Il ChievoVerona è stato il primo club italiano a completare la scalata di tutte le categorie calcistiche, presentandosi alle porte della Serie A 2001/02 dopo 15 anni tra i professionisti, accompagnato da una bella carica di quello che oggi chiameremmo hype. Campedelli, all’epoca il presidente più giovane del campionato, personificava un modello di gestione societaria virtuosa e identitaria e, se vogliamo, anacronistica, in un contesto storico dominato dalle grandi spese e dai nomi altisonanti che caratterizzavano il campionato italiano.
La dirigenza scelse di confermare il blocco che conquistò la promozione arrivando al terzo posto nel campionato di Serie B dell’anno prima, incluso ovviamente l’allenatore, Luigi Delneri, al secondo anno sulla panchina. Il mercato estivo fu comunque robusto, con 10 operazioni in uscita e 15 in entrata, tra cui Lupatelli, Legrottaglie, Perrotta e Marazzina.
Delneri puntò sin da subito su un gruppo di titolari ben definito, contribuendo a creare nell’immaginario collettivo la classica filastrocca che si recita intonando il nome del portiere e del quartetto difensivo (come i ben più quotati gruppetti di Milan, Juventus e così via) lasciando in sospeso il resto dell’undici. Lupatelli, il portiere che aveva scelto di indossare la numero 10, preconizzando a sua insaputa la straordinarietà di quella stagione, veniva seguito da Moro, D’Anna, D’Angelo e Lanna. Davanti a loro, Luciano (ai tempi conosciuto come Eriberto), Perrotta, Corini e Manfredini anticipavano Marazzina e Corradi. Saltuariamente trovarono spazio in questa formazione anche Legrottaglie, Cossato, Barone.
La parabola ascendente del Chievo caratterizzò tutto il girone di andata, durante il quale la squadra di Delneri riuscì a rimanere in testa in solitaria dall’ottava alla sedicesima giornata, il filotto più lungo tra le squadre che si contesero la vetta. La stagione, infatti, fu piuttosto incerta sotto questo aspetto fino all’ultima giornata, il celebre 5 maggio 2002.
La zona pura di Delneri
Delneri non inventò nulla, ma la sua struttura diede l’idea, fin dalle prime partite, di essere solida, rodata e abbastanza temibile, nella sua essenzialità, dal punto di vista offensivo. L’equilibrio del Chievo si reggeva sulla compattezza dei reparti, con un approccio scolastico ma estremo della marcatura a zona integrale, che prevedeva un innalzamento esasperato della linea difensiva e un grande sfruttamento della tattica del fuorigioco.
In fase difensiva il Chievo cercava di portare il suo blocco più in alto possibile, muovendosi con riferimento al pallone e applicando la forma più “estrema” di difesa a zona, rinunciando (perfettamente in linea con i canoni dei tempi) quasi sistematicamente a pressare alto l’avversario.
Un esempio di difesa posizionale del Chievo: qui lo spazio tra le linee viene coperto da D’Anna in uscita, con Lanna pronto a dare copertura. Le due punte rimanevano alte per fare da riferimento immediato nelle ripartenze, mentre Luciano e Manfredini si portavano ai lati di Perrotta e Corini.
L’atteggiamento posizionale del Chievo era di matrice conservativa, nonostante le sue tendenze con la palla fossero iper-verticali e la copertura della profondità veniva affrontata con un’applicazione a tratti estrema della tattica del fuorigioco. Il punto di compromesso tra la frenetica manovra offensiva e una fase difensiva più passiva veniva raggiunto attraverso l’assegnazione di compiti più prudenti ad alcuni giocatori in fase di possesso (in particolar modo i terzini), per avere un maggiore controllo sulle transizioni negative e per spezzare il meno possibile le distanze dei quattro dietro.
Il castello difensivo del Chievo si reggeva dunque sulla reattività di lettura delle traiettorie e i conseguenti aggiustamenti in copertura del giocatore che usciva a contrastare o a duellare su una palla alta, con un occhio particolare al mantenimento delle distanze per rendere più agevoli le scalate. Le uniche fasi in cui il Chievo mostrava un atteggiamento collettivamente più aggressivo sul pallone erano le seconde palle, soprattutto nella fascia centrale del campo, dove poteva sfruttare la naturale vicinanza di più elementi.
La separazione che si veniva a creare tra i terzini e gli esterni di centrocampo in fase offensiva poteva creare qualche noia, ma la quantità di corse all’indietro di Luciano e Manfredini, messi a dura prova da questo sistema, erano tutto sommato sufficienti a garantire un certo equilibrio. L’aspetto più peculiare della fase difensiva del Chievo, e forse anche il più efficace, era però la tattica del fuorigioco.
Qui Ronaldo riceve spalle alla porta, la difesa riconosce immediatamente la situazione di palla coperta e scatta in avanti a una velocità altissima, mettendo in fuorigioco Guly e Vieri.
