Fabio Barcellona - Francia
In ogni competizione internazionale, mi è bastata una o due partite per innamorarmi di una squadra. È capitato perché giocava bene, o perché aveva un paio di giocatori che mi facevano impazzire o, ancora, per la storia che si portava dietro. O magari non capivo bene nemmeno io perché, in fondo il tifo non è affatto un fatto razionale. Quindi non pensavo di scrivere qualcosa in questo pezzo, non avendo nessuna squadra per cui tifare, prima dell’inizio del Mondiale. Poi l’altro giorno, mio figlio, che ha 9 anni, ha guardato in TV un programma di mezz’ora sulla semifinale del 2006 tra Germania e Italia. Mi sono reso conto che non sa che nel 2006 l’Italia è stata campione del mondo e mi sono accorto che, nel 1982, avevo più o meno la sua età e ricordo ogni minuto delle partite dell’Italia di Bearzot. Alcuni suoi commenti sparsi: “Ma la Germania arriva sempre almeno in semifinale a tutti i Mondiali?”; “Ma Cannavaro era fortissimo!”. E la sua sorpresa nel sapere che Fabio Grosso giocasse allora nel Palermo, la squadra della nostra città, e che il Palermo potesse dare dei giocatori alla Nazionale. Si è emozionato ai gol dell’Italia come ai gol delle partite che vede in diretta e abbiamo registrato la puntata del giorno successivo dedicata alla finale con la Francia. Mi dispiace non poter vedere le partite dell’Italia con lui, al suo primo vero mondiale. Alla fine ha detto che visto che quest’anno che non c’è l’Italia tiferà per la Francia. Gli ho chiesto del motivo di questa scelta e lui mi ha risposto “C’è Pogba”. Da bambino tifoso della Juve, il mio primo idolo calcistico, che poi forse è stato l’unico, perché quelli che hai da bambino sono insuperabili, era Platini. Per questo anch’io ho tifato sfegatatamente Francia agli Europei del 1984, quando non c’era l’Italia. E il mio idolo mi ha ampiamente ripagato con 9 gol in 5 partite. Il tifo è una questione di famiglia e mio figlio tifa Francia per le stesse ragioni per cui tifai Francia io più di 30 anni fa. Non posso non accompagnarlo.
Daniele Manusia - Perù
Anche quando l’Italia è arrivata lontana, tipo nello scorso Europeo o nel 2006, ho sempre trovato almeno un’altra squadra per cui tifare. È un diritto tanto più ineludibile quest’anno, in cui la blasfemia del tifo per scelta diventa semplice istinto di sopravvivenza. Se le prime partite porteranno inevitabili sorprese (se la Tunisia resiste contro l’Inghilterra, ad esempio, sarà difficile non sostenerla anche contro il Belgio) quest’anno ho deciso per partito preso di tifare Perù. Un po’ perché nel 2014 avevo tifato Costa Rica e quel tipo di energia mentale e atletica, che i costaricensi non hanno più, mi sembra si sia trasferita nella squadra con la maglia più bella del Mondiale (una delle, dai); un po’ perché il gioco palla a terra del “Tigre” Gareca, se non verrà snaturato dalla competizione e dalle avversarie che dovrà affrontare (la Francia è comunque un paio di grattacieli più in alto), potrebbe essere uno dei più gradevoli da veder giocare; un po’ perché Paolo Guerrero - che ha i due soprannomi più belli del Mondiale: è il “Depredador”, oppure il “Barbaro”, che in realtà è una cattiva traduzione di Depredador ma è bello lo stesso e rende l'idea del suo carisma in area di rigore - è effettivamente dotato di un magnetismo che non tutti hanno e che è rarissimo in squadre così piccole. Al di là della storia della squalifica (bellissimo che è stato assolto portando tra le prove a sua discolpa una mummia inca trovata positiva alla cocaina a distanza di secoli), Guerrero effettivamente è uno di quei giocatori in grado di catalizzare i momenti decisivi, un centravanti con fiuto tempismo, movimenti, esplosività, tecnica, di alto livello, di quelli che in un Mondiale può prendersi più di un momento di gloria. Ma il Perù è pieno di giocatori interessanti solo per un Mondiale. Advincula, Carrillo, Cueva, Tapia, Jefferson Farfan: tutti nomi che potrete dimenticare tra un mese ma che proverete un gusto unico a ripetere nelle prossime settimane. Il Mondiale è una storia estiva, un innamoramento con la data di scadenza. Diciamo che se l’Italia fosse nostra moglie, forse non lo considererebbe neanche un vero e proprio tradimento.
