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Chi è causa del suo mal
14 feb 2018
Come Isaiah Thomas ha distrutto il suo rapporto con i Cleveland Cavaliers e cosa lo attende quest’estate sul mercato.
(articolo)
15 min
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Il leggendario allenatore Butch van Breda Kolff sosteneva che il più grande pregio di un uomo fosse anche il suo più grande difetto. Io non so se questa cosa sia vera, ma so che quella frase è la prima cosa che mi è venuta in mente cercando di capire come ha fatto Isaiah Thomas nel giro di neanche nove mesi a passare dal rango di candidato MVP al ruolo di semplice contratto in scadenza da inserire in uno scambio — venendo scaricato prima dai Boston Celtics e poi dai Cleveland Cavaliers agli attuali Los Angeles Lakers.

Fermandosi un attimo, di motivazioni che vanno al di là di quanto in suo potere ce ne sono tantissime. In primis il grave infortunio all’anca subito quasi un anno fa e sul quale ha continuato a giocare stringendo i denti, aggravandolo di nuovo nel corso dei playoff dello scorso anno e portandolo ad affrontare una lunga e molto chiacchierata riabilitazione. Poi, non meno importante, la morte della sorella Chyna, arrivata quando i suddetti playoff erano solamente all’inizio, costringendolo a fare i conti con il suo lutto davanti alle telecamere — non proprio elegantissime — del mondo intero puntate su di lui. Infine la cessione da parte dei Boston Celtics — una franchigia che lui amava e dalla quale pensava di essere ricambiato — deve aver lasciato un vuoto enorme nel suo cuore, mettendo in subbuglio tutto il resto della sua vita proprio quando pensava di aver finalmente trovato la sua casa per il resto della carriera.

Mettendo assieme tutti questi eventi traumatici dell’ultimo anno e aggiungendoci la sua storia personale — quella di uno degli underdog più di successo nella storia dello sport americano, partito dalla numero 60 al Draft e arrivando in top-5 alle votazioni per l’MVP — è inevitabile che si finisca per simpatizzare per questo giovane uomo di un metro e sessanta che prova a sopravvivere in una lega professionistica di superuomini. Isaiah Thomas non sarebbe dove è ora e non avrebbe fatto quello che ha fatto se non avesse una personalità enorme per sopperire ai limiti del suo fisico e questa storia di riscatto personale inevitabilmente attrae le persone, specialmente in una squadra come i Celtics e in una città come Boston che ha tifosi letteralmente ovunque nel mondo.

Questi però sono esattamente i pregi che gli si sono ritorti contro nella sua terribile avventura con i Cleveland Cavaliers. Thomas, per sua stessa ammissione, non è uno che può vivere la sua vita o giocare la sua pallacanestro come se fosse “uno come tutti gli altri”, ma deve necessariamente avere i riflettori puntati su di sé e sentirsi totalmente investito di responsabilità. Usando le sue parole: “I don’t fit in, I stand out”. Questo suo atteggiamento lo ha portato dove lo ha portato, ma ha anche causato il suo addio alla squadra di LeBron James e ha macchiato probabilmente per sempre il suo futuro, con degli effetti sulla sua imminente free agency che non promettono niente di buono per uno che fino a poco tempo fa parlava apertamente della “vagonata di soldi” che si sarebbe aspettato una volta scaduto il suo contratto.

Fare i conti col fuoco di Isaiah

Nella scorsa stagione con i Boston Celtics, Isaiah Thomas ha vissuto il più classico dei “career year”, non solo segnando quasi 29 punti a partita (la più alta in maglia biancoverde dai tempi di Larry Bird), ma facendolo anche con un’efficienza di assoluta élite (62% di percentuale reale). L’incredibile successo avuto nei quarti quarti lo ha portato a essere soprannominato “The King in the Fourth” e le partite dei Celtics seguivano quasi sempre lo stesso spartito: difesa arcigna nei primi tre quarti per “tenere il risultato”, quindi palla ad Isaiah nell’ultimo periodo per portare a casa la vittoria.Uno schema che ha funzionato tanto a livello di squadra (primo posto in regular season nella Eastern Conference) quanto soprattutto a livello personale, facendolo diventare uno dei volti di riferimento dell’intera NBA.

