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Chi è l’MVP del 2016-17?
12 apr 2017
James, Leonard, Harden, Westbrook e la corsa più incerta di sempre.
(articolo)
23 min
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Un anno fa, per la prima volta nella storia, è stato eletto un Most Valuable Player all’unanimità. I Golden State Warriors avevano semplicemente annichilito la regular season toccando la quota record di 73 vittorie e Steph Curry, già MVP un anno prima, aveva frantumato qualunque previsione segnando oltre 400 triple in una stagione: sembrava davvero non esserci più motivo di interesse per gli anni a seguire per il trofeo di miglior giocatore.

A dodici mesi di distanza la situazione è completamente capovolta e quella che ci si presenta potrebbe essere la lotta per il trofeo più incerta di sempre. Generalmente si arriva con un manipolo di 2-3 favoriti, tra cui si ha quasi sempre uno un po’ più favorito degli altri; quest’anno invece la competizione è stata molto più aperta, con un gruppetto di quattro giocatori egualmente degni di essere premiati come giocatore di maggior valore della NBA: Russell Westbrook, James Harden, LeBron James e Kawhi Leonard. Intendiamoci fin da subito: non c’è un chiaro vincitore, esistono plurime motivazioni per preferire uno rispetto agli altri, ma mai come quest’anno sembra davvero che i singoli voti conteranno tantissimo.

Da questo regno tetrarchico rimangono fuori alcune onorevoli menzioni, tra le quali spiccano Kevin Durant e Stephen Curry, ovvero i vincitori degli ultimi tre anni. Prima dell’infortunio KD si stava esibendo in una stagione alla pari di quella dei primi quattro illustrissimi finalisti e la sfida sembrava davvero essere una corsa a cinque. Curry invece ha sofferto un inizio non proprio scintillante e la “noia” di doverlo votare per la terza volta di fila, ma quando Durant ha alzato bandiera bianca per infortunio è ritornato lo Steph Curry dei due MVP, delle triple senza giudizio e senza pietà (ha comunque registrato la seconda miglior stagione di sempre per triple segnate, dietro solo alla sua precedente). Aggiungendo pure che i Warriors sono la prima squadra nella storia a vincere più di 65 partite per tre anni di fila, sembra paradossale non considerare nemmeno un giocatore di Golden State per la lotta al vertice, eppure così è.

Questo perché i quattro di cui sopra hanno realizzato delle stagioni irreali, sbriciolando record, elevando le proprie squadre sopra le aspettative e facendoci cambiare idea sul chi fosse il migliore una dozzina di volte a settimana. Per questo, cerchiamo di fare un bel respiro profondo e analizzare quali sono i punti forti delle loro candidature.

LeBron James: semplicemente valuable

di Nicolò Ciuppani

Quando si parla del premio Coach of The Year esiste una teoria, presentata da Zach Lowe nel suo podcast e condivisa da molti altri, per cui non dovrebbe davvero esserci una votazione: se si valuta il miglior coach in assoluto, il premio dovrebbe spettare a Gregg Popovich ogni anno, essendo lui il miglior allenatore sul pianeta. La stessa cosa si potrebbe fare per il trofeo di MVP quando si parla di LeBron James.

LeBron è il giocatore più forte del mondo e il giocatore più dominante di questa epoca - e queste ormai non sono più opinioni, ma dati di fatto. L’anno scorso il trofeo era andato all’unanimità a Stephen Curry, e due mesi dopo chi l’ha votato - e chi, come il sottoscritto, non ha potuto farlo ma lo avrebbe fatto - si è dato dello stupido per non aver considerato la cosa più semplice: il miglior giocatore del mondo è il numero 23 dei Cavs.

Il motivo per cui il nome di LeBron non è tra i primi nelle votazioni ormai da tre anni è che ci siamo stancati di votarlo: le sue prestazioni sopra le righe non fanno più notizia, una sua schiacciata non va più negli highlight, più in generale a parità di numeri o prestazioni, quella di LeBron passa in secondo piano rispetto ad altre facce più fresche per avere un po’ di novità nelle nostre vite. È successo con Michael Jordan al tempo e sta succedendo con James attualmente: è un fenomeno ciclico, e la nostra capacità di osservare la grandezza viene meno nei confronti di una novità più entusiasmante.

