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Chase Budinger, dalla NBA al beach volley alle Olimpiadi
24 lug 2024
La storia unica di un atleta polisportivo
(articolo)
14 min
(copertina)
IMAGO / Eyepix Group
(copertina) IMAGO / Eyepix Group
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A big dreamer, “un grande sognatore”, così si è definito Chase Budinger dopo aver ottenuto la qualificazioni ai Giochi Olimpici, un traguardo che in effetti ha coronato una carriera sportiva - o meglio, polisportiva - da sogno. Di lui, e del suo look da cliché del surfista biondo californiano, potreste avere memoria se seguivate più o meno bene l'NBA, dove ha giocato per 7 anni. Opure magari ve lo ricordate per lo Slam Dunk Contest del 2012, in cui saltò sopra il rapper P. Diddy (il fu Puff Daddy, o anche Diddy, insomma Sean Combs) con il dichiarato intento di “dimostrare a tutti che anche i bianchi saltano”, citando il film White Men Can't Jump.


Nelle prossime settimane, invece, lo troverete insieme al compagno Miles Evans sulla sabbia di Parigi, a rappresentare gli Stati Uniti nel torneo a cinque cerchi di beach volley. E come potrebbe non essere un percorso da sogno, quello di un ragazzo che è cresciuto con una palla da basket e una da volley in cameretta, ed è riuscito poi a raggiungere i palcoscenici più importanti di entrambe le discipline?

Neanche a dirlo Budinger è il primo ex giocatore NBA di sempre con una carriera del genere nel beach volley, e più in generale è uno dei casi più particolari di poliatleta. È infatti davvero improbabile in questa epoca immaginare una carriera ad alto livello nel basket e nel beach volley, anzi prima nel basket e poi nel beach volley. Ma Budinger come detto è un sognatore e il suo sogno era proprio questo. Un sogno così forte da non essere ucciso neanche dai milioni di dollari che ha guadagnato giocando in NBA, che per tanti altri sarebbero bastati e avanzati per mettere in panchina la voglia di competere, complice anche diversi infortuni subiti.

Al contrario, Budinger dopo aver chiuso col basket ha mostrato di avere ancora, in abbondanza, quella vitalità e volontà che serve per essere un atleta, per cambiare il proprio corpo e le proprie abitudini di vita, imparare i meccanismi e le dinamiche di un gioco familiare solo in parte. Insomma, per ripartire da zero, o quasi, in una nuova avventura, mettendosi in discussione e lavorando duro per recuperare terreno rispetto a chi sulla sabbia ci gioca da una vita, senza pause o parentesi in altri sport.

Probabilmente gli amici del mondo NBA con cui condivide la passione per il beach volley - in una recente intervista ha menzionato Luke Walton, Richard Jefferson, Blake Griffin, Steve Nash e Sasha Vujacic - seguendo i suoi passi degli ultimi anni, avranno pensato: ma perché, chi te lo fa fare? Già, chi?

Il duplice talento

Negli anni da studente di liceo, a La Costa Canyon High School di Encinitas, Budinger era la stella dell’ateneo sia nel basket che nella pallavolo. Non è una rarità, e magari avete già sentito storie di atleti del college che sarebbero potuti diventare o questo o quello (spesso basket e football americano), ma Budinger era qualcosa in più: il suo nome era sui taccuini di scout, recruiter e addetti ai lavori di tutto il Paese, per il mix di doti tecniche, fisiche e atletiche di cui aveva dato prova con la precocità tipica di chi arriverà ad alto livello.

Alto più di due metri, portava a spasso quel corpaccione con un’elasticità e una coordinazione non comuni; e come la sua storia e ogni suo futuro allenatore confermeranno, si trattava di un talento estremamente malleabile e versatile, un po’ per dono alla nascita e un po’ per la sua disponibilità e capacità di apprendimento. I risultati certificano tutto ciò: nel 2006 guida la selezione di La Costa Canyon al titolo della contea di San Diego, venendo anche eletto California’s Mr. Basketball; e nel McDonalds High School All-American Game di quell’anno riceve il premio di co-MVP, condiviso con un ragazzo prodigio da Montrose Christian School, un certo Kevin Durant. Insomma, Budinger si affaccia al mondo collegiale da five-star recruit e con un futuro da giocatore NBA sempre più definito all’orizzonte.

Nel frattempo, sul campo da pallavolo si lauea per tre anni di fila campione statale, sempre come San Diego Section Volleyball Player of the Year, e nell’anno da senior aveva ricevuto il premio di Volleyball Magazine’s National Player of the Year. E quindi, per Budinger ritorna sempre la stessa domanda: basket o volley, volley o basket? Il dubbio è più che lecito, e il momento di prendere una decisione, inevitabilmente, arriva.