Il suo career-high da 52 punti, di cui 29 nell’ultimo quarto, è stato uno dei momenti più incredibili della scorsa stagione.

Anche in una stagione “da favola” per lui e per la squadra, c’erano però certe avvisaglie che facevano intuire quanto il fuoco che arde dentro ad Isaiah e che gli permette di giocare in quella maniera possa ritorcersi contro di lui. Perché, come ha detto l’Hall of Famer Jackie MacMullan in un recente podcast di ESPN: “Quando le cose vanno bene, Isaiah è il migliore. Ma quando vanno male, non c’è nessuno peggio di lui”. Un atteggiamento che si è visto bene in uno dei rari momenti di difficoltà della scorsa stagione, una mini-striscia di due sconfitte in trasferta che lo portò a criticare nientemeno che Brad Stevens, vale a dire l’allenatore a cui doveva (e deve) praticamente tutto, dicendo che i Celtics “non potevano fare esperimenti alla 63esima partita stagionale”. Una dichiarazione che portò ad un immediato chiarimento con Danny Ainge e alle susseguenti parole del GM che lo esortavano senza girarci troppo intorno a diventare un leader migliore. Se questo è il modo in cui si è espresso in pubblico, possiamo solo immaginare quante altre volte si sia rivelato insostenibile in privato. E questo, è bene ricordare, era Isaiah al massimo del suo splendore e della sua felicità.

Sentirsi MVP senza essere MVP

Thomas al tempo poteva permettersi di dire più o meno quello che voleva, dando libero sfogo a tutti i suoi pensieri e alla sua debordante personalità perché il rendimento in campo andava ben oltre ogni ragionevole dubbio su di lui. Il problema che ha determinato il suo fallimento a Cleveland è da ricercare però nel fatto che Thomas non si è reso conto che il contesto dentro e fuori da sé era drammaticamente cambiato rispetto a quello di Boston. Thomas ha continuato a parlare e a comportarsi come se fosse il candidato MVP dell’anno precedente — ad esempio sostenendo di aver “fatto il culo a tutte le point guard della lega” nel 2016-17 — senza realizzare che la realtà era drammaticamente diversa rispetto a quella che si sviluppava nella sua testa o nella sua narrazione verso l’esterno.

Ma fino a quando quelle dichiarazioni venivano fatte in fase di riabilitazione, erano tutto sommato tollerate: Thomas aveva già dimostrato di poter giocare ad altissimo livello e nessuno — nonostante i tantissimi dubbi che circolavano sulle condizioni della sua anca — poteva realmente sostenere che non potesse più farlo prima di rivederlo effettivamente in campo. Forte di questo credito acquisito, Thomas ha continuato a parlare con chiunque fosse disposto ad ascoltarlo promettendo la luna al momento del suo (a quel punto attesissimo) rientro, sicuro come non mai che si sarebbe preso una rivincita contro tutti quelli che avevano dubitato di lui e che avrebbe finito per guadagnarsi la “vagonata di soldi” che ovviamente pensava di meritare. Poi però il debutto è arrivato, e le 15 partite disputate con la maglia dei Cavs sono state le peggiori della sua carriera.

Un disastro ambulante

Come avevamo già avuto modo di scrivere qualche mese fa, tra novembre e dicembre i Cleveland Cavaliers avevano trovato una loro chimica di squadra che li aveva portati a vincere 18 partite su 19, raddrizzando un inizio di stagione non proprio esaltante. L’equilibrio trovato con quella strutturazione con José Calderon titolare però non poteva essere sostenibile sul lungo periodo, in primis perché Thomas non avrebbe mai accettato di uscire dalla panchina prima di tutto per una questione di status acquisito, prima ancora per l’incompatibilità tecnico-tattica-caratteriale con Dwyane Wade. Come il suo idolo Allen Iverson, uno come Isaiah Thomas non fa la riserva di nessuno — non dopo un anno da secondo quintetto All-NBA.

