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Chewing Gum
06 apr 2016
Blaise Matuidi: e se fosse sempre stato grande?
(articolo)
25 min
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Non essere timido

Quando è arrivato a Parigi nell'estate del 2011, erano in pochi a conoscere Blaise Matuidi. Aveva giocato giovanissimo nel Troyes prima di passare al Saint-Etienne, ed era arrivato nella capitale tra i primi acquisti della nuova proprietà qatariota (a parte Pastore e Sirigu, tutti nomi che a Parigi sarebbero durati poco: Sissoko, Douchez, Menez, Gameiro, Lugano, Bisevac). Lo aveva voluto Antoine Kombouaré, che però sarebbe rimasto l'allenatore del PSG solo fino a dicembre di quello stesso anno: “Molti si opponevano al suo acquisto, in società abbiamo fatto a pugni perché arrivasse. Se Leonardo lo voleva? Non faccio nomi”.

Matuidi aveva ventiquattro anni in un calcio in cui a venti devi aver già mostrato le tue carte migliori, da capitano del Saint-Etienne era arrivato fino alla Nazionale, ma anche in quel caso tra lo scetticismo di molti: “Quando l'ho convocato per la prima volta mi hanno riso in faccia”, ricorda Laurent Blanc, in quel periodo, appunto, allenatore della Nazionale.

In un video del PSG risalente ai primi mesi di Matuidi, lo vediamo arrivare nello spogliatoio e salutare Kevin Gameiro. “Oh là laà, come te la comandi!”, gli dice Gameiro. “Sei geloso?” risponde lui. “Sì... su di me non le fanno queste cose”. Matuidi parla pochissimo e saluta tutti, la sola sbavatura all'immagine pulitissima che lo contraddistingue ancora oggi è un orecchino. Chi ha montato il video ha pensato che il sottofondo musicale giusto per un un giocatore come Matuidi fosse “Changes”, la canzone postuma di Tupac Shakur.

Quante cose sono cambiate da quell'inverno 2011 a oggi? Matuidi, capitano, segna il gol vittoria con la maglia della Francia in amichevole con l'Olanda. Lui, mancino, con il numero 14 scelto “per caso”, nella partita giocata il giorno dopo la morte di Johan Cruyff. E se tecnicamente metterli vicini è blasfemo, è vero anche che giocatori come Matuidi, più abili con lo spazio che con la palla, non sarebbero mai esistiti senza Cruyff.

In quello stesso video, racconta di essersi infortunato facendo un colpo di tacco: “Così imparo a fare solo quello che so fare, recuperare palla e passarla semplicemente”. Un suo amico, invece, racconta di quando Blaise ha dimenticato di mettere il freno a mano e la sua prima macchina è finita in un canale. Lui si difende: “L'importante è non essere distratto in campo”.

Blaise Matuidi è al tempo stesso timido e carismatico, anche in quel periodo all'inizio in cui la timidezza sembra prevalere sul carisma. Chi lo accompagnava al campo in macchina quando aveva quindici anni lo ricorda “molto maturo per la sua età”. Un suo ex compagno di squadra a Saint-Etienne dice che “ha un lato innocente, come i bambini”, ma anche che “è il tipo di giocatore con cui andresti in guerra. Pronto a battersi, sempre presente”.

Ci vuole maturità per bruciare le tappe senza doti tecniche eccezionali e un fisico in apparenza fragile (un metro e settantacinque per una settantina di chili). Per esordire a diciassette anni nel Troyes e diventare capitano del Saint-Etienne a ventuno. Ci vuole qualcosa di più, però, per presentarsi spontaneamente nell'ufficio di Carlo Ancelotti poco dopo che ha preso il posto di Kombouaré (dicembre 2011), in un momento in cui si diceva che Blaise Matuidi non rientrava nei suoi piani, per di più da infortunato, e fargli capire che si sarebbe conquistato il posto in squadra. Ripensandoci Matuidi dice: “Mi piace sentirmi in pericolo”, forse perché si rende conto di aver fatto una cosa eccezionale.

Un anno dopo Ancelotti gli darà la fascia di capitano per la prima volta, e parlando dei suoi progressi dirà: “Sì, sono sorpreso. Ma penso abbia sorpreso un po' tutti. Oggi è importante quanto Ibrahimovic e Thiago Silva”.

