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Che cosa significa il titolo dei Toronto Raptors
15 giu 2019
Kawhi Leonard, Kyle Lowry, Fred VanVleet e una difesa inscalfibile per una cavalcata memorabile.
(articolo)
22 min
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Vincere un titolo NBA è una cosa straordinaria. Per quanto negli ultimi anni i Golden State Warriors, come ogni dinastia, l’abbiano fatta sembrare una cosa normale, anche loro potranno garantirvi che non lo è. Vincere non è una regola, ma una squisita eccezione. Vincere quattro serie consecutive, quattro partite su un massimo di sette partite, col livello che sale e sale è una cosa straordinaria.

E i Raptors sono riusciti in questa impresa, facendosi strada nella giungla dei playoff NBA usando come machete le gigantesche mani di Kawhi Leonard e rimanendo infine l'ultima squadra in piedi davanti ad Adam Silver e al Larry OB. E' il primo titolo per una squadra con un prefisso telefonico non statunitense, che corona una rincorsa fatta di ascesa e delusioni dove per una volta tutto è andato nel verso giusto. Dalla prima sconfitta in casa contro Orlando, ai quattro, interminabili, rimbalzi del pallone sul ferro in Gara 7, passando per il doppio supplementare contro i Bucks alla redenzione finale alla Oracle Arena, conquistata dai Raptors come il museo nel finale di Jurassic Park.

Ventisei anni dopo l'uscita dal blockbuster firmato da Steven Spielberg, finalmente i dinosauri regnano nel mondo NBA e una nuova dinastia è sul punto di nascere. Masai Ujiri avrà il compito di imprigionare Kawhi nell'ambra e azzeccare l'universo giusto dei 14000 possibili come fatto in questa stagione, se non fuggirà prima verso Washington.

Ci penseremo domani, ora quello che conta è mettersi le maschere da sci e sbocciare come se non ci fosse una fine.

La forza e la pazienza di Kawhi Leonard

di Dario Vismara

Qualche anno fa una persona che ne sa molto più di me mi disse: “La NBA è una macchina che ti porta su e poi ti riporta giù, per poi eventualmente risollevarti: questo è poco ma sicuro”. Fino all’inizio della stagione 2017-18, Kawhi Leonard non era mai realmente stato “portato giù”: le due finali NBA conquistate al secondo e al terzo anno nella lega, di cui le seconde culminate con il titolo di MVP della serie finale, lo avevano messo al riparo più o meno da qualsiasi critica possibile e immaginabile. A differenza di tante altre stelle della lega — quasi tutte, a pensarci bene — a lui non si poteva imputare di non essere “vincente”, “decisivo” o “clutch”, perché lo aveva dimostrato fin da subito al più alto livello possibile e, soprattutto, in entrambe le metà campo.

Forse è anche per questa protezione totale dalle critiche esterne che i suoi colleghi hanno cominciato a definirlo come un “giocatore di sistema”, forse perché giocava nei San Antonio Spurs o forse perché il suo talento è meno visibile rispetto a quello degli altri. Leonard — si diceva — è un giocatore più costruito che naturale, e il fatto che non avesse attraversato il tradizionale percorso di hype legato al circuito AAU o della NCAA non aiutava a renderlo “digeribile” ai suoi colleghi. Aggiungeteci la sua personalità a dir poco riservata ed ecco emergere il profilo di una stella fatta a modo suo, lontana dai canoni di quella tradizionale di questa epoca della NBA.

Poi però è arrivata la scorsa stagione, e parecchie cose sono cambiate. Le sole nove partite disputate con gli Spurs e soprattutto la querelle sul suo ritorno in campo (torna? Non torna? Ma come sta? Che cos’ha di preciso? Perché non parla? Perché i suoi compagni lo attaccano?) ha minato quell’immagine immacolata che Leonard si era costruito e che sembrava infascalfibile esattamente come il suo rapporto con i nero-argento. Ci è voluto quasi un anno per capire il motivo di quella rottura con gli Spurs, spiegata qualche tempo fa dal famigerato “Uncle Dennis” inun’intervista con Yahoo Sports, ed è inevitabile che dopo il titolo vinto contro i Golden State Warriors il pensiero sia tornato alla tremenda stagione passata, senza la quale nulla di tutto quello che è successo negli ultimi dodici mesi sarebbe stato possibile. «Un sacco di persone hanno dubitato di me» ha detto dopo le Finals, togliendosi qualche sassolino dalle scarpe. «Pensavano che stessi inventando l’infortunio oppure che non volessi più giocare per la squadra. La cosa che più mi ha deluso è che tutto è trapelato ai media, perché io amo il gioco della pallacanestro. Io soffro se non gioco».