Il bivio

A dire il vero Budinger avrebbe potuto procrastinare la scelta, con diverse università sulle sue orme che gli avrebbero dato l’occasione di continuare in parallelo con basket e volley per un anno almeno. Ad esempio USC e UCLA, che oltre alla vicinanza a casa gli garantivano un contesto competitivo e una solida tradizione in entrambi gli ambiti. Budinger, però, sente di essere giunto al bivio e di dover imboccare una strada cui dedicarsi al cento per cento, a costo di allontanarsi da San Diego e soprattutto di fare una scelta drastica. E così, optando per Arizona e dunque per i Wildcats di coach Lute Olson, si consegna definitivamente alla pallacanestro, mettendosi in cammino verso la terra promessa, la NBA.

In una recente media availability organizzata dalla USAV (la Federazione statunitense di pallavolo) a cui ha avuto l’occasione di partecipare, Chase è tornato sulla quella scelta, sui motivi per cui ha sentito di «andare all-in sul basket», mettendo da parte la passione per il volley; che pure - a sua detta - lo divertiva di più, e che tra l’altro è sempre stato di casa per Chase, per suo fratello Duncan e sua sorella Brittanie, entrambi con un trascorso da giocatori di pallavolo.

«In quel momento mi sono concentrato solo sulla pallacanestro», ha spiegato ai media presenti, «una volta presa la decisione di andare ad Arizona, ho puntato tutto sul basket. Volevo vedere quanto lontano mi avrebbe portato, e per questo ho capito di dover mettere la pallavolo in secondo piano. Avevo possibilità come USC o UCLA, dove avrei continuato con entrambi gli sport, ma dal punto di vista economico sapevo che una carriera da cestista mi avrebbe garantito molto di più rispetto a una da giocatore di pallavolo. Non era una decisione facile per me, sicuramente è stato fondamentale il rapporto con coach Lute Olson».

Il (primo) grande salto

Dopo tre anni ai Wildcats – con una media di 17 punti a partita, una selezione nel first team All-Pac-10 e un premio di Pac-10 Freshman of the Year – Budinger si presenta al Draft 2009 tra i candidati per strappare un’occasione al secondo giro. Nella sua presentazione su ESPN è paragonato a Brent Barry e ne vengono elogiate prima di tutto le doti atletiche e fisiche, ma anche la solidità come tiratore piedi per terra. Tutte qualità che effettivamente confermerà anche al piano di sopra. Alla fine è la 44esima scelta, ceduta da Detroit a Houston in un Draft abbastanza indimenticabile per il pubblico NBA, nonché per i general manager di diverse franchigie. Giusto per rinfrescare la memoria: la prima scelta fu Blake Griffin, dopo di lui Hasheem Thabeet (già) e James Harden, con Steph Curry alla numero 7, DeMar DeRozan alla 9 e Jrue Holiday alla 17. Si è visto di peggio.

Pur essendo arrivato a Houston con la consueta scarsa attenzione riservata ai rookie scelti al secondo giro, in maglia Rockets il californiano si è ritagliato da subito spazio, scollinando i 20 minuti a partita in tutti i tre anni in Texas e costruendosi una solida reputazione come giocatore di ruolo tra i front office della lega. Uno status che, in sede di free agency, gli vale la firma nel 2013 di un contratto triennale da 15 milioni di dollari, interamente garantiti, con i Minnesota Timberwolves.

Da quel momento, però, inizia il suo rapido declino, causato da una serie di problemi fisici, prima alla caviglia e poi al ginocchio, che lo costringeranno a saltare un centinaio di partite (più della metà) nelle sole prime due stagioni a Minneapolis; e che, soprattutto, lo terranno lontano dai campi in un momento determinante per lo sviluppo di qualsiasi atleta, a maggior ragione per chi appartiene al ceto medio della NBA e deve sgomitare per ogni contratto come Budinger. Da quel periodo esce ampiamente ridimensionato: «Sento che la mia carriera nella pallacanestro si sia conclusa prima di quanto volessi proprio per gli infortuni di quegli anni», conferma. «Ho dovuto operarmi al menisco, ho avuto diverse distorsioni alle caviglie, il mio corpo si stava rompendo sul campo da basket».

La flessione dei suoi numeri è implacabile, fino alla stagione 2015-16 che sarà l’ultima in NBA, divisa tra Indianapolis e Phoenix. In Arizona, dove anni prima il sogno aveva preso forma nella sua testa, tramonta definitivamente la sua avventura nella Lega.