Ma nonostante l’aura di invincibilità e di forza che lo circonda, LeBron sta davvero giocando una stagione da MVP. Sta realizzando i massimi in carriera negli assist e a rimbalzo, giocando da ala piccola e non stabilmente da 4 come accadeva a Miami. È alla sua seconda miglior stagione di sempre per percentuale di tiro da 3 e alla terza miglior stagione di sempre per efficacia dal campo in generale. Cleveland senza LeBron ha un record risibile e dei parziali semplicemente atroci quando lui riposa. Quando LeBron è in panchina Cleveland registra 101.6 di Offensive Rating (sarebbe terz’ultima, davanti ai soli Magic e 76ers su base stagionale), 109.9 di Defensive Rating (terz’ultima davanti a Lakers e Nuggets) e -8.3 di Net Rating, ultimissima. Quando LeBron è in campo i Cavs sfornano 115.1 di Offensive Rating (sarebbero primi, con due punti di vantaggio sui Golden State Warriors), 106.9 di Defensive Rating (sarebbero diciottesimi subito dietro Indiana, e sì, LeBron non difende per principio in regular season) e +8.2 di Net Rating (terzi dietro Warriors e Spurs).

LeBron è quindi il giocatore che LETTERALMENTE prende una squadra tra le ultime tre della lega, ovvero con buona probabilità di scegliere in cima al Draft, e la rende al livello delle prime tre, ovvero con buone chance di vincere il titolo. Nessuno degli altri candidati ha un impatto così devastante: Kawhi non gioca in una squadra così terribile, Westbrook e Harden hanno parziali dentro-fuori dal campo simili, ma in quanti sono pronti a scommettere su una loro vittoria del titolo NBA e quanti preferirebbero puntare sui Cavaliers?

Se vogliamo, anche l’argomento delle triple doppie, che è il miglior asso nella manica per il discorso Westbrook come MVP, potrebbe giocarlo anche LeBron. James è a 1.4 rimbalzi e 1.3 assist di media per realizzare anche lui una tripla doppia stagionale, e la famosa stagione di Oscar Robertson con la tripla doppia di media avrebbe dei numeri peggiori di quella di LeBron quest’anno se rapportata a parità di possessi, essendo quella una lega con molti più palloni a disposizione per tutti. Non essendo stato ancora introdotto il play-by-play ai tempi di “Big O”, è impossibile risalire al numero esatto di possessi e fare un confronto per 100 possessi tra i due giocatori, ma semplicemente confrontando il numero di tiri medi presi dai Cavs quest’anno (84.9) e quelli presi di media nella NBA di quell’anno (107.7) rende l’idea di come LeBron abbia già abbondantemente fatto una stagione del livello di quella storica di Oscar Robertson. LeBron inoltre è incredibilmente più efficiente di Westbrook, tirando con una percentuale di oltre 12 punti migliore rispetto a Russ. Al momento in NBA ci sono 57 giocatori con almeno 13 tiri tentati per partita: LeBron è primo per percentuale dal campo, Russ 54°.

Se la vostra scelta del MVP andasse su Harden, LeBron avrebbe anche il suo numero di targa. James è un creatore di gioco dello stesso livello di Harden, ha un rapporto di Assist/Palle Perse migliore di quello del Barba (2.12 contro 1.8), tira dal campo con una percentuale del 10% migliore e perfino la percentuale da 3 punti è migliore. In aggiunta, quando Harden è in campo la difesa della sua squadra peggiora di oltre 4 punti, mentre i Cavs come detto migliorano la propria difesa di oltre 5 punti quando il re è in campo.

Se invece la vostra preferenza fosse per Leonard, basti dire che LeBron è semplicemente superiore a Kawhi in tutto, prendendo più rimbalzi e distribuendo un’enormità di assist in più, ha una migliore percentuale dal campo e più in generale, se togliessimo LeBron da Cleveland, sapremmo già cosa succederebbe; se invece togliessimo Kawhi agli Spurs, stento a credere che Popovich non trovi lo stesso il modo di fare i playoff con LaMarcus Aldridge e gli altri a disposizione. LeBron è il miglior giocatore in tutte le situazioni possibili su un campo di pallacanestro: è quello a cui vorreste affidare la squadra in gara-7 delle finali, quello a cui fareste difendere l’ultimo possesso, quello in grado di capire immediatamente cosa sta succedendo in campo e come servire i compagni che si liberano con un tempo e un angolo che per gli altri giocatori non è possibile realizzare, è quello che rende sostenibili second unit formate da giocatori che potrebbero benissimo non alzarsi mai dalla panchina in altre squadre. In generale, se il concetto di “Valuable” si dovrebbe applicare ad un solo giocatore, quello andrebbe di diritto e senza possibilità di appello a LeBron James.