L'Olanda è una buona avversaria per Matuidi. Con questo gol si è meritato quella cosa che per Ibra più si avvicina a un endorsement. Da cui si intuisce anche lo straordinario equilibrio e la flessibilità muscolare che permettono a Matuidi di fermare la corsa sul posto senza perdere l'energia necessaria per saltare all'indietro con un'agilità da ragno. Matuidi è fatto della materia di cui sono fatte le corde delle migliori racchette da tennis.

Segno del destino

Tutti i calciatori, a posteriori, hanno una storia per esemplificare la loro predestinazione, e che più che altro ci dice quanto sia difficile per un calciatore oggi pensarsi al di fuori del calcio. Blaise Matuidi, però, è un calciatore senza superpoteri, esempio semmai di come il lavoro serva quanto se non di più del talento con cui si è nati. Quando sia lui che il padre dicono che il fratello maggiore (che curiosamente si chiama Junior) era migliore di lui si capisce che non è un vezzo; e quando Blaise insiste che ai tempi delle giovanili c'erano ragazzi più dotati di lui, ma che non avevano la sua stessa voglia di emergere, non si fa fatica a credergli: “In quel periodo ho preso coscienza dell'importanza del lavoro e ho capito che avevo la possibilità di diventare professionista. Ci ripetevano continuamente che pochi di noi ce l'avrebbero fatta, allora ho dato tutto”.

Ma, nonostante gli sia costato anni di lavoro, in cui ha anche preso decisioni difficili e astute (tipo cambiare una prima volta agente passando a Pierre Bernès, lo stesso di Blanc quando era allenatore della Nazionale, e poi cambiare di nuovo una volta arrivato al PSG passando a Mino Raiola) che lasciano intuire un carattere più complesso di quello che trapela, anche Matuidi ha un aneddoto per pensare che in realtà fosse tutto deciso a tavolino.

Eccolo l'aneddoto, raccontato dal padre. Quando Blaise era piccolo giocava a calcio con i fratelli maggiori nel piazzale di cemento del palazzo popolare in cui abitava. Un giorno, aveva quattro anni, calcia troppo forte e colpisce un ragazzino in bici, che cade e si rompe la gamba. Arriva il padre del ragazzino ferito, un pastore evangelista “visionario”, che anziché arrabbiarsi o portare immediatamente il figlio in ospedale esclama: “Diventerà un grande calciatore!”.

Variazione sul tema. Quando la storia la racconta Blaise non c'è nessun pastore visionario, al suo posto le sorelle che gli dicono stupite: “Insomma hai un bel tiro, eh”.

Negli anni a Saint-Etienne Matuidi segnava raramente, ma lo faceva con stile.

Storia di sopravvivenza sportiva

Arrivare nel Paris Saint-Germain (la squadra che da piccolo tifava dalla curva) all'inizio della nuova era si sarebbe potuta rivelare una scelta disastrosa, se Matuidi non avesse avuto gli strumenti necessari per salire ancora di livello: “Non avevo la reputazione degli altri, né lo stesso credito, non mi vergogno a dirlo. La mia reputazione me la sono dovuta conquistare, come gli Ibra e i Motta hanno conquistato la loro nelle squadre in cui hanno assunto questa dimensione”.

Non solo non era scontato che dopo cinque stagioni Blaise Matuidi sarebbe stato ancora un pezzo importante del puzzle del Paris Saint-Germain; ma anche chi gli avesse voluto accordare il massimo della fiducia non avrebbe potuto indovinare la sua futura evoluzione.

Oggi Matuidi è cresciuto al punto che Nike ha scelto lui e la sua storia per la campagna "The Spark Brilliance / Fais Briller le Jeu", con cui ha lanciato la maglia della Francia per il prossimo Europeo. Che tra l'altro è stupenda.

Jean-Marc Furlan, che lo ha preso dal centro di formazione statale di Clairefontaine e lo ha portato a Troyes, dice: “Quando hai un giocatore così vorresti averne venti o venticinque”. Ma il Matuidi che ha conosciuto lui, come quello di Saint-Etienne, era un giocatore molto diverso da quello che è diventato nelle ultime cinque stagioni.