Parole che nel gergo KawhiLeonardesco equivalgono a macigni, visto quanto poco gli piace comunicare, e che hanno fornito la base di partenza ai Toronto Raptors per costruire il rapporto con lui, dandogli tempo e spazio per tornare a modo suo, esaudendo ogni suo desiderio — e solo nel caso in cui deciderà di lasciare Toronto scopriremo quanto fosse privilegiato il suo trattamento rispetto a quello di tutti gli altri — e gestendolo con i guanti di velluto per tutta la regular season laddove tantissimi altri spogliatoi si sarebbero sgretolati.

La parola chiave di questo titolo dei canadesi, a mio modo di vedere, è pazienza. Una qualità che sta sparendo in questa epoca in cui si pretende tutto e subito, e che invece l’intera franchigia — dalla proprietà che non ha smantellato questo gruppo ai giocatori che hanno accettato di attendere il miglior Leonard per un’intera regular season, passando ovviamente per l’imprescindibile Masai Ujiri — ha dimostrato di avere in abbondanza. E che Leonard ha apprezzato e ripagato in toto nel corso dei playoff, con una post-season che sinceramente anche i più ottimisti non avrebbero potuto immaginare. Kawhi è stato pressoché ininterrottamente il miglior giocatore in campo in due mesi in cui si è trovato di fronte Giannis Antetokounmpo, Steph Curry, Klay Thompson, Joel Embiid, Jimmy Butler, Ben Simmons e tutti quelli che volete tra gli altri di Orlando, Philadelphia e Milwaukee. Mettendo tutti i canestri decisivi (quelli di gara-4 e gara-7 contro i Sixers rimangono quelli più memorabili), mettendosi la squadra sulle spalle nei momenti più difficili, cambiando la cultura stessa della franchigia e infondendole la sua inscalfibilità — il tutto senza dire una parola, spazzando via di prepotenza qualsiasi ostacolo si sia trovato di fianco, ma allo stesso tempo lasciando che gli altri prendessero il palcoscenico nel momento in cui lui non riusciva a farlo, specialmente nelle ultime due gare delle Finals (al netto di quel delirante parziale di 10-0 in gara-5 che rimangono i due minuti più straordinari della sua carriera).

MVP per la seconda volta.

Rimane il dubbio di cosa sarebbe successo se nelle Finals ci fosse stato il miglior Kevin Durant possibile, il Mostro Finale che avrebbe potuto fermare questa sua incredibile cavalcata verso la storia. Ma questo non toglie nulla ai suoi playoff o al titolo di MVP che lo pone ora in una cerchia ristrettissima — l’unico insieme a Kareem e LeBron a riuscirci con due squadre diverse, l’unico in assoluto a farlo nelle due conference — e indiscutibilmente tra i primi cinque giocatori della NBA a stare davvero larghi. Un anno fa sarebbe stato difficile immaginarselo, visto che non sapevamo nulla delle sue reali condizioni o se sarebbe mai tornato a essere il giocatore che era. E chissà come ne parleremo tra un anno, vista la sua imminente free agency sulla quale, ovviamente, non ha fatto trapelare nulla.

Ma intanto il suo lo ha fatto, riprendendosi quello che aveva lasciato incompiuto.


Fred VanVleet, un role player nella storia

di Daniele Morrone

La storia è semplice: Fred VanVleet è la point guard di riserva di Toronto e all’inizio di questi playoff è sembrato più l’avatar in campo di Drake che un giocatore in grado di reggere questo livello di gioco. Nelle prime 15 partite ha tenuto 4 punti di media in 20 minuti tirando col 19% da 3; poi, durante gara-4 delle finali di conference contro i Bucks è nato il suo secondo figliom Fred Jr., e da quel momento in poi improvvisamente qualcosa si è sbloccato nella sua testa, passando dal segnare 2, 5 e 3 punti nelle prime tre gare della serie con Milwaukee a 13, 21 e poi 14 punti nella decisiva gara-6 con 14/17 da tre punti complessivo.