Kawhi Leonard: più efficiente, più completo, più vincente

di Daniele V. Morrone

Si è parlato quasi quotidianamente della stagione 1961-62 per via delle incredibili statistiche di Westbrook e Harden, che a modo loro ricordano il duello a distanza tra Oscar Robertson e Wilt Chamberlain — uno per le triple doppie e l’altro per il dominio offensivo. Il particolare a volte dimenticato però, è che l’MVP di quella stagione non l’ha vinto nessuno dei due citati, ma Bill Russell. Il quale, come leader tecnico e mentale dei Boston Celtics, aveva chiuso la stagione a 60 vittorie, 11 in più degli Warriors di Chamberlain e 17 in più dei Royals di Robertson.

Anche la stagione 2016-17 ha il suo Bill Russell in Kawhi Leonard, il leader tecnico e mentale dei San Antonio Spurs che per l’ennesima stagione hanno chiuso sopra le 60 vittorie (al momento 61, quattro in più rispetto all’over/under di Las Vegas di inizio stagione). Se a un’analisi veloce si può concludere che in questa stagione gli Spurs “fanno semplicemente gli Spurs” e grazie a questo sono la seconda miglior squadra della lega nonostante tutto, provando a dare un minimo di prospettiva all’analisi non ci si può non soffermare sull’importanza di Kawhi Leonard all’interno della sua franchigia ora che la torcia è definitivamente passata da Duncan a lui.

Certo, Kawhi non è un creatore di gioco del livello degli altri contendenti e questo forse lo penalizza nella percezione di quanto sia importante offensivamente per la sua squadra, ma penso che in questa stagione non siano gli Spurs a vincere “facendo gli Spurs”, quanto piuttosto siano gli Spurs di Kawhi a fare quello che fanno grazie a Kawhi. Leonard è ormai un giocatore élite in praticamente ogni fondamentale del gioco e questo lo porta a elevarsi sopra il resto della squadra — in termini di volume offensivo richiesto — come solo Tim Duncan nel suo prime aveva fatto sotto Gregg Popovich. Un giocatore offensivamente completo, che in quanto “costruito” non ha il feel per il gioco degli altri, ma che poi come risultati si rende molto più efficiente sotto praticamente ogni aspetto.

Come fanno notare su FiveThirtyEight, Kawhi è un giocatore élite con la palla tra le mani: è nel 96esimo percentile per Usage, 90esimo per True Shooting, 82esimo per percentuale di perse, 71esimo per percentuale di assist. Andando più a fondo, come realizzatore è addirittura nel 94esimo percentile nel pick and roll, 93esimo spalle a canestro, 96esimo piedi per terra, 75esimo in transizione e 64esimo in isolamento. Combinando tutto quanto, esce fuori come Leonard sia l’unico giocatore dai tempi di Jordan nel prime ad avere una percentuale reale superiore al 60% e una percentuale di palle perse sotto il 10% pur mantenendo uno Usage sopra il 30%. Adesso: se dal punto di vista dell’efficienza ad altissimo volume di gioco sei l’unico nella storia in compagnia di Michael Freakin’ Jordan, direi che ogni altra statistica risulta ridondante.

Nonostante il ritiro di Duncan, l’entrata al suo posto di un pessimo difensore come Pau Gasol e il logorio ormai non più sostenibile di Parker, gli Spurs sono misteriosamente rimasti la prima difesa della Lega. Guardare una partita dei nero-argento è come assistere ad un’orchestra capace di cambiare spartito a piacimento a secondo degli interpreti in campo, ma che comunque con Kawhi riesce ad assumere tutta un’altra dimensione. Ho letto e sentito che la sua difesa non è più al livello di un paio di anni fa, addirittura dal punto di vista statistico gli Spurs risultano una difesa migliore senza di lui. Una situazione ovviamente ben diversa da quanto si vede ad occhio guardando le partite in cui Kawhi è al centro del sistema difensivo degli Spurs (pur essendo un esterno!) e prendendosi la stella avversaria il più delle volte. Grazie alla sua taglia, la sua intelligenza cestistica e le sue braccia infinite, è perfetto per difendere sia sul pick and roll che sull’uomo, è in grado di difendere tutte le posizioni sui cambi e di essere decisivo in aiuto, dove non ha veramente rivali.

