Chiara Penco, classe 1995, è un fighter di MMA che combatte nella categoria dei pesi paglia (52 kg), con un record di 5 vittorie e 2 sconfitte.
Nel 2017 a Johannesburg è stata la prima donna italiana ad aver vinto un titolo mondiale da professionista e l’anno successivo ha difeso la cintura a Pretoria (Sudafrica) perdendo il titolo contro Karolina Marta Wójcik. Il nickname da combattimento che si è scelta è “Beasty Barbie”, perché a differenza dei pregiudizi che riguardano le donne che combattono per sport, lei sente di essere una donna attraente e non ha nessuna intenzione di scusarsi per questo. Nel febbraio del 2020 ha esordito nel circuito Bellator (che per semplificare possiamo definire il secondo più importante a livello mondiale dopo UFC), a Dublino, con una sconfitta contro Danni Nellan. La rivincita è arrivata con la vittoria di Milano del 26 settembre.
L’ho intervista qualche giorno dopo quella vittoria, un traguardo molto significativo soprattutto perché ha seguito un lungo momento in cui Penco si è allenata moltissimo senza sapere quando avrebbe avuto la possibilità di un riscatto. Il match contro Plamenova è stato trasmesso online ed è stato combattuto in una insolita versione senza pubblico fuori dalla gabbia. Penco ha vinto per TKO al secondo round, gestendo la sua avversaria a terra. Una vittoria cercata e preparata a lungo dentro la gabbia ma soprattutto con un grande lavoro sul piano personale. La chiave di questa vittoria, ha detto lei stessa sul suo account Instagram, è stata «l’accettazione della situazione».
La prima vittoria del titolo mondiale in Sudafrica.
Come è arrivata la chiamata in Bellator?
Il primo contatto con l’associazione è avvenuto dopo che ho difeso il titolo in Sudafrica. Poi abbiamo sistemato alcuni dettagli e un anno dopo ho firmato. È stato un altro bel traguardo.
Il tuo primo incontro è stato una sconfitta, e una settimana dopo è arrivato il lockdown che ha reso impossibile un immediato riscatto. Come è stato per te quel momento?
Ho combattuto a Dublino la settimana prima del lockdown, quindi ero nella fase di rilassamento post match. Più che altro è stata l’idea di non sapere quando avrei avuto la mia rivincita personale. Ero un po’ giù di morale, non sapevo quando avrei potuto tornare in gabbia. Ma ho iniziato un allenamento intenso fin da subito, ho lavorato ad alcuni aspetti del mio fisico che dovevano essere potenziati da tempo e appena è finita la quarantena sono subito tornata in palestra a migliorare tutti i dettagli tecnici che dovevano essere raffinati dopo aver rivisto il match che avevo perso.
Come hai fatto a motivarti ad andare avanti ad allenarti?
La mia motivazione è stata la certezza che prima o dopo sarei rientrata in gabbia. Non sapevo quando, ma sapevo che l’avrei fatto, anche a distanza di due mesi o di un anno. Dovevo già iniziare a prepararmi e a migliorare negli aspetti in cui ero più carente. A fine del lockdown mi sono resa conto che quest’esperienza mi ha cambiata. Mi ha dato molta più forza, sono cresciuta. Sono stata due mesi da sola e mi sono allenata due volte al giorno, anche tre visto che non c’era niente da fare.
E poi questo allenamento fisico e mentale è sbocciato nella vittoria della settimana scorsa.
Questa vittoria ha avuto molti significati. Ho vinto il mio secondo match a Bellator, e la pressione che ti mettono tutti per il rinnovo del contrato è altissima. Intanto ho vinto un match su due in questa promotion. Poi finalmente ho rivisto la Chiara di due anni fa e questo per me è stato importantissimo. Soprattutto l’atteggiamento, perché negli ultimi due match avevo un po’ perso me stessa. Non avevo la grinta che ho avuto questa volta. E tutto questo periodo mi è servito per ritrovare la grinta. E poi ha significato per la palestra e per le persone che credono in me. Ci sono persone che hanno sempre creduto in me, ma hanno iniziato a chiedermi cosa volessi fare nel futuro. E così si sono accorti che nel mio futuro voglio fare questo.