VanVleet è entrato in queste finali NBA giocando improvvisamente il miglior basket della carriera, ma era comunque imprevedibile potesse diventare così importante per la vittoria di Toronto. Invece così è stato. Toronto sarebbe arrivata dove poteva portarla Kawhi Leonard, è vero, ma è stata anche la profondità della panchina a fare la differenza nelle finali: la capacità di avere sempre in campo più giocatori in grado di fare canestro oltre a difendere. E se questi Toronto Raptors sono ricalcati quindi sui San Antonio Spurs 2014 con cui proprio Leonard ha vinto il titolo, non poteva mancare l’apporto fondamentale di un Patty Mills che dalla panchina mettesse energia e tiri pesanti. VanVleet, oltre all’energia, ha messo l’anima e il corpo in campo, perdendo un dente e aprendosi una guancia in gara-4.

Se VanVleet è stato importante in attacco con le sue triple, ancora di più lo è stato nello svolgere l’ingrato compito di tenere a bada Steph Curry quando Green andava in panchina. Fred Sr. ha lavorato continuamente per stargli attaccato ogni singolo possesso, per non metterlo mai in ritmo utilizzando anche piccoli espedienti come qualche colpetto e qualche trattenuta per testare quanto gli arbitri gli avrebbero permesso di essere fisico. Dalla sua difesa singola Nurse ha deciso di affidarsi all’ormai celebre box-and-one da alternare alle marcature in raddoppio sul 30. Questo è normale per un role player, ma quello che ha fatto in queste finali VanVleet è stato rimanere poi lucido poi in attacco: 28 canestri su 63 tentativi, di cui 16 su 40 da tre punti, che significa sia un’ottimo 40% che proprio un record storico per triple segnate per un giocatore che entra in partita dalla panchina (superati i 15 di Robert Horry e J.R. Smith). Da notare le percentuali in due tipologie di tiro fondamentali per la sua serie: ha segnato tutti e 8 i suoi tentativi dal palleggio (tra cui 5 triple) e ha chiuso la serie con 7/9 al ferro. L’unica zona dalla quale non ha tirato bene sono state le triple dalla punta (1 su 10) compensando però con 4 su 8 dal gomito sinistro e 7 su 13 dal gomito destro (dagli angoli 4 su 9).

L’aspetto enorme della sua serie finale non è solo aver avuto quelle percentuali, ma averle avute quando il pallone gli arrivava in situazione di gioco rotto, quando Leonard e Siakam non riuscivano a costruirsi la propria conclusione. Come ha fatto notare SB Nation, quasi un terzo dei suoi tiri nelle finali sono arrivati con 4 o meno secondi sul cronometro e lui in quelle situazioni ha tirato col 58.3%. La cosa da sottolineare è proprio che per i giocatori di ruolo come VanVleet i canestri non si misurano tanto nel numero, ma nel peso che hanno. Un role player che sposta non è quello a cui gli viene chiesto di fare canestro ogni volta, ma che è in grado di farlo in quella precisa occasione lì, quando la partita è in bilico e un canestro di un giocatore che non è tra le stelle sposta psicologicamente il vantaggio della partita. Perché se “segna anche lui”, allora diventa tutto più facile.

Nell’ultimo e decisivo quarto di gara-6 VanVleet è rimasto in campo per tutti i 12 minuti e ha segnato 12 punti con 3/5 da tre punti e 3/3 ai liberi. Tutti i suoi canestri sono arrivati per pareggiare o per portare in vantaggio Toronto. Un quarto in cui ha segnato più di Leonard e Curry messi assieme.