Foto di Fabrice Coffrini / Getty Images
Emiliano Battazzi - Argentina
La situazione ambientale dell’Albiceleste di oggi è di gran lunga la peggiore tra tutte le Nazionali: solo nelle ultime settimane, due titolari si sono infortunati; è stata cancellata la visita dal Papa; è stata cancellata un’amichevole contro Israele; di conseguenza, la società organizzatrice della partita ha chiesto l’espulsione dell’Argentina dal Mondiale; Sampaoli è stato accusato di molestie sessuali nei confronti di una cuoca del centro di allenamento della Federazione.
Esistono sostanzialmente solo due squadre di calcio al mondo in grado di uscire vincenti da una situazione così deteriorata: una è l’Argentina, l’altra non si è qualificata, l’Italia. Insomma, se avete bisogno di immedesimarvi in una Nazionale simile alla nostra, salite anche voi sul carro dell’Argentina, con un’avvertenza: ogni partita sarà giocata sulla sottile linea tra disastro e trionfo. Come diceva Borges, “l’argentino è un italiano che parla spagnolo”.
Altri motivi per tifare Argentina: interrompere per sempre il dualismo Maradona-Messi e accontentare i nostalgici che ritengono la vittoria del Mondiale come unico criterio di grandezza; permettere a Higuain di vivere serenamente la sua vecchiaia; consentire ad un gruppo storico di essere ricordato per una vittoria, e non come il ciclo più perdente nella storia della Seleccion (3 finali consecutive perse in 3 anni).
Daniele V. Morrone - Uruguay
L’assenza dell’Italia mi ha dato la possibilità di scegliere una squadra a cui legarmi emotivamente solo per questo torneo. Ovviamente non ho scelto a caso, con una breve lista di parametri ho piano piano ristretto le opzioni a due squadre: Uruguay e Messico. L’Uruguay ha stravinto e sarà quindi la mia squadra feticcio a questo Mondiale. Qui metto i parametri:
- Prima di tutto deve essere una squadra che va avanti almeno fino ai quarti perché il mio investimento emotivo deve poter andare oltre i gironi: qui pari tra Uruguay e Messico che hanno tutto per poterci arrivare. 1-1.
- Deve avere al suo interno una generazione coesa con qualcosa in palio: leggero vantaggio Uruguay grazie alla generazione ’86-’87, un blocco veramente unico per quanto fatto per riportare l’Uruguay tra le grandi e che ora è all’ultimo Mondiale. La generazione ‘87-’88 del Messico è però piena di rimpianti. 2-1 Uruguay.
- Deve esserci comunque una base medio-alta di qualità tecnica individuale: qui pari, anche perché il controllo di De Arrascaeta da solo penso che alzi la media dell’Uruguay. 3-2.
- Deve avere un’identità tattica fortissima: per quanto mi sia piaciuto il Messico di Osorio visto in amichevole, non c’è chi è in grado di creare più coesione tra progetto tecnico e uomini quanto il professore Óscar Tabárez. L’Uruguay in campo sa sempre quello che vuole e come raggiungerlo. 4-2.
- Deve poter essere in grado di giocarsela, anche da outsider, contro chiunque: grande vantaggio Uruguay che ha praticamente tatuato questo parametro sulla pelle. #GarraCharrua. 5-2.
- Deve avere almeno un giocatore tra i miei preferiti in generale: pari tra Diego Godín e Andrés Guardado. 6-3.
- Deve avere un totem difensivo a cui potersi affidare: Diego Godín. 7-3.
- Deve avere almeno un U-21 di grande talento da poter coccolare durante il torneo: Rodrigo Bentancur direi copre più che bene la questione. 8-3.
- Deve avere almeno un giocatore, possibilmente peculiare, da scoprire: non seguendo il calcio argentino per me Nahitan Nández è tutto da scoprire in questo Mondiale. 9-3.
- Deve avere un bomber affidabile e devoto totalmente alla causa: qui non c’è storia, l’Uruguay ne ha almeno due. 10-3.
- Deve avere una maglia iconica: entrambe belle maglie. 11-4.