Il pensiero, allora, va subito alla pallavolo: «Credo che verso la fine della mia carriera NBA mi sia venuta in mente l'idea di fare questo cambio, o almeno che poteva essere una possibilità. Un po’ credo di aver sempre avuto l’idea di tornare al volley, dopo il basket». Nei mesi successivi attraverserà l’Oceano per un’ultima, breve parentesi cestistica in Europa, tra le fila di Baskonia, prima di smettere. Ma non con lo sport in generale, come sappiamo.  

Inversione a U

Il momento dello switch arriva dopo la Spagna, a 29 anni appena compiuti. «Ho valutato i pro e i contro, pensavo: dovrei andare avanti a giocare a basket in Europa, o è il momento per iniziare la mia prossima carriera? Non è stata una decisione facile, ma alla fine mi sono convinto. E sapevo che passare al beach volley sarebbe stato molto più facile, perché la sabbia è così… indulgente (forgiving) con il corpo»; sottolineando poi che in quel mondo non è infrequente giocare ad alto livello fino ai 40 anni di età.

Si trattava di un ritorno alle origini per Chase, che ha passato i pomeriggi estivi della sua adolescenza alla Moonlight Beach di Encinitas, dove ci sono tre campi e si gioca a beach volley tutti i giorni, da mattina a sera. All’alba dei trent’anni è pronto a ripristinare questa routine e portarla sul piano del professionismo. Con la piena consapevolezza che gli standard atletici ereditati dal trascorso in NBA, insieme alla rassicurante disponibilità economica, sarebbero stati una solida base su cui edificare Chase Budinger 2.0; ma che sarebbe servito anche tanto lavoro per raggiungere un livello competitivo.

«È divertente vedere alcuni cestisti che non sono abituati a giocare sulla sabbia», racconta divertito, «e li metti in campo, questi atleti pazzeschi, e sembra che improvvisamente non sappiano più saltare». Non era certo il suo caso, per il trascorso nella pallavolo e per la familiarità con la sabbia, ma non si trattava comunque di una transizione scontata. «Passare dalla pallavolo indoor, sul parquet, alla sabbia, al sole, al vento e a tutto il resto, è stata una curva di apprendimento enorme per me».

L’approccio di Budinger, come ai tempi della scelta del college, è quello di chi sta andando all-in e vuole ancora vedere quanto lontano può arrivare. Si trasferisce a Hermosa Beach, a sud di Los Angeles, in quella che chiama “La Mecca del beach volley”; inizia ad allenarsi con Sean Rosenthal, protagonista in due Olimpiadi (entrambe chiuse al quinto posto) e quattro Mondiali per Team USA; e dà il via a una imponente ricostruzione fisica. «Ho dovuto cambiare il mio tipo di corpo. Quando giocavo a basket pesavo 100 chili, ora circa 90. Ho dovuto perdere un bel po’ di massa corporea, perché nel beach volley non puoi essere pesante, devi essere leggero sulle gambe, atletico, reattivo, veloce. E non ultimo, resistente: ci si stanca davvero tanto sulla sabbia, si suda da matti. Ho dovuto cambiare completamente il modo in cui mi allenavo in sala pesi, il cardio-fitness: stare sul parquet al chiuso è una cosa, ma devi essere pronto a tradurre quello sforzo all’aperto, col caldo e l’umidità, e tutto il resto».

Il (secondo) grande salto

Dopo un anno di lavoro lontano dai riflettori, nel 2018 Budinger partecipa ai primi tornei dell’AVP Tour, in coppia con Sean Rosenthal. In un’intervista di quel periodo rivela anche l’obiettivo che si è messo in testa: rappresentare la Nazionale statunitense nei Giochi Olimpici. Non quelli del 2020, che lui per primo riconosce, anche nel migliore dei casi, come traguardo precoce, bensì quelli del 2024 di Parigi. «Appena ho iniziato questa seconda carriera, il mio obiettivo sono state le Olimpiadi», ricorda oggi, a qualificazione acquisita. «L’ho sempre detto, dal primo giorno: quello è il livello più alto che avrei potuto raggiungere, e quindi il mio obiettivo».

