Giovedì 9 luglio 2020. Ottavi di finale di play off di serie C. C’è un’afa asfissiante allo stadio Cabassi, manca un quarto d’ora alle venti e le due squadre, Carpi e Alessandria, si stanno riscaldando sul terreno secco e assetato. In palio c’è il passaggio del turno, il quarto di finale dei lunghi ed estenuanti play off della terza serie. Sebbene la tensione sia smorzata dall’assenza di pubblico, non si può negare che la fibrillazione pre partita sia sempre presente, rimodulata questa volta dalle nuove circostanze “sanitarie”. Quindi stadio vuoto, deserto e presenza di pochi steward a bordo campo coperti da mascherina.
Mentre gli undici titolari si scaldano, scambio due passaggi assieme a Riccardo (Chiarello) per assaggiare l’eccitazione dell’evento. Il sole sfodera le ultime picconate di caldo. Poi all’improvviso parte, dall’impianto stereo dello stadio, una hit che va a sbattere violentemente contro la mia concentrazione focalizzata sulla partita. Dalle prime note della tastiera, ormai assimilate a furia di ascolti e riascolti televisivi, riconosco la canzone e vengo catapultato sul palco di Sanremo: Bugo e Morgan con «Sincero» danno una sterzata brusca al clima che si era creato e che stavo vivendo. Dentro di me si riaffaccia non solo l’esibizione del Festival, ma tutto il codazzo di polemiche seguito alla performance dell’ex leader dei Bluvertigo, che aveva storpiato la canzone facendo infuriare il compagno Bugo il quale durante l’esibizione aveva abbandonato il palco.
Che succede? Mi domando, come ha fatto Morgan quando Bugo lo ha lasciato solo. Sebbene abbia apprezzato in passato i percorsi artistici di entrambi i musicisti e conservi nella mia collezione di dischi qualche loro album, non riesco proprio ad accettare la “messa in onda” di questa canzone prima di una partita importante. Il suo motivetto pop lo trovo più adatto ad altri contesti. Carpi-Alessandria potrà anche essere un banalissimo ottavo di finale delle serie minori, senza uno straccio di spettatore per giunta, ma personalmente ho sempre fatto fatica a digerire questo tipo di musica prima di un evento calcistico. Soprattutto durante il riscaldamento.
“…volevo fare il cantante, delle canzoni inglesi” canta il fiero Bugatti, nella versione radiofonica del singolo. E io sento che la partita scivola via dalla mia mente...
I calciatori ascoltano musica in due momenti ben distinti: durante la convivialità dello spogliatoio e prima di una partita ufficiale. Non ho svolto nessuna indagine e nemmeno ricerche statistiche, ma le mie osservazioni elementari, che penso possano essere largamente condivise dai miei colleghi, vengono dall’esperienza personale. La presenza di un piccolo impianto stereo o di una punto dove collegare lo smartphone all’interno di ogni spogliatoio è certa, e dopo tanti anni posso tratteggiare una panoramica degli ascolti e dei gusti musicali che in linea di massima ”funzionano” all’interno dell’atmosfera di squadra. C’è sempre qualcuno che, vuoi o non vuoi, prima o dopo la seduta smanetta sullo smartphone e propone le sue preferenze, condivise poi a tutta la squadra. Avere qualche nota in sottofondo è quasi sempre piacevole. Non ci sono limiti che ordinano l’ascolto: chi vuole è libero di metter su quello che vuole. La legge non scritta del buon senso prevale dopo sconfitte o durante periodi neri, quando la minor spensieratezza lascia il posto ad un silenzio ambientale più consono e coerente.
Quest’anno, un po’ per gioco un po’ per fare un esperimento, ho osato nel sabotaggio programmato della musica in palestra: chiedendo a Lollo (Crisanto) di prestarmi il suo account Spotify ho testato la pazienza dei miei colleghi mettendo qualcosa di mio, aspettando che qualcuno si alzasse e cambiasse musica. I risultati li trovate all’interno di questo pezzo.
Sabotaggio numero 1: Donuts, J Dilla.
Durata prima che venisse sostituito: 2 minuti.
