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Chicharito a Hollywood
21 mar 2017
Javier Hernandez è forse alla sua ultima stagione in Europa: tempo di bilanci.
(articolo)
13 min
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Quella delle grandi remuntadas è una mistica d’élite: non se la possono permettere tutti, men che meno una squadra che suo malgrado si è guadagnata il soprannome, simpatico fino a un certo punto, di Bayer Neverkusen.

La sfida in Champions League contro l’Atletico Madrid, dopo una gestione sciagurata della gara d’andata costata il posto a Roger Schmidt, era complicata ai limiti dell’impossibile per i tedeschi: ma è riuscita a trasformarsi in un’esperienza estetica quasi decadente.

Osservare il Bayer Leverkusen oggi, cioè nelle ultime tre partite contro Werder, Atleti e Hoffenheim, è stato come fermarsi a guardare il Six Flags di New Orleans: un parco giochi in pieno detrimento, con un’arena delle macchine a scontro nella quale la vettura più scintillante se ne sta abbandonata in un angolo, speranzosa che qualcuno venga a riscattarla. Quella macchina là è Javier “Chicharito” Hernández.

Il sentimento generale che ruota attorno al “Chicharito” è che ovunque sia approdato non abbia ricevuto l’attenzione e la considerazione adeguata, che non abbia saputo suscitare una percezione all’altezza di quella che meritasse. Un concetto più complesso della sottovalutazione, che ha a che fare con la credibilità.

Per un personaggio come lui, primo messicano ad aver avuto una carriera realmente solida in Europa in tempi moderni, risultato della stratificazione di significanti non solo ed esclusivamente calcistici, non può bastare una visione dettata esclusivamente dalle prestazioni e dai risultati. C’entrano la percezione del valore assoluto, ma anche l’allineamento della dinamica di gestione del talento a quella di altri talenti mai sbocciati o sprecati, e anche le aspettative riposte: quelle degli altri, e le sue in se stesso.

La sua prestazione contro l’Atletico Madrid non è stata dissimile, in termini statistici, da altre di questa stagione; in realtà è stata assolutamente in linea coi numeri classici del Chicharito delle ultime sei o sette stagioni. Ha tirato 3 volte, ed è la sua media perfetta, contro la porta di Oblak; ha contribuito alle trame, per quanto sterili, d’attacco del Leverkusen, ma l’ha fatto senza smalto, e quindi senza incisività, quasi controvoglia. Orfano di Schmidt e dei suoi meccanismi di gioco, rasato a zero per una scommessa persa (che in qualche senso è una buona sineddoche, assai didascalica, della sua carriera), quella in campo era solo l’ombra del Chicharito che l’anno scorso, di questi tempi, sembrava davvero essere rinato, o aver finalmente trovato la sua dimensione.

Nella primavera di sette anni fa il Chicharito arrivava in Europa. Oggi, dopo aver salutato, con un velo di tristezza, la competizione che più di ogni altro messicano l’ha visto protagonista, il Chicharito è pronto per intraprendere il viaggio transoceanico. Anche se in direzione opposta.

Chicharito è un non detto

A mezzogiorno dell’8 Aprile del 2010 i giocatori del Chivas di Guadalajara vengono fatti accomodare in sala stampa. Non sanno perché, e non lo scoprono fin quando sullo schermo compare la faccia sorridente di Javier Hernández, il loro compagno di squadra post-adolescente. Indossa una cravatta fucsia, e in un inglese fluente, marcato dall’accento messicano, dichiara tutta la felicità di essere un nuovo giocatore del Manchester United.

Le persone a conoscenza della firma del contratto erano solo quattro: il Chicharito, suo padre, e i presidenti del Manchester United e Chivas. Anche Marco Garcés, per quanto potesse averlo intuito, ne ha ufficialità solo dopo la conferenza stampa.

La maniera in cui il tesseramento del Chicharito è stato annunciato dal Manchester United, tra le righe, nasconde un sentimento pervasivo che finirà per farsi ricorrente nella parabola di Javier, a volte con sfumature inquietanti: il non detto, la segretezza, lo avvolgono come se il Chicharito fosse un tema tabù, un discorso che non si può affrontare del tutto, forse per paura di sbagliare. Il Chicharito è sempre stato un tweet del quale non sei sicuro non ti vergognerai tra qualche anno.