Fabrizio Gabrielli - Messico
Quanto è riposante potersi scegliere con assoluta arbitrarietà, senza legami di appartenenza, una squadra da tifare? Assecondando i miei criteri estetici sapevo già che avrei pescato in America Latina. Tra gli estremi opposti dell’Argentina, e il suo potenziale logorante stillicidio, e Panama, davvero troppo scarsa per provare un affetto che trascendesse la compassione, alla fine ho deciso che tiferò Messico. Perché potrò sentirmi a mio agio, senza necessariamente risultare ridicolo, con un sombrero sulla testa mentre mangio tacos. Perché potrò gridare «Coronaaa!» intendendo, allo stesso tempo, un endorsement al “Tecatito” e l’invito a passarmi un’altra cerveza, di quella más fina. Perché vedere Carlos Vela e Gio Dos Santos scambiarsi il pallone, dopotutto, è sempre come addentare una nuvola di zucchero filato. E poi perché c’è un portiere spettacoloso e simpatico come Ochoa, la storia immarcescibile del “Gran Capitán” Rafa Márquez, la muscolarità rocciosa di Héctor Herrera ma anche le movenze principesche di Guardado, e la reattività turbomissile del “Chucky” Hirving Lozano.
Una mescolanza di ingredienti maneggiata con cura da un CT sapiente e per nulla rinunciatario come Juan Carlos Osorio, che si allena tre volte a settimana affinché il suo cuore regga lo sforzo di essere un CT al Mondiale. Pure Landon Donovan tiferà Messico, per dire. Pronti a eccitarci al prossimo grido di Andrés Cantor? Io, prontissimo.
Emanuele Atturo - Marocco
Bisogna sempre tifare per la bellezza, anche se probabilmente non riuscirà a salvare il mondo. E se è vero che la bellezza, anche nel calcio, si manifesta sotto forme molto diverse, bisogna riconoscere che esistono dei giocatori e delle squadre che alla bellezza sembrano più affezionate di altre. Il Marocco di Hervé Renard a questi Mondiali sarà la squadra con più concentrazione di qualità tecnica fra quelle che non possono vincere i Mondiali.
Il Marocco è una strana ammucchiata di trequartisti sregolati e che vogliono sempre la palla sui piedi. Renard non ha neanche cercato di trovare dei compromessi e in sostanza li ha messi più o meno tutti in campo. Il Marocco potrebbe perdere rovinosamente le tre partite del girone, o addirittura consumare un clamoroso upset sul Portogallo: è difficile fare qualsiasi pronostico. Di sicuro sono pieni di giocatori fichissimi. Non saprei neanche scegliere: l’eleganza pesante di Belhanda (che ha la 10, e quindi è il più pazzo di tutti)? La visione di gioco coatta di Ziyech (che sembra distribuire filtranti con le mani in tasca)? La leggerezza aerea di Harit (che speriamo giochi il più possibile)? Oppure la saggezza tecnica di Boussoufa (che ha fatto implodere la sua carriera in modo spettacolare)?
Sono tutti bellissimi e inaffidabili e tifare per il Marocco per questo magari può essere anche un cliché, ma non credo lo sia in quest’epoca così realista, materialista e che ama così poco l’immaginazione e la creatività umana. Che almeno nel calcio venga lasciato un po’ di spazio per l’arte.
Bonus - altre ragioni sparse per tifare Marocco:
- Hanno una bandiera magnifica, una delle poche bandiere di cui mi comprerei la maglietta. Lo sapevate che le cinque punte della bandiera rappresentano i cinque principi su cui si regge l'Islam?
- In Marocco ci sono dei giardini magnifici, come il Giardino Majorelle.
- In Marocco ha vissuto il più grande poeta della storia dell'umanità, Arthur Rimbaud.
- Tangeri è una città splendida e immortalata in grandi film. Tra i più recenti vi consiglio la Tangeri di Only Lovers left alive, di Jim Jarmusch.
- La tajine.
