campo con il francese Cantona, gli scozzesi McAllister e Strachan e il gallese Speed. È una mossa che non ha la minima chance di essere accolta, le norme Uefa consentivano tale assetto al Leeds. Ma mettersi contro la federazione tedesca non è semplice e la decisione della Uefa, dopo una lunghissima camera di consiglio a Zurigo, ha del ridicolo: 3-0 a tavolino per il Leeds, a pareggiare il 3-0 di Stoccarda. Serve una sfida di spareggio, da giocare in campo neutro. Tutti al Camp Nou di Barcellona. «I nostri tifosi erano pochi», ricorda Jon Newsome, difensore del Leeds, «e ci saranno state in tutto 20.000 persone. In uno stadio come il Camp Nou, sembrava di giocare una partita del campionato riserve».
Strachan porta in vantaggio gli inglesi, Golke pareggia per i tedeschi. Cantona, quella sera, non vede un pallone. Wilkinson lo richiama in panchina per inserire Carl Shutt, subito a segno in un rocambolesco contropiede solitario dopo un corner a favore dello Stoccarda. «A fine partita, ricordo che negli spogliatoi c’era un telefono a gettoni», prosegue Newsome. «Quando le acque si calmarono, ci buttai dentro 100 pesetas in pezzi da una peseta per chiamare il mio migliore amico. Uscimmo tutti dallo stadio e finimmo a bere in qualche locale, guidati da Steve Archibald». Il Leeds saluterà la Champions nel turno successivo, eliminato dai Rangers. Cantona, in rotta con il club, verrà ceduto a stagione in corso al Manchester United, andando a vergare le pagine più belle della sua carriera. Jovo Simanic non giocherà più neanche un minuto con la maglia dello Stoccarda.
I gol della sfida di spareggio.
1999/00, il Barcellona ribalta il Chelsea
Più di ogni altra squadra, il Barcellona sembra avere a cuore il tema delle grandi rimonte, fatte e subite. Siamo nell’aprile del 2000 e l’Italia è sparita dai tabelloni delle due competizioni europee: la Coppa delle Coppe è andata in soffitta qualche mese prima, vinta dalla Lazio contro il Mallorca. La stessa Lazio di Eriksson il 5 aprile crolla 5-2 a Valencia. I media italiani si concentrano sulle chance di rimonta di Nesta e compagni, a cui servirebbe almeno un 3-0 per passare. Sullo sfondo, però, c’è ancora un pezzetto di Italia.
Il manager del Chelsea è Gianluca Vialli, e lui sì che sembra a un passo dalle semifinali di Champions League. Lo ha aiutato un altro italiano, Gianfranco Zola, che ormai si è abituato al soprannome di Magic Box e in Inghilterra è diventato un mito. È sua la punizione che toglie il tappo a Stamford Bridge nella sfida di andata, il solito destro a giro sopra la barriera prima di correre a festeggiare con quel volto sempre intriso di stupore, come se non fosse la specialità della casa. Ancora Zola a disegnare calcio qualche minuto più tardi, cross rasoterra per Tore Andre Flo, ribattezzato Flonaldo dalla stampa italiana prima dell’ottavo di finale di Francia ’98, e tocco di insospettabile delicatezza del norvegese. Il gigante cala il tris al 38’, trasformando un lancio di Didier Deschamps nel pallonetto che beffa Hesp e fa sognare la tifoseria Blues. La zampata di Luis Figo tiene aperta la doppia sfida, ma è chiaro che il Chelsea si presenti da favorito al Camp Nou.
https://www.dailymotion.com/video/x5hu01p
Louis van Gaal fa pace con Kluivert alla vigilia della sfida di ritorno, dopo averlo escluso in campionato, e mostra la sua abituale arroganza nelle dichiarazioni prepartita: «Neanche un gol del Chelsea chiuderebbe la partita perché noi possiamo segnare molto, lo abbiamo già dimostrato in passato. Credo alla qualificazione, se ci credono anche i 100.000 che riempiranno il Camp Nou avremo mezza semifinale in tasca». Sembrano parole al vento, visto che il Barcellona ha infilato quattro sconfitte di fila compreso il ko dell’andata, subendo dodici reti e andando a segno solamente con Figo a Stamford Bridge. Sull’onda delle dichiarazioni del rivale, Vialli chiede almeno un gol ai suoi: «Affrontiamo un leone ferito, sarebbe un errore chiudersi in difesa sperando di resistere: non avremmo scampo».