Tra i bonus legati alla riservatezza della trattativa c’era la promessa di giocare un Chivas-Manchester United nell’inaugurazione del nuovo stadio Jalisco. Il Chicharito gioca il primo tempo con i Chivas, e segna questo gol pieno di promesse.

Garcés è il responsabile di buona parte dei trasferimenti in tempi moderni di calciatori messicani in Europa. Mentre frequentava un corso da match-analyst ha avuto come docente Jim Lawlor, il capo del reparto scouting dei “Red Devils”. Hanno inaugurato una collaborazione fatta di suggerimenti, dritte, analisi di giovani prospetti.

Il Chicharito, solo un anno prima, aveva pensato che il suo futuro potesse essere altro dal calcio. Dopo aver esordito appena diciottenne, nel 2006, segnando un gol che contiene in nuce i movimenti e l’approccio del tipo di attaccante che sarebbe diventato, per tre stagioni è stato completamente dimenticato: uno strappo doloroso dalla realtà professionistica che ancora oggi lo commuove, e che ha contribuito a tessere il velo di tristezza che ha avvolto per troppo tempo, durante la sua adolescenza, il suo rapporto con il campo.

Nel 2005 era stato escluso, per questioni politiche più che meritocratiche, dalla rosa che avrebbe partecipato ai Mondiali U17 in Perù: quel Messico vinse la Coppa e per Gio Dos Santos e Carlos Vela si sarebbero spalancate le porte del Barcellona e dell’Arsenal.

Poi, nel giro di un anno, è esploso: ha guidato i Chivas alla vittoria del torneo Centenario segnando 21 gol in 28 partite, ha esordito nel Tri, partecipato ai Mondiali di Sudafrica: probabilmente era uno dei pochi calciatori mundialisti che all’epoca ancora vivevano coi propri genitori.

Non è corretto dire che in Europa non conoscessero il Chicharito: era pressoché sconosciuto anche in Messico. Nella prima partita ufficiale con il Manchester, la finale di Community Shield a Wembley contro il Chelsea, il Chicharito è ormai davvero la Next Big Thing messicana: ai Mondiali si è fatto spazio, ha anche segnato due reti contro avversari prestigiosi, la Francia e l’Argentina.

In Community Shield segna la rete del 2-0, ed è un gol strano, che apre a diverse interpretazioni - del gol in sé, e chissà anche di chi l’ha segnato.

A prima vista sembra che colpisca la palla di testa, in maniera netta, in tuffo: dal replay si vede invece come nella carambola che si traduce nel gol siano mescolate intenzionalità, certo, ma anche furbizia, casualità e un pizzico di fortuna. Cioè la ricetta che insieme a tre gocce di angostura ci restituisce la perfetta essenza del Chicharito, uno dei cocktail più in voga alla fine degli anni Zero.

Un aspetto interessante della carriera del Chicharito è il modo in cui è percepito dal pubblico messicano. Nonostante i connazionali che abbiano vestito maglie prestigiose si potessero davvero contare sulle dita di una mano, nessuno è disposto a riporre fiducia in lui. Al momento della firma, come ricorda Marcos Garcé, dicevano “giocherà un paio di partite e lo manderanno in prestito”. Ma alla chiusura del mercato il Chicharito era ancora all’Old Trafford. “Non è andato in prestito: bene, non giocherà mai”, dicevano ancora in Messico. Ma il Chicharito giocava. “E se pure giocherà, non scenderà mai in campo nelle partite davvero importanti”.

Il colpo di testa in sospensione, come sollevato da un cavo meccanico, è un po’ un marchio di fabbrica del Chicharito.

Questione di aspettative

«Non ho ricordi di quando ero un ragazzino in cui non c’entri in un modo o nell’altro il calcio, gli stadi», dice il Chicharito. Figlio di un calciatore, nipote di un calciatore, non era scontato che il suo contesto d’arrivo potesse essere questo.

Tomás Balcazár, il nonno materno, lo chiamavano cabecita de oro: Balcazár ha segnato un gol nei Mondiali del 1954, a Ginevra, contro la Francia. Aveva 22 anni, cioè la stessa età in cui Chicharito, mezzo secolo dopo, sarebbe andato a segno. Ancora in un Mondiale. Ancora contro la Francia.

Quando era ancora il Chicharo, o “il figlio del Chicharo”.