Prima di tornare a Parigi, Matuidi abbandonava raramente il centro del campo e, nonostante il paragone flatteur, lusinghiero, con il mito di Jean Tigana (icona di forza ed eleganza per tutti i centrocampisti francesi di origine africana) o quello con Claude Makelele (che per lo stesso Matuidi aveva maggiore visione di gioco e capacità distruttiva) la sua tecnica di base non gli avrebbe mai permesso di giocare ad alto livello davanti alla difesa.

Per Matuidi l'arrivo di Ancelotti è stato fondamentale per uscire dal ruolo del giocatore grintoso e aggressivo, beniamino dei tifosi ma limitato. Per conquistarsi il posto non gli è bastata la forza di volontà, ma c'è voluta l'elasticità mentale, oltre a quella fisica (la sua unica, grande, dote naturale), necessaria per spingersi in territori sconosciuti. Letteralmente.

Nel 4-4-2 del secondo anno di Ancelotti (l'unica stagione intera a sua disposizione), al centro del campo vicino a un giocatore più di possesso e conservativo (Thiago Motta, Verratti, o addirittura Beckham), Matuidi ha iniziato a proiettarsi in avanti con frequenza, sia in pressione quando la palla ce l'avevano gli avversari, che per partecipare all'azione d'attacco una volta recuperata. Per sopravvivere in una squadra che faceva possesso nella maggior parte delle partite, Matuidi doveva variare il suo gioco per non farne emergere i limiti. E gli effetti sono stati praticamente immediati.

Stagione 2012/13, la prima Champions League giocata da Matuidi, che fino a due anni prima lottava per restare a metà classifica con il Saint-Etienne. Matuidi difende la zona equidistante da avversari e compagni aspettando che la palla entri nel suo raggio d'azione. Quando intuisce il passaggio scatta in avanti e taglia la linea in estensione, poi continua a correre ricevendo la palla di ritorno da Lavezzi e passandola a Ibra appena possibile. Completa l'azione d'attacco con una sovrapposizione esterna che non sembra la soluzione migliore, ma che lo porta a effettuare un cross pericoloso. Più tardi, nei minuti di recupero, si toglierà anche la soddisfazione di segnare il 2-2. Il ritorno a Barcellona lo ha saltato per squalifica.

Per sua natura, Matuidi è più a suo agio quando la palla ce l'hanno gli avversari. Rispetto a quando deve controllarla sotto pressione (in quei casi sembra quasi un difensore) o portarla per lunghi tratti. Detto che la sua tecnica è più che sufficiente affinché una grande parte del suo gioco con la palla consista nell'offrire sponde ai compagni in giro per il campo, o nell'abbassarsi e distribuire palloni facili quando ha tempo e spazio sufficiente, Matuidi ha imparato a compensare i limiti tecnici che lo renderebbero inadatto a un gioco di posizione puro con una lettura dello spazio che se non è perfetta, quanto meno è instancabile.

Gli 8 gol segnati nella stagione 2012/13, che ha regalato la Ligue 1 al PSG dopo diciannove anni di attesa, sono ancora il record da battere e, per quel che valgono queste cose, è stato votato dagli altri giocatori del campionato nella formazione tipo di Ligue 1 e come sportivo francese dell'anno per GQ.

Probabilmente non è passata inosservata l'importanza di Matuidi nel centrocampo a quattro di Ancelotti, che in fase offensiva diventava a tre anche grazie al suo dinamismo. Uno dei due esterni stringeva in mezzo al campo, mentre l'altro si alzava sulla linea degli attaccanti (si spiegano così anche dei centrocampi che a leggerli oggi sembrano assurdi, tipo quello schierato contro il Barça con Pastore e Lucas sugli esterni e Beckham al centro), Matuidi dava equilibrio alla struttura con la sua solidità centrale e la capacità di recuperare palla difendendo sia in avanti che in recupero.

Un esempio, da quella stagione, di come Blaise Matuidi può lasciare spazio alle sue spalle con la quasi sicurezza di recuperarlo. Ovviamente con un avversario fenomenale nel controllo e nella protezione del pallone (es. Iniesta) la sua aggressività si trasforma in una debolezza, e se non riesce a controllarsi diventa falloso.