I suoi canestri nell’ultimo quarto già sono leggenda. A 9 minuti del quarto quarto e con 3 secondi sul cronometro dei 24 utilizza un blocco di Gasol per tirare in faccia a Cousins: è la prima tripla delle tre segnate. Ancora più assurda però è la seconda, a 7 minuti dalla fine, in cui la palla gli arriva con 5 secondi sul cronometro e Steph Curry talmente addosso da non potersi muovere perché schiacciato dalla linea del campo alle spalle. Si mette in ritmo da solo con un palleggio e tira in faccia al numero 30 per il sorpasso. O la terza, in cui con meno di 4 minuti segna il canestro del +3 segnando l’unica tripla in punta di tutte le sue Finals sfruttando la distrazione di Cook sul pick and roll con Siakam. Nel mezzo un fallo su un’altra tripla porta al pareggio con tre liberi segnati consecutivamente.

Fred VanVleet ha chiuso le Finali come unico giocatore non chiamato Kawhi Leonard a ricevere un voto come MVP delle Finali, attestato di stima del mitico ex allenatore e ora telecronista Hubie Brown. Uno dei pochi role players a riuscirci nella storia.




Il curioso caso di Kyle Lowry

di Dario Costa

La gara-6 con cui i Raptors si sono laureati campioni NBA è stata molte cose, tra cui un microcosmo perfetto della carriera di Kyle Lowry. I numeri (26 punti, 7 rimbalzi e 10 assist tirando con il 56.3% dal campo e il 57% da tre con +16 di plus/minus, il migliore dei Raptors) lo renderebbero automaticamente il migliore in campo tra i suoi, eppure negli occhi di alcuni appassionati e addetti ai lavori rimarrà qualcos altro. Ad esempio le due palle perse in momenti chiave, frutto di decisioni discutibili palla in mano, che avrebbero scatenato la consueta gogna mediatica qualora la partita avesse preso un’altra direzione.

Questo nonostante Lowry abbia segnato i primi 11 punti di Toronto, dando il tono alla prestazione degli ospiti, per poi chiudere le prime due frazioni di gioco con 21 sul tabellino. Nel finale di partita, però, ha commesso ancora una volta il peccato cestisticamente mortale di mostrarsi esitante, anche quando ha segnato un canestro fortunato e pesantissimo contro le braccia protese di Draymond Green. Durante le Finals si è spesso scontrato con Klay Thompson e Steph Curry su entrambi i lati del campo, riuscendo con esiti piuttosto alterni a limitare le prestazioni dei due Splash Brothers, ma ha anche abusato dei lunghi di Golden State sui cambi difensivi creando per sé e per i compagni con lucidità e tempi perfetti, mettendo gli altri nelle condizioni di rendere al loro meglio.

Adorato dalla squadra e da tutta la famiglia dei Raptors, Lowry ha continuato a giocare le sue prime finali come ha sempre fatto dai tempi della Cardinal Dougherty HS, North Philly: a testa bassa, pronto a buttarsi su ogni pallone, senza paura di finire tra il pubblico in prima fila, con una generosità destinata ad infrangersi contro la barriera di un talento e di un fisico per certi versi limitato. A 33 anni, con tredici stagioni NBA alle spalle, Kyle Lowry ormai è questo: prendere o lasciare. I Raptors, che nell’estate del 2012 l’hanno acquisito da Houston in cambio di Gary Forbes e una scelta hanno deciso di prendere e soprattutto di trattenere quando lo scambio con New York è saltato, rendendolo il leader emotivo dello spogliatoio (l’altro, di leader, è notoriamente muto) e simbolo della squadra nel momento in cui hanno sacrificato il suo grande amico DeMar DeRozan. Di sliding doors nel corso della sua storia ai Raptors ce ne sono state, eppure come direbbe Bran Stark, tutte le scelte che sono state fatte lo hanno portato fino a qui.

Le immagini più memorabili della serie di Lowry.

Nick Nurse, nel tentativo di condensare l’essenza di Lowry e il suo posto nella squadra, ha spesso ribadito come «possiamo vincere che Kyle faccia 4 o 34 punti». Al termine di quella che dal punto di vista statistico è stata la sua peggiore regular season in maglia Raptors, Lowry ha cambiato passo, numeri alla mano, con lo scoccare dei playoff, finendo per prendersi una clamorosa rivincita. E ora può brindare, rigorosamente senza alcool, a un traguardo che molti giocatori ben più celebrati hanno solo sognato.