L’aspetto della grinta secondo me è fondamentale. Due anni fa Cecilia Zandalasini ha avuto un exploit sul campo da basket che poi è corrisposto ad un exploit di presenza mediatica. Tutti la volevano intervistare, tutti parlavano di lei. Ad un certo punto però ha pubblicato una lettera al pubblico in cui diceva che da un lato questo momento di fama era una cosa bellissima ma dall’altro, essendo lei una ragazza molto privata, aveva avuto un contraccolpo enorme sulle sue prestazioni. Tu come la tua notorietà?
La mia immagine è cresciuta con i risultati, sin dal primo match da professionista mi porto dietro questi aspetti reggendo sempre molto bene la situazione. Però dopo che ho vinto il titolo mi sentivo invincibile, mi sentivo che avrei potuto fare qualsiasi cosa. E anche i manager che mi stavano intorno a quel tempo mi avevano spalleggiata in questo. In realtà la persona che mi ha salvato è stato il mio coach Massimo Rizzoli, che mi diceva di continuare a lavorare duro, di pensare che io non fossi nessuno, e su questo aveva ragione al cento per cento. Per due volte non gli ho dato retta, per due volte ho perso. Questa volta ho voluto credergli dopo aver sbattuto la testa, e infatti ho visto i risultati.
Dopo la tua vittoria della scorsa settimana a Bellator, mercoledì è uscito un post su instagram con una didascalia che dice «la chiave è l’accettazione della situazione». Che intendevi, cosa hai dovuto accettare?
Accettazione è stata la parola chiave della preparazione di questo match. Non in senso critico, ma nel senso che bisogna accettare il momento, se sei sotto con i punti o in una situazione difficile è solo accettando questa cosa che puoi uscire da quella stessa situazione. Se invece ti opponi, se le vai contro, le cose non andranno mai bene. Durante la preparazione Massimo mi ha selezionato due sparring partner grossi e forti. All’inizio ero frustrata, non mi facevano fare quello che volevo fare. Ma ho accettato il fatto che loro fossero più forti di me, che riuscissero a fare più cose di me. Alla fine sono riuscita a fare quel poco che facevo ogni giorno, e quel poco era sempre di più, ogni giorno di più. Da quel momento la preparazione è andata liscia e non ho sentito la pressione del match. E questo mi ha aiutato molto.
Tra l’altro la novità di questa edizione di Bellator è che il pubblico non c’era. I commenti erano live in chat però fuori dalla gabbia non c’era nessuno.
In una situazione normale avrei certamente combattuto a Milano con metà pubblico del palazzetto dalla mia parte. Questa è una cosa che mi sono persa e ovviamente mi è dispiaciuto. Nei momenti difficili avrei avuto quella forza in più con il pubblico a mio favore. Però questa volta mi serviva essere da sola con la mia avversaria. Vederla come una preda, ecco. È stato bello, non ho avuto distrazioni, il mio ego si è calmato perché non aveva da dimostrare assolutamente niente, anche se sapevo che tutte le persone che mi vogliono bene mi stavano guardando da casa. Questo mi ha dato una forza incredibile. Ero sicura di vincere.
In questo momento storico gli sport di combattimento stanno avendo un successo di pubblico anche in ambito femminile. Parlo di atlete come te nella MMA, di Irma Testa nella boxe e di Gloria Peritore nella Kick Boxing. A un talento e ad una abnegazione necessarie per questo tipo di discipline si aggiunge in questi casi anche un uso molto forte dei social per comunicare con il pubblico o semplicemente per mostrare com’è la tua giornata, come ti alleni. Come viene presa questa tua apertura per il mondo social dall’allenatore o dal tuo team?