La sua capacità di coprire grandi porzioni di campo è utilissima anche in fase offensiva, ma il suo è un talento soprattutto difensivo. Un istinto verticale esaltato da quel dinamismo mostruoso con cui può salire in pressione e subito dopo recuperare prendendo contatto con l'uomo; o al contrario, recuperare palla e proiettarsi in attacco, sempre con una rapidità eccezionale. La capacità aerobica che gli permette di ripetere gli sforzi in successione e il senso dell'anticipo rendono Matuidi un difensore originale: più che entrare in contrasto approfitta del fatto che il suo avversario sta correndo con la palla per infilare la gamba in quei fotogrammi in cui l'avversario non è più in contatto con la palla. Lo fa senza paura e con prepotenza, anche a costo di diventare pericoloso.

El Gráfico lo ha definito un Don Chisciotte “che non dà nessun pallone per perso” e uno dei suoi soprannomi più divertenti tra quelli che gli sono stati affibbiati è “Chewing-gum”, per come resta appiccicato alle suole degli avversari. Lui preferisce ovviamente “Marathon Man”, perché evidenzia il suo impegno.

“I miei avversari devono capire che sarà uno strazio avermi alle calcagna”, dice lui. E a giudicare da cose come la testata ricevuta da Sessegnon o gli insulti di Rolland Courbis (che con grande calma, dopo una brutta entrata a bordo campo, gli ha detto: “Sei un figlio di puttana, Blaise”) è un concetto che i suoi avversari non faticano a interiorizzare.

Della parte nascosta del carattere di Blaise Matuidi, invece, emergono solo pochissimi segni: le prese in giro ai tifosi nemici del Marsiglia, l'altra testata presa in campo, dal compagno di squadra Dimitri Payet, dopo un rimprovero di troppo, che Matuidi con la solita diplomazia ha archiviato come “mancanza di maturità”.

L'azione del primo gol del PSG contro il Chelsea, nei quarti di finale della Champions League 2013/14, comincia con un recupero di Matuidi e finisce con un suo cross che procura a Lavezzi l'occasione di tirare.

Educazione realista

Sesto ed ultimo figlio di padre angolano e madre congolese fuggiti dalla guerra civile (il padre ha trovato lavoro in Francia come guardiano notturno di un Supermercato), Blaise Matuidi è nato con un rene dilatato. Una condizione che causa il ristagno dell'urina, dolori che si accentuano nella posizione eretta, possibili coliche e infezioni, e nei casi peggiori il rene può perdere la sua funzione.

Matuidi ha avuto i primi sintomi quando aveva cinque anni, e quelli più gravi intorno ai dodici. “Le abbiamo provate tutte, mia madre era preoccupatissima”, ha ricordato pochi mesi fa all'Equipe Magazine. “Voleva solo guardarmi giocare a calcio con i miei amici sotto al palazzo. All'epoca non si parlava di diventare calciatore professionista, ma solo di divertirsi giocando. E invece mi vedeva in un letto d'ospedale.”

Poi, quando i medici hanno trovato la soluzione, Blaise è entrato nella scuola calcio della Federazione Francese di Clairefontaine abbandonando la famiglia e un anno dopo, da sedicenne, ha firmato il suo primo contratto con il Troyes. Con cui, come detto, ha esordito non ancora maggiorenne.

Mamadou Sakho, parigino anche lui, con una storia familiare ancora più difficile (ha perso il padre da giovane e per sostenere i sette fratelli e sorelle doveva diventare professionista a tutti i costi) dice che Matuidi può essere fiero di se stesso, perché “nessuno gli ha regalato niente”.

Non sono molti i calciatori ad avere una storia e una carriera così aderenti alla più classica narrativa sportiva motivazionale. Le parole di Matuidi hanno un peso diverso per questo. “Le critiche fanno parte del mestiere. Ma la gente non tiene sempre conto dei sacrifici che facciamo... Ho lasciato casa a 13 anni... Il giorno che è nata mia figlia ero con la Nazionale, con mia moglie ancora in ospedale”.

Lo “Charo” del titolo viene da una canzone del rapper Niska a lui dedicata. L'esultanza che si vede all'inizio di questo video (e che Matuidi ha replicato anche lo scorso venerdì contro l'Olanda) è tratta dal video della canzone. “Charo” è il diminutivo di “charognard”, avvoltoio, perché Matuidi è un osso duro e ce l'ha fatta da solo. La Francia di Matuidi, a cui parla Matuidi, è anche questa.