Una situazione talmente strana, quella dei suoi numeri on-off, da portare su Nylon Calculus l’analista Schwartz Madsen a parlare di come sia il caso a portare gli avversari a tirare tanto peggio da tre quando Leonard non è in campo pur avendo lo stesso numero di tentativi. La questione, spiega l’analista, è data dal fatto che a livello di grandi numeri la percentuale degli avversari da tre non è controllabile dalla difesa ed è invece più vicina al caso: la difesa può forzare quanti tiri da tre un attacco prende, ma non le sue percentuali. Leonard quindi non ha molte colpe se non l’essere sfortunato, perché tutto quello che c’è da fare per essere élite sui due lati del campo lui già lo fa.

Kawhi è uno dei pochi a cui una compilation di sole azioni difensive contro un’altra stella vale quanto una compilation classica con i punti segnati.

In Kawhi Leonard abbiamo un giocatore che rappresenta la base del sistema di una squadra da 61 vittorie, in grado non solo di preoccupare tutta la difesa avversaria per via del suo variegato attacco, ma anche di segnare e non far segnare quando la palla scotta (chiedere ad Harden). In più lo fa essendo l’unico vicino a Jordan dal punto di vista dell’efficienza ad alta quantità di possessi e, al contempo, è tutte le sere un fattore anche in difesa come nessun top 5 lo era dai tempi di Scottie Pippen. Certo, non ci sono i numeri “grezzi” che saltano all’occhio — ma come per Bill Russell prima di lui, questo non dovrebbe poter essere un problema.

Pedalando con James Harden

di Dario Vismara

Più passa il tempo, e più la corsa al titolo di MVP assomiglia a un logorante corsa a tappe in cui ogni settimana rappresenta un nuovo traguardo da tagliare per primi, in modo da guadagnare secondi sulla concorrenza. Basta una singola partita o una singola giocata da condivisione sui social per spostare continuamente l’attenzione su uno o su un altro candidato:

Russell Westbrook ha fatto una tripla doppia ai 50 e ha segnato gli ultimi 14 punti di squadra? È lui l’MVP!

Kawhi Leonard ha segnato e difeso contro qualsiasi cosa si muovesse ritoccando continuamente il suo massimo in carriera? Allora è lui l’MVP!

Guarda, LeBron James ha trascinato di nuovo i suoi compagni con un plus-minus di +30: MVP! MVP! MVP!

(Si aggiungono all’elenco a vario titolo anche Isaiah Thomas, Kevin Durant, Steph Curry e John Wall).

Ogni scatto, ogni prestazione mostruosa, ogni risultato assurdo ci ha portati a modificare le nostre preferenze per il premio con un micro-managing che neanche Rick Carlisle con i suoi cambi di quintetti ogni due minuti. In tutto questo, però, c’è stata una costante: James Harden dal primo all’ultimo giorno di questa regular season è stato un metronomo, mantenendosi sempre ad alti livelli di eccellenza sera dopo sera dopo sera, trascinando una squadra media (41-41 lo scorso anno) ad avere il terzo miglior record della NBA. Dalle discussioni per l’MVP lui non è mai realmente uscito, è sempre rimasto nel gruppetto di testa tenendo a lungo il passo.

Il modo di giocare del Barba è quasi ipnotico per la sua ripetitività che in qualche modo non riesce mai a risultare prevedibile: la sua gamma di soluzioni nel pick and roll centrale — penetrazione al ferro o palla alzata al bloccante, tripla dall’angolo per un compagno o scarico per un tiratore piazzato due metri fuori dalla linea da tre punti, step back dopo il cambio del lungo o fallo subito quando il piccolo prova a passare sopra il blocco, tripla dal palleggio o Euro-Step in mezzo all’area — lo ha reso un’arma illegale, specialmente in un sistema creato apposta per esaltare le sue qualità come quello di Mike D’Antoni.