Non solo, Lowry si è pure guadagnato l’investitura a simbolo e miglior giocatore di sempre nella storia della franchigia. Eppure anche questa primavera era cominciata in salita, ormai una tradizione per i Raptors che nella loro storia hanno un record di 2 vinte e 14 perse all’esordio in post-season. Nella sconfitta casalinga patita per mano dei tutt’altro che irresistibili Orlando Magic il tabellino dell’ex-Rockets e Grizzlies segnava zero alla voce punti, con soli 7 tiri tentati in 35 minuti sul parquet.

Discusso e criticabile sotto molti punti di vista, Kyle Lowry è campione NBA. Il resto, la somma infinita di chiacchiere e opinioni, almeno per oggi, conta meno di zero.


L’attacco stacca i biglietti, la difesa fa vincere il titolo ai Toronto Raptors

di Niccolò Scarpelli

Uno degli aspetti più sottovalutati della trade che ha portato Kawhi Leonard a vestire la maglia dei Toronto Raptors sta nell’essere riusciti a mettere le mani anche su Danny Green. Nonostante Green sia uno degli uomini meno chiacchierati della grande cavalcata verso il titolo di Toronto – con Nick Nurse che gli ha preferito spesso Fred VanVleet, già icona immortale dalla cultura canadese – la sua presenza a roster è stata fondamentale nel rimodellare la fisionomia e la filosofia difensiva dei Raptors, una squadra che già da qualche anno poteva contare su una buona difesa (da regular season) ma che solo in quest’ultima stagione ne ha fatto il principale punto di forza.

Dopo avere incassato l’ennesima, cocente, delusione ai playoff, il General Manager Masai Ujiri sapeva che per superare il plateau tecnico ed emotivo a cui erano giunti i Raptors occorrevano dei cambiamenti. Partire dalla guida tecnica poteva essere un inizio, ma serviva anche altro.

Da anni Ujiri è uno dei migliori dirigenti NBA nell’intrecciare sottili trame che solo in un secondo momento si rivelano per quelle che sono, aprendosi a scenari più grandi: difficilmente prende una decisione senza un motivo ben preciso. È in questo contesto che la presa di Green acquista il suo valore, perché amplifica il semplicistico concetto della scommessa Leonard intesa come voler migliorare la propria punta di riferimento, fino alla visione di un GM che già da tempo aveva iniziato a porre le basi di quella che sarebbe diventata una difesa invalicabile.

La capacità della difesa dei Raptors di aprirsi e chiudersi come i tentacoli di una medusa. Le rotazioni dal lato debole della squadra di Nick Nurse sono state una gioia per gli occhi in questi playoff.

Da cerebrale architetto qual è, Ujiri ha saputo tracciare una nuova linea, costruendo una squadra che si confacesse con i canoni moderni della NBA ideale. Una squadra che fosse capace di alzare e abbassare i propri quintetti senza dover cambiare il proprio personale, imbottita di giocatori dotati di grande mobilità, velocità e intelligenza cestistica, e che riuscisse ad accoppiarsi bene contro match-up diversi tra loro, una condizione d’esistenza fondamentale per chi vuole fare strada da aprile in poi. Nel corso dei playoff, infatti, i Raptors hanno dimostrato di poter essere fisici (come nella serie contro Philadelphia), di avere grande verticalità e velocità (contro Milwaukee) e di saper leggere e variare i propri schemi difensivi senza problemi come nella serie finale contro i Golden State Warriors.

L’aver messo le mani su entrambi gli esterni degli Spurs ha permesso non solo di prendere due dei migliori interpreti difensivi della lega (per quanto riguarda Kawhi, il migliore in assoluto) ma di acquisire anche la loro esperienza condivisa da compagni di squadra nel corso degli anni, garantendosi una coppia quasi robotica nel leggere le situazioni di gioco e reagire di conseguenza. Il lavoro di costruzione di Ujiri, però, non si è limitato a questo. Ad esempio, l’aver sfruttato la forte posizione di vantaggio nella trattativa con gli Spurs ha permesso di non privarsi di nessuno tra O.G. Anunoby e Pascal Siakam, mantenendo intatta una batteria di ali terrificante.