Durante la sua prima partita da professionista gli sono venuti i crampi dopo un'ora di gioco. L'adrenalina è così dura da smaltire che quando gioca di sera non riesce ad addormentarsi prima delle cinque, e sembra un problema serio se già ai tempi di Troyes e Saint-Etienne ha dovuto consultare degli specialisti. Si infortunava spesso, all'inizio, e per un calciatore del suo tipo la paura di un infortunio muscolare deve essere equivalente a quella, per un uomo comune, di perdere un piede in un incidente. Da giocatori come Ibra e Maxwell, ha imparato non solo ad allenarsi ma anche a mangiare e a recuperare bene: “C'è tutta una parte di lavoro invisibile e essenziale”. La notte quando non dorme gioca alla Play e adesso alla fine di ogni allenamento fa un'ora di allungamenti e poi, dopo mangiato, dorme. “Il riposo fa parte del lavoro”, dice, anche perché il suo lavoro è davvero, fisicamente, logorante. Ma anche in questo caso l'esperienza ha plasmato la mentalità di Matuidi, che non si lamenta mai: “Vedo che i miei compagni che giocano meno sono delusi. Mancherei loro di rispetto se mi lamentassi. Io ho la fortuna di giocare, per cui penso: Blaise chiudi il becco anche se sei stanco!”.

Sembra quasi un super-io artificiale, da ghost-writer (si è presentato a un'intervista con la biografia di Ibrahimovic in mano), ma la vita in campo di Matuidi è la manifestazione visibile di pensieri di questo tipo. Anzi, la sua vita in campo non sarebbe possibile senza una perfetta igiene mentale. Quello che non bisogna dimenticare, quando si pensa ai sacrifici di Matuidi, è quanto intensamente ha voluto questo tipo di vita.

La fiducia con cui Blaise si propone in avanti ogni volta ha qualcosa di miracoloso. Prende traiettorie larghe per non arrivare in area troppo presto, spesso sceglie il lato debole senza leggere in maniera particolarmente brillante l'azione, eppure non rinuncia mai ad attaccare con uguale convinzione. Qui (contro il Barcellona nei gironi dell'edizione 2013/14 della Champions) galleggia nella zona della palla durante il lungo possesso del PSG e quando parte il passaggio in verticale per Van der Wiel scatta alle spalle di Cavani, come una seconda punta.

La difesa è il miglior attacco

“Dico spesso che in campo sono un operaio. È un bel ruolo: senza di noi non ci potrebbero essere gli artisti. E viceversa. In alcuni momenti, con un po' di fortuna, mi sono trasformato in artista, ma è raro”. Anche se i gol non sono la misura migliore dell'influenza di Matuidi sul gioco di squadra, è interessante notare che prima di arrivare al PSG ne aveva segnati solo 7 in 223 partite, mentre nelle 231 giocate fin qui con la maglia della squadra che tifava da piccolo ne ha segnati 24.

La sua incisività offensiva è cresciuta al punto che le sue migliori partite sono quelle in cui trova anche il gol. Un'evoluzione inversa rispetto a quella fatta nelle giovanili, che in un certo senso la completa: “Da piccolo ero attaccante, solo che tornavo troppo, volevo difendere, volevo fare tutto. Anche quando sono arrivato a Clairefontaine giocavo ala sinistra. Ma quando si trattava di coprire per salvare un'azione lo facevo volentieri. Al terzo anno a Clairefontaine il mio allenatore Jean-Claude Lafargue mi ha detto: Blaise, lo vedi come sei fatto, non puoi continuare a fare l'ala. Il tuo gioco ha molto volume, sei un giocatore di squadra. Secondo me il ruolo ideale per te è davanti alla difesa. Credo che potresti fare carriera lì”.

La sua fortuna dipende anche dal fatto che Laurent Blanc ha continuato a lavorare nel solco tracciato da Ancelotti. In una squadra che tiene molto palla nella trequarti avversaria, il suo lavoro equivale a quello di due giocatori. Matuidi è il perno sui cui si tiene in equilibrio il campo: se va in avanti si gioca in discesa verso la porta avversaria e al tempo stesso correndo all'indietro impedisce che la squadra si spezzi in due. Molto dell'equilibrio di squadra dipende dalla sua capacità di scegliere (pensando già alla difesa mentre sta ancora attaccando) quando schiacciarsi sulla linea degli attaccanti e quando aspettare rimanendo più basso.