Quando sono entrata a Rendoki (la palestra dove si allena a Livorno nda) cinque anni fa la mentalità era quella di una accademia da combattimento dove non ci potevamo allenare con il top ma solo con la maglietta. I social erano ripudiati. E io sono arrivata a Rendoki con quella stessa mentalità. Non avevo ancora iniziato a vedere la mia immagine come una possibile fonte di sostegno. Anche l’allenatore, Rizzoli, non era assolutamente per queste cose qui, ma poi dopo qualche mese mi iscrisse ad una sfilata di Miss Sportiva senza dirmi niente. Io ero una bambina. Ero impacciata con i tacchi, però dimostrai a tutti che sapevo combattere. Infatti rimasero tutti impressionati durante la dimostrazione sportiva pratica in cui io e un mio amico combattemmo come se fosse una cosa normale. Ci si picchiò forte e tutti rimasero abbastanza scandalizzati. Ci fu un silenzio di tomba.
Da lì è cominciato tutto, è cambiato il mio rapporto con i social e anche quello del mio allenatore. Ho iniziato a studiare per creare un profilo. Bisogna adattarsi alle situazioni, appunto: l’accettazione che dicevamo prima. Ma andando avanti mi sono resa conto che un fighter non può gestire la sua immagine da solo perché deve pensare a combattere, ad allenarsi e a diventare il migliore del mondo. Adesso infatti se ne occupano altri in modo che io posso allenarmi e restare concentrata.
Nelle tue storie su Instagram si vede spesso che sei l’unica donna in un gruppo di uomini. Come è stato il tuo esordio nell’MMA che è un ambiente prettamente maschile?
Alcuni amici frequentavano una palestra e mi portarono loro. Il primo giorno avevo iniziato con la kick boxing, c’erano solo uomini naturalmente. Mi misero in coppia con un ragazzo che mi fece malissimo ad una gamba mentre provavamo i low kick. Nessuno mi spiegò niente. Una volta tornata a casa ero molto giù di morale, mi sentivo che quello non poteva essere il mio sport. Ma nei giorni successivi ho lasciato la kick boxing e ho provato la lotta a terra. L’insegnante mi seguiva, c’erano i miei amici e andò molto meglio. Ho iniziato a fare gare praticamente subito e mi hanno insegnato tutto molto presto. Anche le tecniche di sottomissione che mi porto dietro ancora oggi le ho imparate nei primi mesi di allenamento.
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Dopo due anni ho cambiato palestra e sono arrivata a Rendoki, ma chiaramente qui ho dovuto ricominciare da capo, anche con tutti i ragazzi. All’inizio mi sottomettevano sempre, mi sentivo sovrastata. Però è una sensazione che conoscevo e non soffrivo, grazie anche ai due anni di esperienza nella lotta. Ho tenuto duro, e negli anni mi sono fatta valere e mi sono anche fatta voler bene da tutti. Adesso sono come dei fratelli per me.
Ti è mai successo che durante un allenamento un uomo visibilmente inferiore a te per tecnica si comportasse in maniera scorretta per ovviare alla tua superiorità?
Assolutamente sì. Succede ancora adesso e succederà di nuovo perché è nell’indole dell’uomo quella di non essere sottomesso da una donna. E molti hanno questo orgoglio personale molto pronunciato. Capita soprattutto nella lotta. Una volta ho combattuto in allenamento con un ragazzo nuovo, quindi non molto preparato tecnicamente, che durante l’allenamento mi ha dato una testata sul naso. Io sul momento non ho detto niente, convinta che fosse un caso, ma poi me ne ha data un’altra. E lì chiaramente mi sono arrabbiata molto.