Il palcoscenico europeo può lanciare Zola verso una convocazione a Euro 2000: «Non ho mai giocato al Camp Nou, per questo non vedo l'ora di entrare in campo. La strada della nostra qualificazione passa attraverso un gol, e quindi in qualche modo mi piacerebbe metterci lo zampino». In pieno stile olandese, van Gaal posiziona i suoi con il 3-4-3 e il centrocampo a rombo: Rivaldo vertice alto, Guardiola alle sue spalle, Figo e Zenden sulle corsie a imbeccare Kluivert. Il Chelsea sbanda, al 45’ è virtualmente eliminato: Rivaldo e Figo a segno, il 2-0 basterebbe al Barcellona. Assorbito il colpo all’intervallo, i Blues tornano in campo con uno spirito diverso. Zola pressa Hesp, il rinvio dell’olandese è da dimenticare, Flo insacca. È il gol che tanto serviva al Chelsea, ma il Barcellona è una sola lunghezza dal supplementare.
Guardiola pennella per la testa di Dani a 7’ dalla fine, l’overtime inizia di fatto al 38’ della ripresa ma rischia di finire quando Leboeuf abbatte Kluivert. Rivaldo ha il pallone della vittoria, il fischio dell’aitante Frisk ha comunque indispettito i blaugrana, visto che da terra Kluivert aveva saputo confezionare in condizioni di emergenza la rete del 4-1. La pressione schiaccia il brasiliano, piatto sinistro aperto, apertissimo. Fuori. Supplementari. La scena cambia di pochissimo. Figo passa in mezzo alla difesa del Chelsea con l’eleganza di una nobildonna dell’Ottocento, Babayaro lo stende e va sotto la doccia, ancora rigore, ancora Rivaldo contro de Goey. E ancora il piatto sinistro che si apre. Il portiere olandese stavolta non è spiazzato, intuisce la traiettoria ma non può nemmeno sfiorarla. Pallone in angolo, Kluivert mette la ciliegina sulla torta con il 5-1 di testa su cross di Dani.
È la Champions delle spagnole, in finale sarà Valencia-Real Madrid. Nonostante l'eliminazione, Vialli è quotatissimo e si candida a un futuro da tecnico di Serie A: «Il giocatore che si trasferisce dall'Italia all'Inghilterra è una specie di prigioniero che improvvisamente scopre la libertà: può giocare male, può sbagliare, può perfino perdere senza venire schiacciato dalla pressione del risultato. Il calcio italiano è un'enorme gabbia perché ogni partita richiede un impegno cerebrale totale: è complicato, molto più complicato del calcio inglese. Intendiamoci: questa, in un certo senso, è anche la sua bellezza, ed è assolutamente vero che non puoi dirti con certezza un grande finché non ce l'hai fatta in Italia. Dopo esserci riuscito da giocatore, io ci proverò anche da allenatore. Ci voglio provare. Ma quando mi sentirò del tutto capace di gestire un gruppo, di tenere i rapporti con la stampa, di restare in sintonia con la società». Non troverà mai una panchina in Italia.
2003/04: pandemonio al Riazor
«Siamo soddisfatti, poteva andare peggio», sospira Paolo Maldini dopo aver visto il responso dell’urna di Nyon. Le rivali più temibili sono tutte dall’altra parte del tabellone: Real Madrid, Arsenal, Chelsea. La Uefa, nell’edizione 2003/04, ha deciso di abolire il doppio girone eliminatorio, istituendo gli ottavi di finale. Il Milan si è liberato dello Sparta Praga e ora punta dritto verso la finale di Gelsenkirchen. Il sorteggio ha infatti riservato al Diavolo un avversario apparentemente morbido, il Deportivo La Coruña, che ha appena eliminato la Juventus. Ma i bianconeri sono riconosciuti da tutti in crisi, mentre il Milan sta volando. Ha preso la vetta della classifica da un paio di mesi, qualche settimana dopo la sconfitta in Intercontinentale contro il Boca, provocata da una serie di rigori da tregenda, conclusa da unazappata di rara inefficacia di Billy Costacurta.