A Blanc va dato anche il merito di aver indovinato dopo poche settimane il centrocampo Matuidi-Motta-Verratti (che per Blaise è il calciatore più talentuoso con cui abbia giocato). I tre si completano a vicenda e il Paris Saint-Germain ha alzato il baricentro del proprio gioco di qualche decina di metri. Anche Deschamps in Nazionale ha scelto spesso un centrocampo di questo tipo, con Cabaye (o Schneiderlein) e Pogba: un giocatore di possesso, uno creativo, e Blaise Matuidi.

Amichevole del 2012. “È la partita migliore della tua carriera?” gli chiedono alla fine. “Sì, la più bella finora”. Aveva saltato gli Europei di quell'estate per infortunio, e da allora Matuidi sarebbe diventato un punto fisso della Nazionale.

“Sul piano tattico ha sempre avuto sete di conoscenza”, dice Bafétimbi Gomis, suo amico dai tempi di Saint-Etienne. Aggiungendo che la sua pericolosità è aumentata perché oggi si ritrova a recuperare palla in zone di campo più avanzate rispetto a prima.

Inoltre nelle ultime stagioni, mano a mano che il divario tra PSG e il resto del campionato francese aumentava, Matuidi ha dovuto per forza di cose abituarsi a giocare nella trequarti avversaria. Ed è importante tenere presente che la maggior parte degli attacchi a cui partecipa non sono transizioni, in cui darebbe il meglio del suo gioco offensivo.

Matuidi è l'olio che scorre tra gli ingranaggi di una delle squadre più di possesso del calcio europeo di questi anni. La sua capacità di inserimento e il suo tempismo non sono tra i migliori, anche se lui dice che ultimamente intuisce meglio le sue opportunità. Così come il suo primo controllo non gli permette di piazzarsi stabilmente tra le linee e far uscire un difensore dalla linea (anche se è migliorato notevolmente nel gioco di sponda spalle alle porta). Per esprimersi al meglio ha bisogno di correre fronte alla porta, di bucare la linea difensiva in verticale: con il gioco del PSG a volte deve aspettare il momento giusto per interi minuti.

Ma la seconda natura di Blaise Matuidi, quella offensiva, non è interamente inscrivibile all'interno di codici tattici. Se lo guardate attentamente lungo tutto l'arco di una partita vi accorgerete che quando la sua squadra ha la palla non sta mai fermo, sembra un pesce che si muove seguendo le irregolarità di una scogliera.

Una delle sue migliori partite nella prima stagione di Blanc (2013/14) è quella contro il Bayer Leverkusen in cui Matuidi ha anche segnato. Si vede bene il momento in cui, con la coda dell'occhio, percepisce lo spazio in cui infilarsi, dopo aver girato la testa per vedere dove era finita la palla. Una pausa minuscola all'interno di un movimento fluido senza soluzione di continuità, successivo a un pallone recuperato alto in pressing.

“Io vedevo un giocatore che migliorava a vista d'occhio, e a un certo punto ho pensato avesse finito di migliorare. Invece no, sta continuando. È un giocatore fantastico, soprattutto ha grande cuore” ha detto Ancelotti tempo dopo aver lasciato Parigi. Si dice abbia provato a portarlo con sé a Madrid, e di questo genere di cose non c'è quasi mai certezza, ma Blaise Matuidi può dedurre la fiducia dei suoi allenatori dal fatto che dalla stagione 2012/13 ha giocato più di cinquanta partite a stagione (per la precisione: 52, 53, 53).

In quella in corso è sceso in campo già quaranta volte, quest'estate ci sarà l'Europeo. Nel calcio ci sono sempre novità (Kantè? Di Maria mezzala?) ma il vero limite di Matuidi è la tenuta atletica, che non potrà restare sempre a questi livelli (e già adesso viene criticato quando è leggermente meno in forma del solito).