Nelle arti marziali un aspetto importante è capire come rispondere agli attacchi degli avversari e poi allenarsi molto affinché questo modo di rispondere diventi un automatismo. So che tu lavori molto presto di mattina per poi avere il resto della giornata per allenarti.
Attualmente ho trovato lavoro in una fabbrica, quindi attacco alle sette e mezzo la mattina, stacco a mezzogiorno e mezzo per la pausa pranzo e vado in palestra. Faccio la prima sessione di allenamento che dura un’ora e quarantacinque, in genere potenziamento e pesi. Poi torno a lavoro alle due e mezzo, alle cinque e mezzo stacco e alle sei inizio le mie ore di allenamento quotidiano che vanno dal brasilian jiu-jitsu, al grappling, alla lotta a terra, alla kick boxing, alla boxe, alla MMA, al K1 e muay thai. In un giorno faccio tre o quattro di queste discipline a rotazione mentre kick boxing e lotta le faccio quasi tutti i giorni. Il sabato c’è lo sparring con altre palestre e la domenica riposo.
Com’è la situazione del professionismo nelle arti marziali miste femminili? Cosa succede se ti infortuni o se dovessi restare incinta?
In caso di infortunio il contratto viene sospeso finché non posso tornare a combattere. Per la maternità ad essere sincera non lo so. Ma non abbiamo nessun tipo di garanzia, so di essere una professionista ma di non esserlo allo stesso tempo, anche perché vado a lavoro tutti i giorni. Poi io metto la MMA al primo posto sempre, però se accade qualsiasi cosa la responsabilità è mia, le conseguenza sono le mie.
Ho letto che è prassi prima degli incontri che le atlete di MMA facciano il test di gravidanza. È vero?
Si fa sempre prima del match. È una routine, è un esame che faccio insieme a tutti gli altri: HIV, epatite. È una cosa che deve essere fatta.
Uno degli aspetti più interessanti dello sport femminile è che molto spesso atlete di grande successo hanno avuto come modelli non donne ma uomini, più che altro per mancanza di visibilità delle donne stesse. Per te chi è stato un modello prima che tu stessa arrivassi a Bellator e quindi, probabilmente ad essere tu stessa un modello per altre ragazze?
È stato un misto di modelli maschili e femminili. Ronda Rousey, Miesha Tate, le veterane della MMA, le prime che si sono appoggiate anche alla loro immagine parallelamente alla MMA. Però allo stesso tempo seguivo Jose Aldo, Anderson Silva, ma certamente mi sono sentita molto più vicina alle donne. E anche adesso i miei modelli sono le campionesse del mondo donne.
Il tuo nome da combattimento è “Beastie Barbie” che secondo te descrive alla perfezione il connubio fra il tuo aspetto fisico e la tua forza dentro l’ottagono. Ma come ti comporti con i commenti degli altri sui graffi sul tuo viso dopo un combattimento o sulle ecchimosi su una qualsiasi parte del corpo? Ti lasciano indifferente?
Finché il commento rimane sui social mi lascia indifferente. Quando però in post match ci sono persone che se vedono che hai segni sul corpo commentano con frasi del tipo: «Finalmente hai trovato quella che te le ha date»… Ecco, questa è una cosa che mi dà fastidio. Non sanno quello che fai, ma vorrebbero far finta di saperlo. In quel caso cerco di ignorare, di lasciar perdere. Ma questo tipo di commenti il loro lavoro lo fanno. O magari in giro ti guardano perché hai un occhio nero, o i tuoi amici sono in imbarazzo e magari hai il viso segnato dal combattimento. Credo che questo non passerà mai. Ma io sono orgogliosa delle mie cicatrici, dei miei lividi però capisco anche chi non c’è abituato.
Hai dichiarato che a volte gli uomini esterni al mondo delle MMA ti trattano come «un fenomeno da baraccone», cioè ti chiedono di far vedere loro come combatti o se puoi fare una presa o cose del genere.