La notte dell’epifania, nella sfida al vertice contro la Roma capolista, Ancelotti aveva avuto un epiphany joyciana: il 4-3-2-1, l’albero di Natale. Pirlo in cabina di regia, Gattuso a correre per tutti, Seedorf mezz’ala sinistra, Kaka-Rui Costa dietro Shevchenko. L’ucraino era diventato il protagonista della notte dell’Olimpico, conaddosso una maglia che sembrava almeno di una taglia più grande del normale. Quando agitava le braccia per esultare si vedevano queste maniche enormi, sproporzionate, che fluttuavano nell’aria come dellebingo wings. In quella notte era nato il Milan più bello degli ultimi vent’anni, e adesso non può certo essere il Deportivo a spaventarlo.
A San Siro, nella partita d’andata, si vede una squadra stellare, nonostante il vantaggio firmato dal Rifle Pandiani. Un sontuoso Kakà pareggia al 45’, dopo otto giri d’orologio del secondo tempo si è già sul 4-1. Una mattanza. Roberto Beccantini firma un editoriale intitolato “Il riscatto del calcio”: «Il Milan è Europa, non Italia. Nei pregi, nei difetti, nell’atteggiamento: sempre all’attacco, in barba ai testi vigenti. Non gioca, ma orienta. La tradizione non segna, ma aiuta a sognare […] Il gol di Pandiani aveva seminato subdoli chiodi, non era facile evitarli. Il Milan ha fatto di più: li ha spostati. Per una volta, anche all’estero parleranno bene del nostro calcio».
Anche senza albero di Natale, il Milan gioca una partita sublime.
Ancelotti cammina a svariati metri da terra. Lo scudetto è praticamente già in tasca, la seconda Champions di fila sembra un obiettivo ampiamente alla portata. «Questo Milan è la squadra più forte che io abbia mai allenato». C’è qualche fuorigioco di troppo sbandierato ai danni dei rossoneri a tenere parzialmente aperto il discorso qualificazione, anche perché dall’altra parte c’è una delle squadre più pazze d’Europa. Ha superato il girone con l’affanno, arrivando appaiato al PSV Eindhoven alle spalle del Monaco e proiettando nella storia del calcio Dado Prso, gigante croatoa cui ha concesso ben quattro reti nell’irreale 8-3 della quarta giornata. Due settimane più tardi, in Galizia, tira un’aria strana. La squadra rossonera si è fermata di colpo in campionato, incassando due pareggi di fila, e prova ad aggrapparsi alla tradizione: due successi già centrati a La Coruña, uno dei quali addirittura firmato Helveg. C’è già chi pensa alla semifinale contro il lanciatissimo Porto di un Mourinho non ancora Special One, Galliani prova a fare il pompiere. «Sento troppa euforia, bisogna restare calmi. Non vorrei che il successo dell’andata togliesse concentrazione». Lo smentisce direttamente Ancelotti: «Tutta questa euforia non la vedo. Certo, dobbiamo stare attenti, il Deportivo è una squadra pericolosa e il risultato dell’andata può essere ingannevole».
Il tecnico del Depor, Javier Irureta, la butta sul misticismo: in fin dei conti, il santuario di Santiago de Compostela è a una settantina di chilometri dal Riazor. «Se San Giacomo ci farà segnare i tre gol che servono per passare il turno, potrei andarci anche in ginocchio». Oltre all’avversario, il Milan sottovaluta quei segnali che la Champions League è solita mandare. I miracoli possono realizzarsi, e spesso capitano a stretto giro di posta. Soltanto poche ore prima, il Real Madrid ha preso una ripassata epocale dal Monaco, vanificando il 4-2 del Bernabeu e il vantaggio siglato da Raul con un inopinato 3-1 subito al Louis II.Il gigante madridista crollava al tappeto sotto i colpi del perfido Giuly e di un vecchio amico come Fernando Morientes, centravanti di rara eleganza, rigenerato dal soggiorno monegasco. Il Milan, come detto, non coglie il pericolo. E si scioglie come neve al sole, contro il centrocampo iper muscolare del Depor – scatenata la pressione di Sergio e Mauro Silva – e una trequarti a cui non manca certo la tecnica: Valeron è un professore, Victor e Luque arano le corsie.