Oppure l’aver convertito Terrence Ross, Delon Wright, Jonas Valanciunas e C.J. Miles in Serge Ibaka e Marc Gasol, aggiungendo due lunghi diversi tra loro ma anche facilmente integrabili nei concetti stabiliti. La versatilità ha permesso a Ibaka si impattare da ala forte, da centro, e anche da “centro di riserva” dopo l’arrivo del catalano, l’ultima tessera aggiunta da Ujiri al proprio mosaico.

Tutta la bravura di Gasol nel modificare le linee di penetrazione degli avversari, proteggendo il ferro con grande senso del tempo. Nella terza clip uno dei motivi principali per cui i Raptors hanno voluto prenderlo: la difesa uno-contro-uno su Joel Embiid in vista di un’ipotetica serie con i Sixers.

Oltre ad aver ampliato gli orizzonti tecnico-tattici nella metà campo offensiva con le sue doti di passatore, Gasol ha migliorato anche i numeri difensivi della squadra, passata dalla quinta alla terza efficienza difensiva nel finale di stagione. Il suo premio di difensore dell’anno è andato a sommarsi ai due di Kawhi, in un roster che conta ben 10 gettoni nei primi quintetti difensivi (con Siakam e Lowry, due giocatori che in questi playoff hanno fatto prestazioni difensive sublimi, che non ne hanno mai fatto parte) e che è apparso privo di punti deboli, con giocatori capaci di adeguarsi a ogni situazione.

La qualità dei giocatori dei Raptors, infatti, ha permesso a Nick Nurse di gestire al meglio il logorio della regular season e di sperimentare il più possibile. Approfittando anche dei riposi concessi a Leonard, Nurse ha cercato di variare le richieste ai propri giocatori, facendoli familiarizzare con situazioni diverse nel tentativo di prepararli alle dinamiche spesso caotiche e imprevedibili della post-season. Questo approccio flessibile è stato fondamentale nell’avere successo ai playoff.

La difesa ha permesso ai Raptors di incidere sia con line-up pesanticome nella serie contro i Sixers, sia con schieramenti più “leggeri” o addirittura senza centri (come nel finale di gara-1 contro gli Warriors). Ha permesso di variare la proposta sul pick and roll (73° percentile), di decidere quando cambiare sui blocchi a seconda delle necessità, e ha risucchiato in un buco nero i tiratori dei Bucks (83° percentile in situazioni di spot-up) dopo aver capito a chi affidare la marcatura del giocatore più pericoloso. Ha fatto sì che i cinque giocatori in campo si muovessero all’unisono, tutti secondo lo stesso battito, ruotando con energia e precisione, come dimostrano le deflections (primi con 14.9 a partita) e la più bassa percentuale concessa da tre (31.3%, angoli esclusi). Ha permesso alla squadra di tenere botta quando Lowry e Leonard dovevano tirare il fiato e ha visto l’utilizzo vincente di ben due tipi di zona diverse, la prima in finale di conference per contenere Giannis Antetokounmpo e la seconda alle Finals per ingabbiare Steph Curry.

Le varie situazioni di box-and-one per limitare Curry che passeranno alla storia di queste Finals.

La difesa dei Raptors è stata un tripudio di tecnica e fisicità, di impegno collettivo che trascendere le posizioni dei giocatori in campo e che sa esaltarsi nei momenti più difficili. Nel corso dei playoff Toronto ha messo in campo una delle migliori difese a metà campo degli ultimi anni, spazzando via Orlando, Philadelphia e Milwaukee concedendo appena 85 punti su 100 possessi e mantenendo la stessa efficienza anche nella serie finale.

La difesa ha permesso a Ujiri di coronare in trionfo la sua visione complessiva e audace. La difesa ha permesso ai Toronto Raptors di vincere il loro primo, storico, titolo.




Il volto sofferente dei Golden State Warriors

di Lorenzo Bottini

Ora che anche gli ultimi spettatori hanno lasciato per sempre la Oracle Arena, chiudendo dietro di loro i portoni che sigilleranno 47 anni di storia di basket professionistico ad Oakland, è tempo di riavvolgere i nastri della stagione dei due volte campioni NBA che contro ogni pronostico hanno dovuto abdicare il loro trono.