Sostituito da: The one di Rea Garvey.
Tralasciando l’ascolto di trasmissioni radiofoniche (che si sentivano in spogliatoio prima dell’avvento di iPod e simili) e concentrandosi più sulle scelte di chi, a suo rischio e pericolo*, decide di condividere i propri gusti musicali con altri venti maschi, ci si trova di fronte ad una variegata distesa di possibilità*. Come è normale che sia, a venire a galla sono soprattutto i tormentoni del momento: roba come Occidentali’ s Karma, oppure Waka Waka, sono, nel periodo della loro uscita, l’asfissiante norma degli ascolti che mettono d’accordo quasi tutti i componenti della rosa.
Poi vengono le hit internazionali ascoltate alla radio e riproposte in spogliatoio con competente sicurezza: stiamo parlando del pop senza grossi slanci e costretto alle catene del facile consumo, e della musica italiana figlia dei talent show (Amoroso, Michielin, Carta e Amici). Ma ci sono alcuni generi - come l’hip hop e recentemente la trap, o la trance discotecara tunz-tunz di dj come Tiesto, Avicii e Bob Sinclair, quella ascoltata nei locali a tutto volume - che riscuotono sempre un ottimo successo e ben si adattano al contesto ad alto tasso di testosterone. Capita che di tanto in tanto qualcuno inserisca una playlist contenete pezzi da novanta della storia del rock, ma in realtà i grandi classici non vengono quasi mai presi in considerazione.
Beatles, Rolling Stones, Neil Young, Doors, Velvet Underground, Jimi Hendrix: i loro capolavori senza tempo non sono mai riusciti ad entrare dalla porta principale dello spogliatoio e hanno sempre faticato a ritagliarsi anche solo un misero spazio. Con Spotify, e a un mercato discografico ben più disgregato e aperto, i dinosauri del rock se ne stanno lì, ad aspettare che qualcuno li rispolveri.
Sabotaggio numero 2: Leave home, Chemical brothers.
Durata prima che venisse sostituito: 2 minuti e 2 secondi.
Sostituito da: Animals, Martin Garrix.
Diversa la sorte per le tipiche canzoni che caricano l’ambiente con qualche riff luccicante (come «Thunderstruck» degli AC/DC, «Sweet child o’mine» dei Guns’n Roses, «Song 2» dei Blur) o per gli onnipresenti Queen di «We will rock you» o «Bohemian rapsody», esempio emblematico di come a distanza di anni, per non dire decenni, la loro formula sia rimasta efficace e consumabile.
Ricordo ancora, nella mia prima esperienza alla Viterbese, come Roberto (Gimmelli), mio coetaneo, fosse fissatissimo con Freddy Mercury. Al tempo avevo già preso le distanze dalle “regine” ma con lui discutevamo spesso sul testo di «Bicicle race».
Ovviamente, molti gusti dipendono dalle proprie origini: i neomelodici e Gigi D’Alessio per chi è cresciuto in Campania e a Napoli, De Andrè per i genovesi. Venditti per i romani. Dai calciatori sudamericani, soprattutto ritmi latini come la samba. Ci sono anche sorprese incosuete, inaspettate: a volte becchi tipi riservati, quasi asociali, che vanno di rap politicizzato alla Kendrick Lamar (è giusto il termine rap politicizzato?) oppure ragazzi dall’aria tranquilla che non disprezzano l’hard rock.
Sabotaggio numero 3: Friday I’m in love, The Cure.
Durata prima che venisse sostituito: 45 secondi.
Sostituito da: Ladida, Crispie.
Fin dalle prime esperienze professionali, ascoltare la musica "da spogliatoio” è sempre stato duro per il sottoscritto. Molto duro. Nei primi tempi, a Bari, ricordo anche di essere stato associato al classico stereotipo del metallaro che a casa alza il volume a palla. Avendo dei gusti poco radiofonici mi sono ritrovato ad essere un pesce fuor d’acqua, a dovermi adattare al pop dei miei compagni. Purtroppo (o forse per fortuna, dipende dai punti di vista) ho poco da spartire in senso musicale con i miei colleghi: sono un patito dei generi alternativi, delle sperimentazioni, dal post rock, all’elettronica per passare all’ambient e al noise.