Federico Principi - Brasile
Il Brasile è da sempre la Nazionale-simbolo dei Mondiali, quella contro cui ogni vittoria diventa leggenda, il Real Madrid delle Nazionali sostanzialmente. La storia ci ha consegnato il Brasile del 1970 come la squadra più forte di tutti i tempi, quella di Jairzinho-Gérson-Tostão-Pelé-Rivelino, ma nel corso dei Mondiali i cosiddetti quadrilateri offensivi della Seleção sono diventati una sorta di oggetto di culto: da Garrincha-Vavá-Amarildo-Zagallo in Cile nel 1962, passando appunto per Jairzinho-Tostão-Pelé-Rivelino, fino ad arrivare a Mazinho-Zinho-Romario-Bebeto a USA ‘94, Leonardo-Rivaldo-Ronaldo-Bebeto a Francia ’98, Kakà-Ronaldinho-Adriano-Ronaldo a Germania 2006 e al trio Ronaldo-Rivaldo-Ronaldinho in Corea e Giappone nel 2002, nell’unica Nazionale della storia ad aver vinto tutte le partite in un’edizione dei Mondiali.
Ma i tempi sono cambiati e il Brasile di Tite ha ormai raggiunto un equilibrio tattico tra talento e necessità difensive che contribuisce a mantenere intatto il suo fascino e allo stesso tempo lo rende immune ai cambiamenti e alle esigenze del calcio contemporaneo. Questo Brasile, dovesse vincere il Mondiale, sarà ricordato per la catena di fascia del 4-3-3 col più alto tasso tecnico nella storia del calcio (Marcelo-Coutinho-Neymar) o magari per un altro quadrilatero, quello difensivo composto da Alisson-Miranda-Thiago Silva-Casemiro, che dimostra come la scuola brasiliana si sia ormai completata. I paradigmi del calcio cambiano ma l’idea romantica del talento brasileiro rimane immutata: solo si è spostata in altre zone di campo, rendendo forse questo Brasile come la Seleção potenzialmente più completa e più forte di sempre. In questo senso un trionfo del Brasile a Russia 2018 potrebbe riservare una quantità di fascino che ricorderemmo a lungo nella storia dei Mondiali.
Giuseppe Pastore - Serbia
Ogni papabile ha i suoi solidi pro e contro. La Colombia? Simpatica, divertente, con la maglietta gialla, forse troppo frivola e umorale. L’Argentina, per l’ammirazione sconfinata che nutro per Messi? La Germania? Simpatizzare per la Germania è una spia inequivocabile del fatto che si sta invecchiando. La Serbia e contemporaneamente la Croazia, sognando una definitiva resa dei conti balcanica in semifinale? Probabilmente la scelta finale cadrà proprio sulla Serbia, essenzialmente perché nel calcio non combinano nulla di buono da quando si chiamavano Jugoslavia, e sarebbe interessante vedere l’effetto che fa.
Emanuele Mongiardo - Croazia
Tra le squadre in lizza per il ruolo di outsider, la Croazia ha delle caratteristiche davvero uniche. La maggior parte delle nazionali di livello medio-alto proverà a mantenere una buona solidità difensiva per poi affidarsi al talento degli attaccanti, che siano Cavani e Suarez nell'Uruguay o Lewandowski nella Polonia.
La Croazia per costruzione potrebbe soffrire un calcio di transizioni o comunque troppo diretto. Per una squadra con quel centrocampo la soluzione più logica mi sembra il controllo del pallone, che permetterebbe ai migliori giocatori di seguire il proprio talento ed esprimere il massimo del potenziale. Quali nazionali hanno una mediana migliore nel palleggio di quella croata? Solo la Spagna per individualità e la Germania per sistema di gioco. Il talento della Croazia a centrocampo è davvero stellare. Tutti i giocatori partono da una base tecnica eccellente, che declinano poi secondo diverse sfumature.
Brozovic negli ultimi mesi è entrato nella top 3 dei centrocampisti in Serie A, con un controllo palla che gli permette di mantenere il possesso e ordinare la squadra anche in inferiorità numerica, come dimostra la splendida partita di San Siro contro la Juve. In più ha una capacità di giocare palloni in profondità, sia alti sia bassi, davvero di livello assoluto; potrebbe essere l'arma perfetta per lanciare le corse di Perisic o per duettare nello stretto con Modric, proprio come faceva con Rafinha. Kovacic negli anni con Zidane alle conduzioni e ai dribbling ha aggiunto discrete doti in interdizione. Badelj è il miglior giocatore della Serie A per intercetti a partita (2,6), e non ha paura di giocare sotto pressione, con dribbling e protezioni palla che lo rendono prezioso anche in fase di costruzione. Rakitic invece, oltre all'ottima tecnica porta in dote il senso per gli inserimenti e l'intelligenza nell'occupazione degli spazi. Magari sulla trequarti, come aveva fatto ad Euro 2016, così da permettere a Modric di abbassarsi e avere più influenza sul possesso. Il capitano, forte degli insegnamenti di Zidane, potrebbe provare a instillare nei suoi quella mentalità per cui la tecnica è la via migliore per legare così tanti giocatori innamorati del pallone. I compagni inoltre avrebbero la sensibilità per sostenere le triangolazioni che Modric ama tessere durante le sue conduzioni taglia linee.