Da allora Budinger ha cambiato diversi compagni, passando da Sean Rosenthal (2018) a Casey Patterson (2019), da Chaim Schalk (2020) a Troy Field (2021, 2022), fino all’attuale, Miles Evans. Crescendo di anno in anno, esponenzialmente, fino ai primi successi nell’AVP Tour e ad essere considerato uno dei migliori talenti del panorama nazionale e non solo. Ai Giochi, però, ci sono soltanto due slot riservati ad ogni nazione, il primo dei quali ipotecato da Andy Benesh e Miles Partain, coppia numero 6 del ranking mondiale e parte della ristretta cerchia con legittime aspirazioni di medaglia olimpica. Alle loro spalle, la lotta è serrata: nella graduatoria si considerano i punti ottenuti nei tornei internazionali nell’arco dei due anni precedenti, e si arriva agli ultimi appuntamenti stagionali con Budinger-Evans e Crabb-Brunner in volata per strappare il pass olimpico.

Il momento della svolta arriva a metà dello scorso maggio, sulla sabbia della Juan Dolio Beach (Repubblica Dominicana), dove si disputa la NORCECA Continental Tour Final, uno degli ultimi appuntamenti validi per la graduatoria olimpica. Budinger ed Evans vincono la medaglia d’oro, scalando posizioni nella classifica FIVB (13esimi) e soprattutto mettendo il naso avanti rispetto ai rivali connazionali (15esimi). È fatta.

Il torneo di beach volley inizierà il 27 luglio, con le finali in programma due settimane più tardi all’Eiffel Tower Stadium, un suggestivo impianto allestito proprio all’ombra del simbolo architettonico della capitale francese. I due hanno completato la preparazione in Svizzera, tra tornei locali e sessioni di allenamento individuali, con la voglia di farsi trovare pronti al grande appuntamento – a cui si presentano da outsider, almeno sulla carta – ma anche con la consapevolezza che al contesto olimpico si dovranno abituare, per forza di cose, durante il soggiorno parigino. «Allenarsi è fondamentale, ma non si può replicare in nessun modo un evento a cui prenderanno parte quasi 15mila spettatori. Il rumore sarà pazzesco e sappiamo che anche la comunicazione tra di noi sarà diversa: per questo ci stiamo allenando con altoparlanti di sottofondo, per abituarci. Anche il formato, poi, è completamente nuovo per noi: si giocherà due o tre volte al giorno, una partita dopo l’altra. Fisicamente bisogna arrivare pronti».

Una nuova vita

Ad appena sei anni dallo sbarco sulla sabbia, dunque, Budinger si confronterà con i migliori talenti in circolazione, rappresentando il suo Paese in un’occasione che per il beach volley - come per tanti altri sport - rappresenta uno speciale volano di visibilità ed esposizione mediatica. «Questo è probabilmente il traguardo più importante che abbia mai raggiunto», commenta con orgoglio Budinger. «Ricordo quando ero bambino e guardavo le Olimpiadi in tv. Eravamo una famiglia numerosa, ci mettevamo tutti insieme sul divano e guardavamo eventi di ogni sport, dalle 5 di pomeriggio fino a sera tardi. Pensavo quanto sarebbe stato bello poterci giocare, un giorno. Ha un significato enorme per me, è davvero un sogno che diventa realtà».

Quando gli viene chiesto di raccontare la sua nuova quotidianità da giocatore di beach volley, mettendo per un attimo da parte traguardi e risultati di campo, Budinger toglie le vesti di agonista e atleta internazionale, e ci ricorda che c’è un terzo, grande sogno - oltre alla NBA e alle Olimpiadi - che ha coronato. Ovvero, il ritorno “al suo elemento”, all’habitat naturale: le spiagge della California. E ad un ritmo di vita che gli consente di godersi davvero il percorso.

«Da giocatore NBA, per forza di cose, ti viene continuamente detto cosa fare: ti alleni a quell’ora, poi palestra, sessione di tiro, stretching, cardio, massaggi, e così via, tutti i giorni. Questa invece è una vita molto più rilassata: si va al proprio ritmo, con i propri orari, organizzando in autonomia gli allenamenti, contattando gli altri giocatori e arrivando al campo con le proprie palle. Ed è fantastico. Andare in bicicletta agli allenamenti ogni giorno, sotto il sole, sulla sabbia… cosa puoi volere di più? Ci sono giorni in cui mi alleno e penso: wow, questo è ciò che faccio ogni giorno, è pazzesco».

Ci hai convinto, Chase: la carriera sportiva perfetta può esistere anche senza risultati da prima pagina dei giornali. Senza anelli NBA, senza MVP, senza medaglie olimpiche o mondiali (per ora), senza essere il più grande o il più forte o il più-qualsiasi-cosa del proprio sport. Non sarà questo il mantra che hanno lasciato ai posteri, ad esempio, due punti di riferimento della sua gioventù, Michael Jordan e Kobe Bryant - ma i grandi sognatori sono così, e chi siamo noi per non essere d’accordo?

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