Pandiani segna ancora, dopo cinque minuti, poi è la volta di Valeron e Luque. I rossoneri hanno sporadiche occasioni ma le sprecano, l’unico a non annaspare sembra essere Cafu, ma non può bastare. Il neo entrato Fran cala il poker a un quarto d’ora dalla fine, un gol porterebbe tutti ai supplementari ma il Milan, questo disgraziato Milan di una notte inspiegabile, non ce la fa. Le sopracciglia di Ancelotti vanno in combustione a forza di fare su e giù in sala stampa: «Questa è stata una sconfitta impensabile, anche per i nostri errori, assolutamente imprevedibili. Dobbiamo essere bravi a ripartire da subito e guadagnarci quello scudetto verso il quale dobbiamo puntare assolutamente». Shevchenko è bianco come un lenzuolo: «Non riusciamo a crederci. Non dobbiamo dimenticare questa sconfitta, moralmente sto malissimo».
Sulle pagine de La Stampa, è nuovamente Beccantini a fare il punto, lanciando un monito: «Il Depor ha giocato la partita della vita e molto si indagherà, potete scommetterci, sul suo serbatoio e sul suo laboratorio, come sempre succede alle imprese degli avversari. Ma la scorsa stagione, con tre italiane su quattro in semifinale, nessuno fiatò, nessuno osò avanzare sospetti. Nessuno di noi, beninteso». Un monito che rimarrà inascoltato, visto che sarà uno dei protagonisti di quella sera a coltivare il seme del sospetto: «Ci siamo fatti male da soli, e questa è la premessa necessaria, ma ripensandoci a qualche anno di distanza c’è qualcosa che non mi torna. I nostri avversari andavano a mille all’ora, compresi giocatori un po’ in là con l’età, che non avevano mai fatto della velocità abbinata alla resistenza fisica il loro punto di forza. La scena che più mi ha colpito è stata vederli correre, tutti, nessuno escluso, anche nell’intervallo. Quando l’arbitro Maier ha fischiato la fine del primo tempo, sono schizzati nello spogliatoio, l’andatura era quella di Usain Bolt. Non riuscivano a fermarsi nemmeno in quel quarto d’ora di riposo tecnico, inventato apposta per tirare il fiato», scriverà Andrea Pirlo nella sua autobiografia a distanza di tempo. Con quattro outsider in semifinale e la vittoria del Porto di Mourinho in finale con il Monaco di Deschamps, nella memoria di tutti è passata come la Champions League meno nobile del nuovo millennio.
2016/17: il suicidio del PSG
I minuti che servono per passare da genio a imbecille, nel mondo del calcio, vanno via via riducendosi nel corso degli anni. Rileggere le pagelle destinate a Unai Emery dopo il 4-0 rifilato dal suo Paris Saint-Germain al Barcellona, nell’andata degli ottavi di finale della Champions League 2016-17, è un esercizio a tratti esilarante. «Voto 10: è lui il vero top player del PSG. La sua squadra trova finalmente il formato europeo che sognava di avere da tanto tempo. Che carica, che fame, che voglia, sentimenti mai visti con Blanc alla guida dei parigini», si leggeva nel pagellone di Eurosport la sera del 14 febbraio.
Un San Valentino particolarmente ispirato per la formazione parigina, che aveva dato una lezione di calcio al Barcellona. Dall’altra parte, un tecnico abituato a quella rapidissima transizione da genio a imbecille (e viceversa), avendo vissuto in Italia una delle sue stagioni più travagliate. A margine di quella scoppola, Luis Enrique usciva dal Parco dei Principi con un bel 3 sulla schiena: «Ma che partita ha preparato? I suoi non entrano in campo e non hanno mai una reazione, né nel primo tempo né tantomeno nella ripresa. Perché preferire André Gomes a Rakitić a centrocampo?». Sia ben chiaro, dubbi legittimi, visti gli svarioni difensivi dei catalani.
Una prestazione pazzesca di Di Maria, bellissimo anche il taglio di Cavani in occasione del 4-0.