Dopo una prima partita incoraggiante contro Portland, Thomas è stato inserito in quintetto e quasi immediatamente ha avuto un effetto disastroso sui precari equilibri raggiunti dai Cavs in sua assenza. Complice anche un periodo di down fisico ed emotivo di LeBron James, che aveva giocato la prima parte di stagione a livelli irreali, i Cavaliers sono collassati su loro stessi senza capire nemmeno dove cominciare a fare i conti con tutte le problematiche che la presenza di uno come Thomas provoca tanto in difesa quanto (sorprendentemente, ma solo fino a un certo punto) in attacco. Di fatto, dopo poco tempo a nessuno degli altri quattro giocatori interessava più di tanto coprirgli le spalle e dargli una mano, lasciandolo solo a farsi massacrare da qualsiasi point guard lo puntasse e concedendo un’emorragia di punti agli avversari in maniera oggettivamente rivoltante. In rapida successione i Cavs hanno visto Elfrid Payton (20 punti), Fred VanVleet (22), Steph Curry (23), di nuovo Payton (19), Russell Westbrook (23+20 assist), Dejounte Murray (19), Darren Collison (19), Ish Smith (19), Goran Dragic (18), Chris Paul (22) e Jeff Teague (14+15 assist) passare sopra a Thomas senza alcun ritegno. Il Net Rating di -15.0 è il peggiore di qualsiasi giocatore che abbia mai giocato almeno 200 minuti con LeBron James, nonché il peggiore di chiunque abbia giocato almeno 25 minuti negli ultimi 25 anni.

Alcuni dei peggiori momenti di Thomas in maglia Cavs.

Che Thomas fosse un giocatore condizionante in difesa però lo si sapeva già dai tempi di Boston, dove solo il super sistema pensato da Brad Stevens e la presenza di ottimi difensori sia perimetrali (Marcus Smart e Avery Bradley) che nella secondaria (Al Horford e Jae Crowder) riusciva a sopperirne le mancanze — pur concedendo comunque un sacco di punti agli avversari con lui in campo. A Cleveland un reale sistema difensivo, specialmente nella regular season, non c’è mai stato, basandosi principalmente sulla capacità di ognuno di “fare il proprio lavoro” e non pesare troppo sui compagni, al massimo alzando un po’ l’intensità solo in occasione delle grandi partite in tv nazionale. I Cavs invece sono stati messi in imbarazzo ripetutamente proprio nelle gare di cartello, dimostrandosi sempre più disfunzionali, disinteressati, disuniti e alla fine disgustati della presenza gli uni degli altri, arrivando anche a un infuocato incontro di squadra in cui Thomas ha pensato bene di puntare il dito contro uno dei pochi giocatori che poteva essergli amico in quello spogliatoio, vale a dire Kevin Love.

La loro amicizia risale ai tempi del circuito AAU in cui erano compagni di squadra, ma ciò nonostante Isaiah non è riuscito a trattenersi e ha accusato Love di aver abbandonato la squadra durante l’umiliante sconfitta con OKC, quando il numero 0 uscì dopo solo 5 minuti per un malessere che lo ha portato a saltare anche l’allenamento del giorno dopo. Non contento di aver creato quel casino (in cui anche Wade giocò un ruolo chiave, portandolo all’addio concordato per tornare a Miami), Thomas è passato a criticare più o meno qualsiasi cosa gli capitasse a tiro: i compagni che non lo aiutavano in difesa (“Nelle squadre in cui sono stato la difesa viene determinata dalle deviazioni, i recuperi, dall’essere la squadra che lavora di più in quella metà campo”), la mancanza di impegno nel buttarsi sulle palle vaganti (“Non mi ricordo nemmeno quando è stata l’ultima volta che ci siamo gettati sul parquet per recuperarne una”), gli egoismi (“Quando le cose vanno male, ognuno va per conto suo: in attacco si gioca uno-contro-uno e in difesa ognuno sta sul suo uomo”), perfino la mancanza di aggiustamenti da parte di coach Tyronn Lue, probabilmente la goccia che ha fatto traboccare il vaso. Il tutto condito da quella nostalgia dei bei tempi di Boston in cui ogni pallone passava dalle sue mani e ogni giocatore faceva il lavoro doppio pur di proteggerlo in difesa, in modo da averlo al massimo delle possibilità in attacco perché senza le sue improvvisazioni e le sue accelerazioni cavare punti da quel roster era un’impresa (difetto strutturale di cui si sta accorgendo anche Kyrie Irving).