La genetica è una scienza esatta, e dev’esserci qualcosa di cromosomico, oltre che di naturale trasmissione culturale, nella maniera in cui Javier ha imparato a colpire di testa. C’è un bel documentario di ESPN in cui la nonna del Chicharito descrive con occhi pieni d’amore come sapesse librarsi in aria Tomás Balcazár, suo marito, restare sospeso per schiacciare di testa. Le parole della nonna sembrano descrivere con esattezza, pur parlando del nonno, questo gol, il primo con la maglia del Messico, importante almeno per due motivi: perché ha convinto Javier Aguirre a portarlo in Sudafrica. E poi, perché è stato segnato a Pasadena, California.

C’è chi ha paragonato questa levitazione, in maniera meno iperbolica di quanto possa sembrare, a quelle di Michael Jordan.

«Il mio sogno è sempre stato esordire in Primera, segnare un gol al debutto, essere campione con la migliore squadra del Messico, diventare un giocatore importante nel mio club e arrivare in Nazionale».

A ventidue anni, vale a dire già 7 anni fa, il Chicharito aveva messo tutte le spunte alla sua to do list: se da una parte è sbalorditivo, dall’altra può anche non essere del tutto stimolante aver raggiunto ognuno degli obiettivi prefissati così presto. Il problema, a questo punto, diventa il nostro: e se avessimo aspettato per tutto questo tempo un giocatore che invece era già arrivato dove si era prefissato di arrivare?

Il Chicharito ha sempre disputato delle “prime stagioni” memorabili. Siccome è il maestro delle cose prime, qua c’è un primo controllo formidabile contro il Celta, in occasione dell’unica doppietta segnata nella parentesi al Real Madrid.

In un’altra intervista Javier racchiude in tre parole il suo karma: fede, fiducia, pazienza. È una tripletta che suona giustificatoria soprattutto del primo tratto della sua carriera, ma non spiega perché, da Manchester in poi, non sia mai davvero esploso. Non sembra uno che non ha fiducia nei propri mezzi. E neppure che abbia poca pazienza.

Straniero nella sua nazione

Pur essendo probabilmente il calciatore messicano con il maggior impatto sul calcio europeo, il Chicharito soffre i confronti col padre, col nonno, con Hugo Sánchez. Anche con Jared Borgetti, che non riesce a scalzare dal trono di cannoniere principe nella storia della Tri. Il Chicharito è stato letteralmente cannibalizzato dai paragoni.

Questo continuo stato d’allerta, a metà tra la mania di persecuzione e una spada di Damocle, non gli ha permesso di godersi appieno nessuna delle sue esperienze, per quanto neppure nelle stagioni con minor minutaggio (l’ultima a Manchester, con Moyes, e quella a Madrid, rimpiazzo consapevole di ricoprire un ruolo marginale nelle dinamiche gerarchiche della squadra) sia mai sceso sotto le dieci reti. Ammesso che il successo del Chicharito dovesse per forza passare dalle reti segnate.

Che non sono comunque poche. Qua tutte e 45 le reti segnate con El Tri.

La sua percezione da parte del pubblico messicano ha avuto una metabolizzazione difficoltosa: una relazione che si è spesso cristallizzata in grumi biliosi. In un’intervista a Televisa Deportes, di poco successiva al suo approdo al Bayer Leverkusen, ha condannato la pratica degli accostamenti pretestuosi: «Avevo appena iniziato la mia carriera e già mi paragonavano a Omar Bravo. Chi è meglio?, dicevano. Poi vado in Nazionale e anche lì paragoni, mi sta bene, ma oggi tutto quello che fanno i media messicani è farci litigare, metterci gli uni contro gli altri: mi paragonano a Luis Garcia per i gol, io non voglio starci, non mettetemi in mezzo [...]. Il nostro peggior nemico, e allo stesso tempo il peggiore alleato, è il messicano».

Cadere, rialzarsi, perseverare, raccogliere i frutti. Decisamente la sua epica preferita.

L’invidia non sembra un sentimento che possa appartenere al Chicharito: eppure i contesti nei quali si trova immerso gli generano una competitività cattiva, che degenera nella disperazione dell’incompreso e che spesso viene travisata in spocchia.

I termini di paragone più ingenerosi, per Javier, sono quelli con gli esponenti di spicco della sua generazione, quella dorata dei Vela e degli Gio: a differenza loro, il Chicharito non ha mai strappato un oooh! d’ammirazione rapita; piuttosto, degli aaah! di compiacenza per la passione con la quale approccia il campo. La grande colpa del Chicharito è quella di non aver mai saputo, in fondo, entusiasmare.