Ascolto perlopiù artisti sconsociuti e band dai nomi impronunciabili. Ho una discreta collezione di dischi che conservo gelosamente a casa, tutto materiale per orecchie curiose che non si accontentano delle melodie radiofoniche. Perciò mi è sembrato naturale nel corso del tempo tentare di “sabotare” gli ascolti di spogliatoio, di infiltrarli quanto meno con spruzzi di rock alternativo. I risultati sono sempre stati pessimi, anche nei casi in cui tentavo di trovare il minimo comune denominatore per venire incontro ai miei colleghi, ho dovuto sempre masticare amaro.
Sabotaggio numero 4: Blitzkrieg pop, Ramones.
Durata prima che venisse sostituito: due minuti (quasi tutta in realtà). Federico (Casarini) ha apprezzato.
Sostituito da: Just miss love, Benny Benassi.
Il tempo di un giro di orologio, magari due, e l’ascolto della canzone che ho proposto viene subito interrotto. È così ancora oggi, ma ricordo che una volta, sempre ai tempi di Bari, comprai un ipod da 8gb e ci infilai dentro singoli che potessero andar bene a tutta la squadra: la cosa durò, forse una settimana, poi decisi di toglierlo. Stavo facendo del male a me stesso (la musica da loro scelta non mi piaceva e in più non c’era ancora Spotify e mi toccava pagare canzoni di merda a 99 centesimi l’una). Non che sia l’unico pesce fuor d’acqua. Ho incontrato diversi ragazzi, tra una squadra e l’altra, appassionati di musica, di un certo tipo di musica, quanto me. Che ascoltano molto, e che magari suonano anche uno strumento musicale.
Tipo Luigi Giorgi, patito di qualsiasi forma musicale: con lui avevo trovato una valvola di sfogo, qualcuno con cui interloquire. Ci siamo conosciuti a Siena, lui arrivava dal mercato di riparazione, e dopo pochi giorni (sedeva al mio fianco in spogliatoio) eravamo riusciti subito a sintonizzarci sulle stesse frequenze sonore. Avevamo sì e no la stessa inclinazione per l’alternative, leggevamo le stesse riviste specializzate (Mucchio, Blow Up, Rumore) e in più lui suonava la chitarra. Se non sbaglio dovrebbe far parte di un piccolo gruppo rock.
È capitato che ci scambiassimo dischi e approfondissimo le nostre conoscenze e quello per me fu un periodo florido, veramente entusiasmante. Al di là dei soliti discorsi da spogliatoio non è facile trovare colleghi che abbiano i tuoi stessi interessi in quanto a passioni slegate dal calcio; aver conosciuto lui è stata una boccata di ossigeno. E «Slave ambient» dei The war on drugs, disco che ho scambiato con lui per «Strange Mercy» di St. Vincent (ma non ne sono sicuro) è veramente un gran bel disco.
O anche Corazza. Quale gioia qualche mese fa, quando Simone Corazza, mio compagno di squadra, caricò la sua playlist durante un massaggio sdraiato sul lettino. Mentre svolgevo le terapie al ginocchio alla postazione ultrasuoni ascoltai inaspettatamente e con confortante incredulità «Hey joe» e l’inconfondibile sound di Jimi Hendrix. D’un tratto mi accorsi della potenza del classico rispolverato senza preavviso, che suona bene ovunque, anche in una modesta sala massaggi intrisa dell’umore che solo certi infortuni di media gravità portano con se. La cosa veramente entusiasmante però è stato approfondire la stupenda playlist di Simone intitolata ROCK. Scorrere i nomi degli artisti inclusi è stato come respirare aria buona e ritornare indietro ai tempi dei miei primi ascolti giovanili. Red Hot Chili Peppers, Pink Floyd, Led Zeppelin, Rolling Stones, Santana, Rage Against The Machine, Korn, Nirvana e Pearl Jam. Doors. Talking Heads. Iggy Pop.
Sabotaggio numero 5: Rapaa, Vladislav Delay .
Durata prima che venisse sostituito: un minuto scarso.