Inutile dire che mai un 4-0 era stato ribaltato in era Champions: nonostante tutto, con quella sua sicurezza che in alcuni passaggi sembrava sfociare in un delirio di onnipotenza, Luis Enrique si presentava in sala stampa per la conferenza stampa della vigilia convinto di poter passare il turno. «Se un avversario ci può fare quattro gol, noi ne possiamo fare sei. Anche se il risultato dell'andata è molto chiaro siamo solo a metà dell'opera, nei prossimi 95 minuti possono accadere tantissime cose. Attraverso il dominio della gara possiamo essere superiori ai nostri rivali, e questo è fondamentale se vogliamo sperare in una vittoria larga». Il tecnico lascia tutti con un detto spagnolo: «Hasta el rabo, todo es toro». Fino alla coda, è tutto toro: occhio a pensare di aver evitato l’attacco, perché può bastare un colpo di coda per mettere ko il torero.
E così, contro ogni pronostico, il Barcellona si presenta al Camp Nou convinto di potercela fare, con la pazzia che si mischia alla lucidità. Suarez segna dopo tre minuti ma la strada è ancora lunga, al PSG basterebbe trovare un gol per archiviare virtualmente la pratica. È per questo che nemmeno l’autogol di Kurzawa preoccupa più di tanto i parigini, con l’esterno inebetito per la pazzesca giocata di Iniesta. Ancora l’Illusionista a inventare per Neymar che si procura il rigore del 3-0 in avvio di ripresa, con 41’ da giocare più recupero l’impresa pare davvero vicina.
Con gli avversari alle costole, la squadra di Emery si sveglia dal torpore. Cavani prende il palo in spaccata su cross basso di Meunier, il Matador sta soltanto prendendo le misure. La rete con cui il PSG pare poter ipotecare l’accesso ai quarti di finale è un gioiello cancellato dal tracollo finale e da un paio di errori sotto porta con la partita apparentemente chiusa, ma è davvero un capolavoro di coordinazione e tecnica. Con il corpo spostato verso il lato sbagliato, Cavani riesce a ritrovare l’equilibrio e sparare sotto la traversa, forzando il movimento di preparazione della conclusione. Ora al Barcellona servono altri tre gol per passare e i minuti scorrono come l’acqua di un rubinetto aperto al massimo.
Si arriva al 43’, i meme sulle dichiarazioni di Luis Enrique sono già pronti. Nessuno crede alla qualificazione, neanche quando Neymar spara sotto l’incrocio dei pali una punizione deliziosa. È forse la versione più solida del brasiliano, che si innalza a leader tecnico ed emotivo dei suoi: calcia lui il rigore del 5-1, arrivato per atterramento di Suarez nel primo minuto di recupero. Ne mancano quattro, adesso il PSG sente mancare la terra sotto i piedi, spazza via il pallone a ogni calcio d’inizio. Neymar cammina sulle acque, è suo il lancio della speranza, in area c’è anche ter Stegen ma il pallone è per Sergi Roberto, scattato sul filo del fuorigioco per entrare direttamente negli annali del calcio. Emery non crede ai suoi occhi, Luis Enrique può finalmente esultare: «Voglio dedicare questo passaggio del turno a tutti i catalani, in particolare quelli che hanno sostenuto la squadra anche dopo la sconfitta dell'andata. Questa è stata la vittoria della fede, soprattutto dopo il risultato dell'andata e le conseguenze che aveva portato».
2017/18: la Roma riscrive la propria storia
A forza di leggerlo, di dirlo, di sentirselo dire, il “Mai ‘na gioia” che circonda da tempo immemore l’ambiente romanista è diventato un modo di essere, un movimento filosofico, una scelta di vita. Ed è in un clima di mainagioismo totale, figlio di un 4-1 all’andata oggettivamente troppo pesante alla luce della buona partita giocata dalla Roma, che il pubblico giallorosso si approccia al quarto di finale di ritorno con il Barcellona, traguardo che non veniva centrato dai tempi dello Spalletti 1.0, la versione molto tattica e poco guru del tecnico toscano. Eppure, anche se solo per una stagione, la Roma aveva riscoperto una strana sensazione che tempo addietro veniva abbinata al Milan: in campionato le cose possono anche non andare benissimo, ma quando parte la musichetta della Champions passa tutto.