Sembra paradossale che un calciatore così umile, un “operaio”, sia in realtà l'eccezione irregolare all'interno di meccanismi più ordinati. Se non facesse in modo che ne valga sempre la pena, si potrebbe quasi parlare di lusso. In ogni caso va ricordato che ogni volta che Blanc o Deschamps scelgono Matuidi stanno probabilmente tenendo fuori un giocatore più tecnico, più talentuoso. Nella carriera di Matuidi è sempre stato così, e non è certo l'unico giocatore difensivo della storia ad avere un ruolo fondamentale in una formazione offensiva. Più si sale di livello, però, più Matuidi è chiamato a giocare da trequartista, più diventa una cosa eccezionale.

Il guadagno reciproco è evidente. Pochi giocatori sanno pressare con la stessa efficacia in zone profonde di campo, anche occupando posizioni intermedie tra due avversari, ma dal suo punto di vista Matuidi sembra rendersi conto dell'opportunità unica per un giocatore come lui di essere capitato in un contesto del genere: “Al PSG ho avuto la fortuna di lavorare con allenatori che hanno accresciuto il mio gioco, che hanno guardato le mie qualità con un occhio nuovo e hanno visto che non si limitavano al recupero del pallone. Hanno visto il mio spirito di sacrificio, l'energia con cui mi butto in avanti. E io stesso ho scoperto di avere qualità che non conoscevo”.

La crescita di Matuidi ha come punto di arrivo simbolico il premio di France Football di miglior giocatore francese del 2015. Prima di Griezmann e, sopratutto, Pogba.

Questo è uno dei due gol (nella vittoria per 2-1 contro la Serbia) con cui si è guadagnato la prima pagina dell'Equipe con il titolo “Le Phénomène”. Lui ha commentato a caldo: “La prossima volta magari finisce in tribuna. Resto un giocatore di squadra, non abituatevi. Poi se posso aiutare diventando decisivo e segnando dei gol tanto meglio. Anche se in realtà non è la prima volta che segna gol del genere".

La vita fuori dal campo

Nelle pieghe della sua vita da calciatore professionista, quando cioè la sua vita fuori dal campo non è descritta in funzione di quella in campo, Matuidi sembra anche un tipo simpatico. Da giovane era appassionato di ping-pong (al punto che ringrazia il padre per tutte quelle volte in cui lo ha lasciato parlare di ping-pong anche se non gli interessava), con gli amici gioca a bowling e va sui go-kart. Si dispiace di non poter più andare alle giostre del quartiere con le figlie, ora che è famoso, o al cinema alla Défense insieme alla moglie, con la tranquillità di una volta (“Non è che Blaise si maschera, ma si tira su il cappuccio, guardiamo per terra e camminiamo veloce”, dice la moglie). Pensa che la moda sia una forma d'arte come la musica e in giardino ha un barbecue circondato da poltrone: “Per noi africani viene prima di tutto la gioia di vivere, la felicità di avere gente a casa. I miei genitori hanno ospitato molte persone in difficoltà, che dividevano il nostro stesso appartamento. Sono cresciuto con molti cugini e cugine. Li chiamavamo così”.

Non è ancora chiaro se Matuidi voglia esplorare le sue doti di leader naturale come ha fatto con quelle di calciatore. “Oggi i miei compagni mi chiedono di prendere parola nello spogliatoio”, ha detto proprio a France Football al momento di ricevere il premio. “Anche se non è la mia qualità migliore e preferisco esprimermi in campo, sono onorato e non mi tiro indietro”.

Ha creato una fondazione per il reinserimento dei giovani attraverso lo sport con base a Kinshasha (dove i suoi genitori hanno fatto tappa prima di raggiungere l'Europa) ed è padrino di un'altra fondazione a Fontanay, la cittadina alla periferia di Parigi in cui è cresciuto. La scorsa estate ha accompagnato il Presidente della Repubblica Francese in un viaggio breve in Angola, Benin e Mali, su sua richiesta. Quando gli hanno domandato se si sentiva particolarmente vicino a François Hollande ha risposto che preferiva “non scendere in questo tipo di dettagli”, come un vero politico.

Il valore simbolico di Matuidi non va sottovalutato nel contesto schizofrenico dell'opinione pubblica francese, schiacciata tra il Mondiale del '98 come simbolo universale di integrazione e della identità “mista” francese, e il desiderio in alcuni casi inconscio, in altri abbastanza consapevole, di distruggere il mito di quel Mondiale proprio per quello che simbolizza.