Sostituito da: Far away from home Sam Feldt, Viza.
Su per giù nel 2010 Claudia Mori divenne la star indiscussa di diversi spogliatoi (ho avuto conferme di questo tormentone da altri colleghi in altre squadre). La canzone “Non succederà più” scritta dal Adriano Celentano nel 1982, per qualche ragione divenne la top hit dello spogliatoio del Bari quasi vent’anni dopo. Per settimane ha invaso gli ascolti del post allenamento barese come mai era successo in precedenza, il suo ritornello ruffiano divenne asfissiante fino alla nausea e non riuscivo a capacitarmi del motivo per cui una canzone del passato, obiettivamente poco conosciuta, fosse ritornata a “spaccare” più che mai.
Sembrava tutto surreale, dei calciatori che si rivestono per tornare a casa cantando a squarciagola “eppure lo sai, che ho tanto bisooogno d’amooore…”. La chiave di tale successo furono alcuni locali notturni (o forse uno, lo stesso bazzicato da tutti, non saprei dirlo con certezza) che trasmettevano su piste da ballo e cubi vari questa come canzone della “buonanotte” all’ora di chiusura.
Per quanto riguarda l’altra modalità d’ascolto, quella intima e privata del rituale pre-partita, che serve a cercare la giusta concentrazione (non tutti in realtà lo fanno ascoltando musica) e che generalmente concilia nel tragitto dall’hotel allo stadio, difficile parlare a nome di altri a parte me.
Nel silenzio ovattato del pullman che ci accompagna alla partita, nel mio solito posto, poco oltre la metà del corridoio, a sinistra e vicino al vetro, ho quasi sempre indossato cuffie con cui isolarmi. C’è stata un’evoluzione nei miei ascolti in questi venti anni di calcio: se prima ero convinto che il rock carico di adrenalina avesse un effetto energico sul mio approccio alla sfida, con il trascorrere del tempo, dell’abitudine e della maturità ho iniziato a provare musiche diverse, avvicinandomi sempre di più alle sonorità ambientali più rilassanti, quelle che apparentemente poco hanno a che fare con agonismo e competizione.
Le sensazioni corporee e i pensieri focalizzati alla “battaglia” imminente, miscelati con la musica nelle orecchie, con lo sfilare del paesaggio al di là vetro e con il fibrillante countdown interiore, creano un flusso di energia rilassante, eccitante, che sembra quasi riprodurre nei miei occhi un film, un sogno ad occhi aperti. Al tempo stesso, se riascolto quelle stesse canzoni posso tornare con la mente nel pullman, negli istanti precedenti le partite più importanti che ho giocato. Nel silenzio quasi mistico del pullman rivedo il tragitto verso lo Stadium, quello della Juventus, a Torino.
Scruto fuori, oltre il vetro che luccica di riflessi. Dentro di me prende vita fibrillante un’ansia positiva, capace di emozionarmi prima ancora che tutto accada. Il suono delle auto della polizia che fanno strada tra utilitarie e semafori rossi entra nelle mia cuffie, «Asleep version» di Jon Hopkins, si fa strada nel mio immaginario e sento che mi brillano gli occhi, mentre il diaframma cerca di parlarmi. Vorrei accogliere l’attesa, vorrei far implodere la mia concentrazione, vorrei abitare quegli interstizi di vuoto intermittente che si affacciano nella mia consapevolezza. Respiro a fondo, per godere i minuti che rimangono prima di scendere dal pullman.
Ma non ce la faccio, penso alla partita. Penso a Tevez, a Morata, a Pirlo, a Pogba, che si insinuano nelle delicate atmosfere di «Open Eye Signal» in una versione ambientale che ha poco a che spartire con i ritmi del singolo di Hopkins. Visualizzo per qualche secondo i movimenti tattici ai quali mi dovrò attenere. Sento suoni di clacson. Un tipo in bicicletta distrae la mia attenzione. Sento una mix di eccitazione e profonda gratitudine. Il derby della Mole è un match che non avrei mai immaginato di poter giocare ed ora voglio godermelo.
Spengo la musica, e sono pronto.