Proprio l’incontro con l’ex capo-allenatore di Phoenix ha fatto svoltare la carriera di entrambi: prima di questa stagione Harden era sì il giocatore in grado di portare i Rockets alle finali di conference nel 2015, ma anche quello che in Gara-6 contro i Clippers era rimasto ad osservare disinteressato mentre i suoi compagni realizzavano una delle rimonte più improbabili della storia recente della NBA. Soprattutto, il Barba era quello che per tutta la scorsa annata ha giocato da separato in casa con Dwight Howard e di riflesso col resto della squadra, per una delle franchigie più disfunzionali che si siano viste recentemente. Quando ha incontrato D’Antoni, invece, il suo gioco e i suoi numeri hanno avuto una reazione simile a quella di Scattino quando beve il caffè in Cappuccetto Rosso e gli Insoliti Sospetti.

Per i due o tre che non lo avessero mai visto.

Oggi James Harden è “An Offense Onto Himself”, il primo giocatore di sempre in grado di creare una statistica del tutto nuova (e che probabilmente sentiremo citare nei prossimi anni) come il “25+25”. Mai nella storia era successo che un giocatore segnasse almeno 25 punti per conto proprio e altrettanti ne facesse segnare ai suoi compagni (361 triple assistite, quasi 100 sopra il record storico di Steve Nash). Una centralità offensiva che assomiglia più a quella di un quarterback del football americano che non a una guardia di una squadra di pallacanestro, pur importante che sia. Harden — concentrandosi finalmente solo sulla sua carriera, sul suo fisico e sulla sua leadership, lasciando da parte le Kardashian — ha reso migliore tutto quello che gli sta attorno facendo sembrare dei giocatori forti anche dei semi-reietti come Ryan Anderson e Eric Gordon, che prima di questa stagione sembravano più adatti a riempire le infermerie piuttosto che le corsie laterali.

Chiarita la gerarchia in spogliatoio con l’addio di Howard e incassata la fiducia di proprietà e dirigenza con un’estensione contrattuale in estate, Harden ha ripagato gli Houston Rockets con una stagione for the ages. Per dire: le sue 21 triple doppie sarebbero il record degli ultimi 20 anni, se solo il suo ex compagno con il numero 0 non fosse andato in “Modalità Big O”. Allo stesso modo, i suoi 29.3 punti e 11.3 assist a partita gli sarebbero valsi il primo posto in entrambe le categorie come solo Tiny Archibald nella storia della lega (sempre se non esistessero i 31.9 di Westbrook). Sempre rimanendo in orbita Archibald, la stella dei Rockets è solo a qualche decimo di punto di distanza dal record di 56.8 punti creati a partita dell’Hall of Famer (quando però i possessi, pur non a livello Robertsoniani, erano comunque più alti degli attuali).

Proprio nella capacità di essere dominante tanto in proprio quanto al servizio dei compagni sta la grandezza di Harden, che mette le difese davanti a una scelta impossibile: lasciarlo in uno contro uno significa condannarsi a fare un giro nella Camera delle Torture di uno degli attaccanti più completi del panorama mondiale; raddoppiarlo anche solo per un breve secondo significa lasciare spazio a un tiratore mortifero dall’arco o un alley-oop a zero centrimetri dal ferro. Un enigma tecnico-tattico a cui la stragrande maggioranza delle squadre non ha trovato rimedio, permettendo ai Rockets di veleggiare a 113.6 punti su 100 possessi con il Barba in campo a dirigere l’orchestra di sottomani, tiri liberi & triple.

Le ultime settimane di Harden però hanno beccato la brutta congiunzione di un minimo calo delle sue prestazioni (complice anche un polso malconcio) proprio nel momento in cui Westbrook si è alzato sui pedali per andare a prendere il fantasma di Oscar Robertson e trascinarsi dietro tutta OKC, nonché le attenzioni del resto del mondo. Uno scatto che ha scomposto un po’ tutta Houston, che si è affannata in tutti i modi per elencare i record statistici della sua superstar, ma soprattutto per far notare quanto il record di squadra veda chiaramente superiori i Rockets rispetto ai Thunder al punto da lanciarsi in tweet arditi come questo citando Drake (“Triple Doubles Are Just A Number”, detto dalla squadra col giocatore che ne ha fatte 21, è un po’ un controsenso) o come quelli del GM Daryl Morey in strenua difesa del suo numero 13. (Senza considerare che poi, se proprio si volesse spostare il discorso sulle vittorie di squadra, Kawhi Leonard ne avrebbe comunque di più.)