Senza il sostegno di nessuno

Quello di cui Isaiah non si è reso conto, o ha avuto troppo orgoglio per accettarlo, è che a Cleveland ha continuato a comportarsi e a parlare come un candidato MVP pur essendo un giocatore ben al di sotto della sufficienza per la propria posizione. Lo testimoniano non solo le percentuali in picchiata (36% dal campo, 26% da tre e 41.8 di percentuale effettiva, tutti minimi in carriera), ma anche il PER di 12.4 pur prendendosi una vagonata di tiri e utilizzando il 29% dei possessi offensivi dei Cavs — meno di due punti percentuali sotto allo Usage Rate di sua maestà LeBron James.

L’unico che a Cleveland può permettersi di criticare la squadra senza rischiare di avere delle reazioni negative è proprio James, che sa essere duro con i suoi compagni ma sa quando pesare le parole, sa quando è il momento di mandare un messaggio e soprattutto ha i numeri, le prestazioni e il pedigree per dire quello che gli pare. È un discorso di “equity”, di peso che si ha su una franchigia. Isaiah Thomas lo ha fatto senza averne neanche un’unghia, e questo ha alienato praticamente tutti i suoi compagni che pure avevano fatto lo sforzo di inserirlo nello spogliatoio (nei primi mesi sembrava pure che stesse andando bene nel suo ruolo di mascotte fuori dal campo), ma che piano piano lo hanno abbandonato davanti a una selezione di tiro decisamente insostenibile e ingiustificata.

Thomas ha ovviamente risposto difendendosi, e a vederla dal suo punto di vista non ha neanche del tutto torto: “Se sono preoccupati della mia selezione di tiro, non devono avermi visto giocare negli ultimi anni. Altrimenti per quale motivo avete scambiato per prendermi? Per non tirare? Per non trovare il mio ritmo? Per non essere Isaiah Thomas? Non posso essere nessun altro se non me stesso”. Il concetto del ritmo è stato ripetuto fino alla noia da Thomas, che continuando a dire che aveva bisogno di ritrovare il suo ritmo, le sue gambe e le sue accelerazioni si sentiva in diritto di prendersi qualsiasi tiro gli passasse per le mani, senza capire che nella squadra di LeBron James c’è bisogno di altro — e che le sue prestazioni in campo non gli permettevano di giocare in quel modo. Nel momento in cui perfino i tuoi tifosi ti fischiano quando entri in campo nei quarti quarti e la squadra è costretta a chiudere i commenti su Instagram per evitare una valanga di insulti nel post per augurarti buon compleanno, allora capisci che è il momento di fare le valigie.

Quanti è costata l’avventura a Cleveland?

Ora che è a Los Angeles ad Isaiah Thomas rimane l’ultimo terzo di stagione per dimostrare di essersi lasciato alle spalle i problemi all’anca ritrovando il suo benedetto ritmo e di poter avere ancora un ruolo da recitare in NBA. Il problema però è: quale è davvero il suo ruolo?

Il debutto con la maglia dei Los Angeles Lakers.