Va detto che il pregiudizio francese nei confronti dei calciatori è stato quanto meno alimentato dalla lungaserie di problemimediatici e disciplinari (quando non legali, tipo Ribery e Benzema) che dal 2006 in poi hanno reso sempre più difficile ricomporre l'immagine di una Nazionale di cui il pubblico potesse andare fiero. Lo stereotipo del calciatore viziato e maleducato si è sovrapposto a quello del giovane di periferia, con origini in un Paese delle ex-colonie e di religione musulmana (uno stereotipo ormai vecchio di almeno vent'anni, che ha preso una sfumatura ancora più oscura con la recente radicalizzazione dei giovani banlieusard).

Blaise Matuidi con la sua etica del lavoro, i sacrifici e i miglioramenti, l'impegno innegabile che mette in campo e le parole sempre misurate in pubblico, è la negazione stessa di uno stereotipo di quel tipo. L'Angola non è neanche una ex-colonia francese e, sempre a proposito di stereotipi, Matuidi è cristiano evangelista ed è stato battezzato da un ex-compagno di squadra al PSG: Marcos Ceará, terzino brasiliano e pastore evangelico.

Nell'enciclopedia Larousse, alla voce “Blaise Matuidi” dovrebbe esserci: Francese, africano, difensore, attaccante.

Recentemente, in un'intervista forse anche troppo rilassata (in tuta, sbragato su un divanetto che avrebbe richiesto una postura esemplare e invece lo fa sembrare ancora più coatto) Matuidi ha parlato degli attacchi di Parigi. C'erano anche Raphael Varane e Mamadou Sakho, loro hanno usato il minor numero possibile di parole mentre Matuidi si è fatto ancora più intenso. Parlando del momento tra la partita con la Germania (la notte degli attentati) e quella con l'Inghilterra di pochi giorni dopo ha detto: “Eravamo lontani dalle nostre famiglie. Eravamo, va detto, isolati. Si deve continuare a vivere, è quello che abbiamo provato a fare, avevamo una partita da giocare e ci abbiamo provato anche se non avevamo la testa per giocare. Ma dovevamo rappresentare il Paese. In ogni caso lo abbiamo fatto con tutto il cuore, con grande emozione, anche se è stato davvero difficile”.

Matuidi ha interiorizzato il suo ruolo pubblico ed è chiuso quanto la situazione lo richiede. La sua è vera umiltà ma è anche il pragmatismo dei personaggi di Balzac che non muovono un dito senza tenere conto della propria posizione nel Risiko sociale. Da una parte sarebbe un peccato se quell'ambizione che lo ha spinto a farsi strada in un mondo iper-competitivo, con dei mezzi che da soli non lo avrebbero portato al livello in cui è ora, servisse solo alla sua riuscita personale; dall'altra lo stesso Zidane non ha saputo che farsene della popolarità successiva al Mondiale del '98 (quando il pubblico sugli Champs Élysées gli chiedeva in coro di fare il Presidente della Repubblica). Il punto è che i giocatori come Matuidi raramente arrivano al livello di fama e carisma a cui è lui oggi in Francia, e se alcuni calciatori sono effettivamente dei coatti viziati, magari anche scemi, quelli che hanno davvero qualcosa da dire forse hanno la responsabilità di parlare a voce più alta.

Il rischio opposto è che Matuidi, anziché rappresentare tutti quei francesi delle periferie che lavorano duro, stigmatizzati insieme a quelli che fanno casino (e che tra i pochi futuri possibili hanno quello di diventare calciatore, si spiega così anche perché molti calciatori francesi siano dei casinisti), finisca per confermare come eccezione lo stereotipo di cui sopra.

“Blaise non cambierà mai...” ha detto la moglie. “Quando l'ho conosciuto a Troyes non era professionista e c'era un altro Blaise in squadra. Per distinguerli lo chiamavano Petit Blaise. Di recente ha incontrato un vecchio compagno Benjaman Nivet che gli ha detto: Ormai sei diventato un Grande Blaise. Ma lui è lo stesso di prima”.

E se il vero Blaise Matuidi fosse sempre stato grande?

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