Un tentativo un po’ bambinesco e non esattamente elegante, ma comprensibile e coerente con il modus operandi generale della franchigia. In un’annata normale (che ne so, il 2011 di Derrick Rose?) la stagione di Harden sarebbe tranquillamente valsa un premio di MVP: il fatto che potrebbe non succedere in questa ci dice solo quanto sia stata avvincente ed equilibrata questa lunga corsa a tappe che si avvia verso il traguardo finale.

Russell Westbrook: un voto per la storia

di Davide Casadei

“Dieci, vent’anni da ora, come vi sentireste a non aver votato Russell Westbrook quando riscrisse la storia?”.

Le argomentazioni statistiche e narrative per decretare chi abbia avuto una stagione migliore stanno cadendo come idoli pagani. I media di tutto il mondo, messi alle strette dalle eccezioni che partita dopo partita si ufficializzano in regole costringono a tirare fuori la polverosa e vecchia pacificatrice universale: la Storia. Il voto per il Most Valuable Player è quasi sempre raccontare una storia, quella con la s minuscola. Derrick Rose nel 2011 era una fiaba di esplosioni al ferro; Charles Barkley che sottrae lo scettro a Jordan un breve racconto distopico con pretese da Orwell su parquet. Non accadde nulla di tutto ciò perché erano favole della buonanotte, e all’incontro con la Storia, quella pomposa in divisa con la S maiuscola che di solito si fa ai playoff, divennero piccole piccole per poi scomparire. Quella Storia la fanno sempre i vincitori che restano in piedi alla fine, riprendendo un cliché millenario: sono loro a decretare i termini della disfatta e dimostrarci, nel caso, quanto avessimo torto. Il potere temporale è interessante, ma l’eternità tende a non lasciare prigionieri.

Che spazio ha, nella prospettiva di un mondo futuro, l’epica di Russell Westbrook? La perdita di un compagno, il ritorno a casa, la sfida per risalire, gli avversari abbattuti gradino per gradino. Lasciare sul campo indifferentemente amici e avversari. Bruciare come una supernova per sfiorare la leggenda e tornare giù a farsi sbecchettare il fegato dai corvi come un Prometeo qualsiasi. È un qualcosa che potrebbe essere insegnato nelle scuole? Non ha pretese di moralità, non ha fini didattici né avrà un lieto fine accomodante, ma piuttosto una morte quasi certa contro il nemico più grande. È una storia di egoismi mascherata da gesti eroici vuoti di significato. Ti regalo un assist se di ritorno mi aiuti ad abbattere quella chimera in fondo alla grotta. Prenderò questo rimbalzo da solo in mezzo all’area e ti farai trovare pronto a correre come una gazzella quando scaglierò quel dardo infuocato. Tra questi 40 tiri presi una notte come un’altra nella ridente Orlando, Florida ci sono le mie dodici fatiche quindi fatti da parte, per una buona volta, fammi il favore.

La noiosa leggenda di morte, tasse e triple doppie del numero 0: una routine consolidata che ormai non affascina più nessuno. Westbrook ha reso banale persino il parlare dei suoi record individuali. Ogni discussione a riguardo è sterile, cerchiamo di intavolare conversazioni su qualcosa di meno superfluo come non so: le sue statistiche negli ultimi 5 minuti di partite punto a punto (OKC è +24.9 per 100 possessi con lui in campo in the clutch) o il fatto che quando non mette a segno il suo trademark i suoi sono una squadra da bassa Lottery (33-9 con tripla doppia, 13-25 senza).

Le ultime settimane sono state una volata infinita per vedere chi sarebbe riuscito a sporgere la testa più avanti sulla linea del traguardo. Quando Kawhi stoppò Harden a tabellone alla fine di una partita di regular season che odorava di playoff sembrava fatta: la macchina da guerra col 2 aveva scritto la sua candidatura sul Podoloff stampando l’enorme mano di titanio sul cuoio. Fino a quel momento in pochi avrebbero scommesso contro la sinfonia D’Antoniana guidata dal Barba, in sostanza uno Steve Nash-on-steroids. Dopo quel momento, invece, si è parlato quasi esclusivamente della disperata rincorsa ai mostri sacri. Ognuno di questi segmenti è esistito nel sistema nervoso di chi segue ossessivamente la NBA, ma sapreste darne un valore oggettivo?