A un certo punto è arrivato a dire di sentirsi straniero nella sua Nazionale. E anche l’esperienza al Bayer Leverkusen è tutt’altro che idilliaca, dal punto di vista dei rapporti interpersonali. Il Chicharito vive sul serio in un mondo a sé, nel quale è al contempo vittima e carnefice? È più amato o odiato?

Sports Bild lo ha accusato di non giocare per i compagni, di non socializzare, di non essere andato alla festa di Natale. Ha litigato in campo con Bellarabi, quasi arrivando alle mani.

Anche se la Bundesliga ha preferito raccontare la storia più rilucente, quella del Cenerentolo che trova la scarpa di cristallo e comincia a segnare reti a grappoli.

Dopo una stagione pazzesca, nella quale è andato evidentemente in overperformance, non appena gli ingranaggi di Schmidt si sono inceppati il Chicharito è andato in crisi.

Per rendere al meglio, Javier ha bisogno di fiducia. Di poter contare sull’appoggio incondizionato del tecnico, dei compagni, del pubblico. Ma l’appoggio incondizionato è una merce rara, e non appena i gol sono venuti a mancare, e gli attriti coi compagni sono emersi in campo, Chicharito si è come svuotato.

L’involuzione, in realtà, è un ritorno alla sua vera essenza: da attaccante associativo con Schmidt, che pressava e dettava i tempi a tutta la manovra d’attacco, è tornato a ricoprire il ruolo di finalizzatore finale, isolato, costretto a giocare una partita a sé, slegata da quella dei compagni.

Chicharito goes to Hollywood?

Quella contro l’Atletico Madrid è stata, con tutta probabilità, l’ultima partita che il Chicharito giocherà in Champions League. Non sembra esserci nessuna ragione per prolungare la sua permanenza in Germania, e nessun ostacolo a un ritorno dall’altra parte dell’Oceano, soprattutto se il Bayer non riuscirà a centrare, come è successo negli ultimi sette anni consecutivi, una qualificazione alle coppe europee.

Un ingaggio da parte del LAFC, la nuova franchigia MLS di Los Angeles che debutterà nel 2018, sembra essere, più che un rumor, il meglio che ci si possa auspicare per il futuro di Javier Hernández. Chicharito sembra fatto apposta per la MLS: ha i crismi della star mediatica, è adorato più dai messicani expat negli States che da quelli rimasti in Messico, e in più ha il carisma perfetto - oltre che una tecnica che sposta ancora gli equilibri - per diventare il di una newcomer.

Nella scorsa estate il Bayer Leverkusen ha viaggiato in tournée negli States. Grimaldello imprescindibile per una penetrazione sul mercato nordamericano, il Chicharito ha avuto la dimostrazione non solo di essere estremamente efficace come volano di marketing, ma anche che il suo posto, quello in cui è più acclamato e desiderato, forse, è là.

Durante la tournée è stata lanciata la vendita della maglia dei tedeschi sul mercato statunitense e messicano: nella prima settimana ne sono state vendute più di 12mila, esattamente il numero di maglie vendute in Germania negli anni precedenti. Con il lancio dei profili Twitter in inglese e spagnolo, il Bayer ha avuto un incremento dei followers del 98%.

Nella carriera del Chicharito, i Mondiali hanno sempre costituito uno snodo fondamentale: quello del 2010 ha inaugurato la sua narrativa, quello del 2014 è stato la linea di demarcazione tra l’esperienza al Manchester e il passaggio, meno meteoritico di quanto possiamo ricordare, a Madrid.

Chissà che l’anno prossimo, in Russia, il Messico non possa contare sulla nuova - definitiva e per questo massimamente ridondante - reincarnazione del Chicharito.

Circondato dall’affetto della sua gente, e da un contesto che lo assurga finalmente a centro di catalizzazione delle attenzioni, il Chicharito potrebbe davvero, forse per la prima volta, presentarsi per quello che è: un calciatore che voleva arrivare abbastanza in alto, ma senza spingersi troppo in là. Neppure da casa.

Dopotutto, è solo alla soglia dei trent’anni: la sua mistica è ancora tutta in divenire, e Hollywood è il posto adatto in cui grandi sceneggiature si trasformano in grandi film.

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