Male che vada, Dalic potrebbe comunque giocare la carta del cross sul secondo palo per la testa di Mario Mandzukic.
Marco D’Ottavi - Iran
Per quanto possa sembrare democristiano, la mia scelta di tifare Iran NON è una scelta politica. Certo, l’Iran non è un paese verso cui si può rimanere neutrali, ma la sovrastruttura politica di una nazione è una componente da prendere in considerazione quando si sceglie una squadra da tifare? Soprattutto dopo che la mia nazionale si è suicidata in un doppio confronto contro i campioni del welfare state, voglio scegliere di tifare un paese in cui le cose - diciamo - potrebbero andare meglio.
Quattro anni fa l’Iran resistette per oltre 90 minuti agli attacchi dell’Argentina, futura finalista, per poi capitolare davanti ad un lampo di classe di Messi, forse il più limpido della sua storia mondiale.
Basterebbe questo epilogo, con i giocatori distrutti dopo il fischio finale, per tenersi vicino al cuore questa nazionale, che in Russia proverà a riscattarsi in un girone ancora più difficile. La scelta di tifare Iran è infatti quasi disperata: nonostante sia forse la miglior nazionale tra quelle asiatiche, l’essere finita con Spagna, Portogallo e Marocco costringerà noi tifosi del Team Melli a concentrare tutto il proprio tifo in tre partite. Ma è una porzione di tempo sufficiente e soprattutto se qualcosa in più dovesse arrivare… beh, i nostri cuori scoppierebbero di orgoglio bianco, rosso e verde.
L’Iran ha tutto per entrarci sotto pelle: un portiere freak che prima di diventare portiere lavava macchine; un esterno che segna a raffica in Eredivisie; un talento giovane e elettrizzante che non è sfuggito al paragone con Messi. C’è anche una brutta storia di imperialismo: le sanzioni USA all’Iran hanno costretti i giocatori a comprarsi gli scarpini in un negozio vicino al ritiro dato che la Nike non poteva fornirli.
Ma soprattutto l’Iran ha una cultura millenaria e un popolo fantastico, e se non ci è riuscita la storia a farci innamorare di questo posto, che magari ci pensi il pallone.
Francesco Lisanti - Svizzera
La verità è che mi affeziono sempre alle squadre di cui scrivo. Avevo preparato una solida gerarchia di criteri stringenti su cui basare la selezione, a cominciare dai report di Amnesty International e dell’Osservatorio Diritti Umani. Poi sono stato costretto ad ammorbidirmi, perché al decimo report m’era passata la voglia di vedere i Mondiali. Man mano che rivedevo le mie priorità, e man mano che mi immergevo nella preparazione al girone E, la nausea per le identità nazionali prendeva il sopravvento. Per gli islandesi forti di testa, per i senegalesi che corrono in transizione, per i giapponesi piccoli e tecnici.
Allora mi sono imbattuto in quella Babele senza nessuna sorta di fascino che è la Svizzera, una squadra composta da camerunensi, bosniaci, cileni, albanesi, nigeriani, kosovari, congolesi, turchi - i Secondos, li chiamano, per identificare la generazione di appartenenza. Un percorso vincente della Nati costruirebbe una narrativa paragonabile a quella della Francia del ‘98, in una nazione in cui un cittadino su quattro mostra sentimenti xenofobi. Almeno Lichtsteiner non sarebbe più costretto a rispondere a domande sceme come «questa si può davvero definire una nazionale svizzera?». Non mancano i giovani di prospettiva, che potrebbero esplodere durante la rassegna (Akanji, Zakaria, Embolo), e neanche i giocatori di culto immediatamente riconoscibili (Xhaka, Dzemaili, Shaqiri). Nel complesso non è una squadra eccezionale, non dovrebbe esserlo neanche la tolleranza reciproca.