Il fallimento della coesistenza con James ha rivelato in maniera chiara che Thomas può giocare solamente in un modo, cioè avendo il pallone tra le sue mani per “fare una giocata”. Non è un playmaker tradizionale, non è un tiratore spot-up, non è un giocatore da “piccole cose”: usando le sue stesse parole, può solo essere Isaiah Thomas. Per questo la squadra che deciderà di dargli un contratto può immaginare di poterlo sfruttare solamente in questa maniera, ma deve mettere in conto di dargli un posto in quintetto (o quantomeno 30 minuti a partita) per questioni di status e deve avere il personale difensivo per almeno cercare di sostenerlo difensivamente, pur essendo conscia di partire da una situazione di netto svantaggio.

Capire quale squadra in questo momento abbia lo spazio salariale, la voglia di impegnarsi e i possessi da dare a Thomas, però, non è facile. In un mercato in cui la maggior parte delle squadre non avrà spazio salariale e in cui uno come Lou Williams, alla miglior stagione della carriera, decide di accontentarsi di 8 milioni con un terzo anno in team option, immaginarsi il contratto al massimo salariale sognato da Thomas è totalmente irrealistico. Anche perché tra le sette squadre che hanno almeno 10 milioni di spazio o hanno altri obiettivi (come i Los Angeles Lakers e i Philadelphia 76ers), o sono troppo lontane dalla possibilità di giocarsela ai playoff (Chicago e Atlanta), o lo hanno già avuto (Phoenix) oppure hanno già un giovane su cui puntare nel suo ruolo (Dallas e Brooklyn).

A quel punto Thomas dovrebbe accontentarsi di una full mid-level exception da poco più di 8 milioni (praticamente i soldi del suo contratto attuale) oppure sperare in un accordo alla J.J. Redick, un annuale “gonfiato” per arrivare al 90% del cap da una delle squadre di cui sopra. L’alternativa è un contratto annuale con un secondo anno in player option per una squadra che possa garantirgli spazio e minuti per migliorare la propria posizione in vista della prossima free agency, ma assicurandosi allo stesso tempo un secondo anno nel caso in cui le cose andassero male dal punto di vista fisico. Ma anche facendolo e rimandando di un anno il “giorno di paga” tanto agognato, i suoi difetti strutturali — ovverosia la difesa e l’atletismo in fase di declino per un giocatore che ha appena compiuto 29 anni — non sono destinati a migliorare nel futuro, e si spera che tutte e 30 le franchigie si rendano conto di quanto un giocatore del genere possa essere condizionante per gli equilibri tecnico-tattici di una squadra al di là delle medie grezze da fantabasket di punti, rimbalzi e assist, a maggior ragione per uno con un ego ingombrante come il suo.

Tutto questo può cambiare, ovviamente, se Thomas riuscirà a fare quel bagno di umiltà che a Cleveland è fallito miseramente, mettendosi per davvero a disposizione delle squadre (anche partendo dalla panchina) e giocando per vincere piuttosto che per vincere alle condizioni che vuole Isaiah Thomas. L’esordio con i Los Angeles Lakers è stato positivo dal punto di vista individuale (22 punti e 6 assist), ma i gialloviola hanno perso in un ultimo quarto che lui ha giocato per intero. Nonostante la sconfitta, Thomas è sembrato tanto soddisfatto da togliersi immediatamente uno dei tanti sassolini nella sua scarpa e dichiarare di “aver ritrovato i miei poteri con questa squadra”, aggiungendo che “è la prima volta da quando sono tornato che posso avere il pallone tra le mani e fare una giocata”. Una chiara frecciata nei confronti di Cleveland, probabilmente non l’ultima. Ma rimane una domanda: tutte queste dichiarazioni, questo atteggiamento superbo, questo modo di fare “my way or no way” che hanno fatto le sue fortune fino a questo momento e lo hanno portato dove lo hanno portato lo scorso anno, continueranno a farlo anche nel prossimo futuro? La sua situazione contrattuale in estate probabilmente ci darà una risposta.

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