I numeri che si sommano per dare cifre più tonde sono una ricerca costante nella pallacanestro. La perfezione dei 100 di Wilt è incrollabile; il 6-0 di Michael Jordan alle Finals è un sigillo. Ma forse nessun nome è più associabile a un numero, o meglio a una serie di numeri, di Oscar Robertson. Per noi è quello che ha fatto una tripla doppia di media ma, di fatto, non sappiamo davvero così tanto su di lui. Il 99% di noi non ha avuto l’occasione di vederlo giocare, fomentando la sua aura di intoccabilità. Vederlo assottigliarsi sempre più all’orizzonte è un’esperienza mistica. E se fosse capitato proprio alla nostra generazione - ultra connessa, priva di magia, incapace di stupirsi anche solo per un nanosecondo - di testimoniare l’irripetibile? Magari un conflitto mondiale spazzerà via la nostra civiltà in dieci anni anni togliendoci la possibilità di generare cinesi di 2.20 in grado di schiacciare in 1080.

Quindi ecco parte dei motivi per cui Russell Westbrook dovrebbe vincere l’MVP 2016-17, nonostante le vibrazioni di fondo dell’universo e le sovrastrutture mediatiche.

1. Perché si è presentato alla Oracle Arena con una veste arancione da fotografo al solo scopo di stuzzicare Durant, ed è stato - giuro - il suo outfit più sobrio in questa stagione.

2. Perché è riuscito a incanalare all’incirca trentasei narrative diverse tra cui mi piace citare: quello del leale che non abbandona la sua squadra; quello che accumula statistiche vuote; quello che vince le partite con i suoi enormi coglioni; quello che non coinvolge i compagni perché sono scarsi; quello che dovrebbe coinvolgere di più i compagni perché non sono poi così scarsi; quello che nel basket di una volta avrebbe fatto fatica perché sai mai; “il nuovo Kobe” - e qui alzo le mani perché si apre un loophole infinito in cui non voglio addentrarmi. In tutto questo Russell Westbrook trovava sempre tempo per ballare sulla panchina palleggiandosi in mezzo alle gambe sulle note di “Do What I Want” di Lil Uzi Vert. Ridendo come un bambino. Poi si alza, mette su la corazza da distruttore di mondi con quella cazzimma da John Wick e nel 60% dei casi circa vince le partite. Russell Westbrook mi rende felice.

3. Perchè si è presentato a un concerto dei Migos ad Oklahoma City e i Migos hanno modificato le lyrics di “Bad and Boujee” che è una canzone perfetta solo per rendere la sua entrata più spettacolare.

4. Perché il suo VORP (Value Over Replacement Player) ci dice che se mettessimo un giocatore normale al posto di Westbrook, OKC ne risentirebbe più di ogni altra squadra con un qualsiasi altro giocatore. Ma Westbrook c’è.

5. Perché tutti è da agosto che se lo aspettano un po’, dai, in fondo al cuore.

6. Perché Kendrick Lamar è dalla tua parte nella faida che loro ti hanno voluto creare. Kendrick Lamar è la perfezione incarnata. Quindi lo sei un po’ anche tu ora.

7. Perché con una tripla sulla sirena lanciata dalle Montagne Rocciose ha eliminato Denver dalla corsa playoff e io potrei garantire che sul volto di ogni tifoso Nuggets, operatore alla telecamera, su ogni buttafuori, cuore spezzato, cronista del Denver Post, sui color commentators, giocatori in campo si è formata una smorfia involontaria che non si vedeva da decenni: l’accettare serenamente cose al di fuori dal razionale.

Tranne il tizio con la camicia a quadri. Lui forse ha pensato al suicidio

Russell Westbrook. Colui che uccise metaforicamente la morte. La più metaforica scelta per l’MVP. La Storia non ne ha bisogno, ma è pronta ad accettarlo?

Il voto della redazione

Quindici membri della redazione basket de l’Ultimo Uomo hanno votato seguendo lo stesso criterio - cinque nomi, punteggi a scendere da 10, 7, 5, 3 e 1 punto - come hanno già fatto i media selezionati dalla NBA (tra cui anche, per la prima volta, due rappresentanti italiani come Flavio Tranquillo per SKY Sport e Davide Chinellato per La Gazzetta dello Sport). La nostra votazione interna ha dato questo risultato:

Russell Westbrook: 136 punti

James Harden: 94 punti

Kawhi Leonard: 92 punti

LeBron James: 53 punti

Stephen Curry: 9 punti

Isaiah Thomas: 5 punti

John Wall: 1 punto

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