Questa cosa succede ancora e anche questa è una delle cose che mi porterò dietro a vita. Anche all’estero, ma in Italia non c’è questa cultura della donna bella e forte. Non sono abituati all’idea e non credono che sia possibile. E quindi mi vogliono mettere alla prova, tutti. Sempre. E io non cedo mai a queste dimostrazioni di forza, anche perché fuori dalla gabbia io non ho niente da dimostrare e nessuno fuori dalla palestra mi ha mai visto esercitare l’MMA.
La necessaria distinzione fra MMA dentro e fuori dalla gabbia tu l’hai accentuata anche nel video IGTV pubblicato sul tuo profilo proprio nei giorni successivi all’omicidio di Willy Monteiro.
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L’MMA non è violenza #MMA #ilmiosport #beastybarbie
Un post condiviso da Chiara Penco (@chiarapenco.mma) in data: 11 Set 2020 alle ore 4:12 PDT
Quello che è successo ha creato confusione. Le persone hanno associato la cattiveria alla MMA. Ma qui si tratta di persone spudorate, che non hanno rispetto degli altri a prescindere dalle arti marziali miste, che in realtà sono completamente il contrario.
So che insegni ad altre donne alcune mosse di difesa e cerchi anche di far passare il concetto della normalità del fatto che le donne possano essere atlete di MMA. Secondo te qual è lo stato attuale dell’MMA in ambito femminile? Ti senti un’eccezione?
Il mio caso non è un’eccezione. Ho iniziato a diciassette anni, ma il mio fisico non era così sviluppato come altre diciassettenni che vedo adesso. La grinta e la determinazione le ho sempre avute, e queste mi hanno portato avanti. Ma queste due caratteristiche non le ho solo io, quindi no, non mi sento un’eccezione anche se altre ragazze mi percepiscono così. E quindi sto cercando di lanciare questo messaggio. Per il professionismo femminile siamo lontani anni luce. Intanto si dovrebbe cominciare a far praticare la MMA, in questo modo nascerebbero altre agoniste che poi diventerebbero professioniste. Però le ragazze che praticano MMA in Italia sono pochissime, e molte altre invece non credono nemmeno che sia possibile praticarlo come sport. Questa è un po’ la mia missione.
Nella mia palestra ci sono altre ragazze che praticano kick boxing a livello agonistico e adesso si trovano nella fase in cui devono decidere se passare al prossimo step o no. Sono molto forti, sono campionesse italiane o campionesse del mondo. Ma molte sono indecise se portare avanti questa carriera o meno. Capisco anche che sia molto dura.
Sto cercando di avvicinare le ragazze al mondo della lotta e della difesa personale. È un progetto nuovo, nato da poco. E poi c’è stato il lockdown quindi per adesso non si è sviluppato. Ma in post match mi ci dedicherò. Sono in contatto con altre ragazze per cercare di aprire un corso in cui si faranno brasilian jiu-jitsu e lotta a terra. E spero che da lì vedano che è uno sport che possono fare tutti. Dalle ragazze più piccole alle donne e mamme.
Questa penso che sia ancora una barriera grande, il fatto che si pensi che per fare questo tipo di sport si debba essere per natura particolarmente forti o maschili. Il punto è che molto spesso questo tipo di pensieri li hanno anche le donne, e non vedono che nella MMA l’aspetto del maschile e del femminile non c’entra niente. E che uno sport del genere ti dà in eredità un’autostima che poi ti porti anche nella vita quotidiana. Questo secondo me è molto importante.
Assolutamente. Ma le ragazze hanno paura perché non se ne parla molto di questi sport. Ad esempio il brasilian jiu-jitsu è nato come disciplina difensiva e non per attaccare. Poi ci sono le gare e le tecniche, ma si tratta soprattutto di difesa. Però io sono sicura che riuscirò a far cambiare idea a tante persone. Serve un cambiamento, andare anche fuori dagli schemi, dai soliti sport.