È stata una stagione strana per i Golden State Warriors, iniziata come sospesa in un sogno rosa ma che si è velocemente trasformata in un horror survivalista del filone uomo vs natura. La squadra in mano a Steve Kerr è andata riducendosi sempre più, fino ad non avere più soluzioni per i Toronto Raptors. Dopo gli infortuni occorsi a DeMarcus Cousins e Kevin Durant nei primi due turni dei playoff, contro i canadesi per la prima volta gli Warriors hanno sofferto il logorio di cinque anni e 519 partite sempre a livelli altissimi, arrivando ogni volta fino a metà giugno a giocarsi le Finals. Una eccellenza che ha infine presentato un conto salatissimo, doloroso e quantomeno ingiusto vista la resilienza mostrata da Steph Curry e soci - anche con le spalle al muro, anche quando ormai il loro destino sembrava segnato.

Quando Klay Thompson si è accasciato sul parquet, spingendosi in avanti sugli avambracci come un soldato in trincea, l’Oracle Arena si è inabissata in un silenzio sordo, dove l’incredulità si mischiava con la rabbia di dover lottare a mani nude contro il fato avverso. Curry ha preso la palla e l’ha deformata contro le doghe del suo salotto. Un gesto apotropaico, un suono amplificato dai pochi mobili rimasti dopo il trasloco, andando a sedersi dall’altro lato del campo senza la forza di guardare il suo fratello di Splash che lo aveva lasciato solo.

Quei minuti congelati tra il rumore bianco dell’infortunio e il ribollire dello stadio intero quando Klay si è riaffacciato dal tunnel per sistemarsi sulla linea di tiro libero rappresentano in miniatura la frustrazione degli Warriors - una serie fatta di strepiti e furori, che alla fine ha solo significato la fine di una gloriosa dinastia.

Stay safe Klay.

Una fine che potrebbe essere segnata più dai tanti infortuni piuttosto che dalla mancanza di motivazioni o da sopraggiunte rivoluzioni tattiche, a differenza di quelle del passato. Gli Warriors a pieno organico sono ancora la migliore squadra della lega con grosso margine sulle altre, ed è bastato un cameo di dieci minuti di Durant in gara-5 per ricordarci la sinfonia che possono suonare quando sono tutti accordati.

Ci sarà da chiedersi quando e se potremo rivedere insieme su un campo da basket la Death Lineup o gli Hampton Five o i cinque dell’Ave Maria: Thompson non rientrerà prima della pausa per l’All-Star Game mentre Durant molto probabilmente salterà l’intera prossima stagione. Entrambi sono free agent (Durant ha un’opzione sul prossimo anno, KT è UFA) e potrebbero scegliere di curarsi lontano dalla Baia, anche se al momento sembra un’ipotesi improbabile. Più verosimile che gli altri due free agent infortunati di Golden State, DeMarcus Cousins e Kevon Looney, cercheranno invece altrove le soddisfazioni economiche conquistate grazie al loro stoicismo. Ci sarà da rimboccare la coperta troppo corta di questa post-season, che dovrà fare i conti anche con il probabile ritiro di Shaun Livingston e con la carta d’identità di Andre Iguodala, autore di una grande gara-6 che però ha lasciato l’eco del canto del cigno.

Immediatamente dopo la sconfitta, Draymond Green ha giurato che questa non è stata l’ultima recita dei Golden State Warriors per come siamo stati abituati ad amarli e temerli negli ultimi cinque anni, ma che torneranno presto a giocarsi un altro Larry OB. Un ritorno che avrebbe del mitologico e che potrebbe finalmente ricostruire il legame affettivo tra il gruppo di Steve Kerr e il pubblico nordamericano. Gli Warriors hanno sofferto, come tutte le squadre dominanti, di una forte polarizzazione tra chi amava spassionatamente i balletti di Steph e le imbruttite di Draymond, e chi voleva solo vederli finalmente cadere.

Ora che hanno mostrato il loro umano, che per qualche strano motivo significa sempre quello sofferente, Curry & co. possono iniziare lo stesso percorso di riabilitazione che ha portato LeBron a salvare l’intera città di Cleveland.

O possono fregarsi di tutto ciò e andare a prendersi tutto quello che la sorte e Kawhi Leonard questa volta gli hanno sottratto.


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