Il mainagioismo aveva travolto tutti al momento del sorteggio del girone: Chelsea e Atletico Madrid sembravano ostacoli insormontabili. A murare i colchoneros all’Olimpico ci aveva pensato Alisson, mezzo portiere e mezza saracinesca. Dopo aver fatto il suo contro il Qarabag – e “fare il suo” è un altro concetto inusuale in casa giallorossa – era toccato alla doppia sfida con il Chelsea. Elettrizzante quella di Stamford Bridge, con la scarica di adrenalina regalata dal sinistro al volo di Edin Dzeko che aveva risvegliato echi di Batistuta; praticamente perfetta quella dell’Olimpico, tre sberle ad Antonio Conte. Neanche la sconfitta in casa dell’Atletico, a quel punto, aveva messo in dubbio la qualificazione: 1-0 al Qarabag e accesso agli ottavi di finale da prima del girone.
Mentre la Roma in campionato continuava a zoppicare, in Champions c’era spazio per sognare. Schivata la cessione di Edin Dzeko a gennaio, il bosniaco aveva proseguito la sua opera di distruzione in terra europea: suo l’assist per Cengiz Ünder per il vantaggio in casa dello Shakhtar, prima di un classico blackout romanista. Eppure, anche nella sconfitta (2-1), si era palesato un altro segnale di rottura rispetto al mainagioismo. Il piede alzato di Bruno Peres sulla linea di porta, su una botta a colpo sicuro di Facundo Ferreyra, si era sostituito a un’altra serata paranormale di Alisson: un gesto tecnico decisivo di un giocatore fin lì risucchiato dal vortice romanista e divenuto eroe per caso. Il match di ritorno era stato condotto con sorprendente maturità da una squadra mai in confusione: 1-0 all’Olimpico, gol di Dzeko, quarti di finale. Il mainagioismo, però, era dietro l’angolo. Un paio di rigori negati al Camp Nou, l’autogol di De Rossi, quello di Manolas, il disastro di Gonalons a regalare a Suarez il gol che sembrava chiudere il discorso. Alla fine dell’imbuto di quel 4-1, la Roma aveva trovato anche la sconfitta interna contro la Fiorentina in campionato.
Nelle ore post Fiorentina, il clima è quello di una stagione già finita. C’è chi chiede la testa di Eusebio Di Francesco, chi dei giocatori, chi torna a insultare Bruno Peres, chi ne approfitta per prendersela con Gonalons, lontano parente del giocatore visto a Lione. Nel catastrofismo generale, Di Francesco riesce a mantenere la lucidità, e a preparare al meglio la partita. Ridisegna i suoi con la difesa a 3, dirottando Fazio sul centro-destra per avere una migliore uscita del pallone e confinando in mezzo Manolas; si fida di Schick, al fianco di Nainggolan a ridosso di un Edin Dzeko destinato a giocare forse la sua miglior partita in carriera. Al di là della tattica, la Roma riesce a dimostrarsi costantemente padrona delle proprie emozioni e del piano gara. Squadra alta a strangolare il palleggio del Barcellona e quel pizzico di magia che non deve mai mancare: due dei tre uomini usciti a pezzi dal Camp Nou mettono la firma su un successo epocale, incrementando il vantaggio di Dzeko fino al raggiungimento dell’obiettivo.
De Rossi insacca su rigore il momentaneo 2-0, Manolas fissa il 3-0 con un colpo di testa che diventa un instant classic del calcio europeo: l’esultanza sguaiata, un po’ Tardelli, un po’ crollo nervoso. Non è un caso che a fine partita, con l’impresa già in tasca,i fotografi lo immortaleranno seduto in panchina, in lacrime, con una mano sul volto. Di Francesco è l’eroe del giorno: «Non ho dormito per dare qualcosa di più a questa squadra. Contro la Fiorentina abbiamo sbagliato, stasera abbiamo superato gli errori. Stasera sono contento perché i miei uomini hanno sposato una filosofia». James Pallotta si tuffa nella fontana di Piazza del Popolo, riceve la multa del comune e in un impeto di generosità dona 230.000 all’amministrazione Raggi per restaurare la fontana del Pantheon. Di quella notte,che Dario Saltari ha definito il contrario del romanismo, rimangono il ricordo, i fotogrammi, le singole emozioni. Oggi, a distanza di dodici mesi, in un tutti contro tutti riacceso dal 7-1 con la Fiorentina e dalla doppia mazzata ravvicinata derby-Porto, c’è chi è tornato a chiedere la testa di Pallotta, non potendo più chiedere quelle di Monchi e Di Francesco. O di Bruno Peres.