Ovviamente questo stile difensivo portava con sé delle difficoltà che spesso esponevano la difesa a situazioni difficilmente gestibili, come quando veniva puntata in campo aperto, a palla scoperta, e doveva difendersi da un inserimento in profondità.
Una delle belle vittorie del Chievo, iniziata però con diverse sudate fredde.
Insomma, il Chievo era una squadra che difendeva a modo suo e senza compromessi, anche contro avversarie molto più quotate, che nel corso della stagione non si è fatta scalfire più di tanto dal numero non basso di gol e occasioni subite. Anzi può essere stata proprio questa abitudine ad accettare il confronto a tutto campo contro ogni avversario a far scattare una molla propulsiva nella prima parte di stagione.
Verticalità e ritmo
A far stabilire il Chievo ai vertici della classifica fu soprattutto il funzionamento dei meccanismi offensivi messi a punto da Delneri, che senza dubbio beneficiò della continuità di progetto dopo la semina dell’anno precedente. La squadra era diretta e ambiziosa quando attaccava, e cercava di arrivare il più rapidamente possibile sulla trequarti avversaria, supportando ogni verticalizzazione con ulteriori movimenti in profondità, sia centrali che sulle fasce.
Su questo rinvio dal fondo di Lupatelli possiamo notare la separazione netta tra il blocco difensivo e quello offensivo.
Si trattava di uno stile offensivo decisamente italiano: pur accettando le fasi in cui era costretto a subire il gioco avversario, il Chievo era una squadra a cui piaceva avere il pallone, ma la sua strategia era basata sul ritmo e la velocità di esecuzione di pochi e rodati pattern. Ovviamente tutto ciò non avrebbe potuto funzionare su questi livelli senza un adeguato assortimento di caratteristiche dei singoli, che tutto sommato sembravano più valorizzati che strozzati dalla schematicità del gioco.
Partendo da dietro, il Chievo giocava pochi palloni coi suoi centrali, cercando di appoggiarsi prevalentemente ai due terzini o a uno dei mediani (per lo più Corini), che tuttavia non si avvicinavano mai alla linea difensiva, ma cercavano la ricezione su zone più avanzate. I due terzini superavano raramente la linea di centrocampo e ancor più di rado arrivavano al cross, ma erano forse le due risorse principali per la ricerca della verticalità dal basso, essendo deputati a lanciare con precisione millimetrica su Corradi o al massimo a cercare un lungolinea verso l’esterno di parte.
Emblematica questa azione, con Lanna che rinuncia a condurre palla nonostante il tantissimo spazio a disposizione, per cercare il lancio verso Corradi.
Corini e Perrotta, in mezzo, avevano compiti e caratteristiche radicalmente differenti, e si amalgamavano bene sia tra di loro che con il resto degli attaccanti. Corini, tiratore designato di rigori e punizioni, pur non coadiuvando costantemente la costruzione come sarebbe normale aspettarsi oggi da un giocatore di quel tipo, era un grande gestore dei tempi di gioco e vigilava sui movimenti dei compagni, in entrambe le fasi, per comportarsi di conseguenza, premiando smarcamenti e coprendo le uscite in pressione, ma anche accompagnando le azioni d’attacco, rimanendo però più spesso a protezione della difesa. Perrotta invece mostrò subito di avere una certa propensione nell’attacco degli spazi, sia dal punto di vista quantitativo che da quello qualitativo. I suoi movimenti erano preziosi sia a rimorchio centrale per raccogliere le sponde, sia sul centro-destra, dove poteva supportare Luciano.
Le prime, straripanti, corse in avanti di Perrotta in Serie A erano forse l’unica variazione posizionale del rigido 4-4-2 di Delneri. Una scheggia impazzita rispetto ai compagni.
Sulle fasce, Luciano e Manfredini dovevano coprire un molti metri. Entrambi erano veloci ed esplosivi, Luciano era il più creativo e imprevedibile, mentre Manfredini più solido e ordinato. I loro compiti erano però molto simili: due esterni da binario chiamati a fare su e giù per la riga laterale in entrambe le fasi, buttandosi a capofitto in avanti quando il pallone partiva verso una delle punte, ingaggiando un quantitativo enorme di uno contro uno (soprattutto Luciano) e dando una preziosa accelerata all’inerzia della manovra.
Luciano e Manfredini erano dunque al servizio delle due punte, Corradi e Marazzina, ovvero i riferimenti principali di qualsiasi azione. I due erano costantemente vicini, Corradi più orientato a ricevere la verticalizzazione dai terzini o da Corini, Marazzina pronto a ronzargli intorno per raccogliere la sponda e aprire il gioco, puntare la difesa o smarcarsi in profondità, a seconda delle evenienze.
Corradi proteggeva il pallone sfruttando le sue grandi doti fisiche, ma sapeva anche giocare a uno o due tocchi appoggiandosi sul terzo uomo, che spesso era Marazzina o Perrotta (i giocatori che avevano più libertà di movimento e che erano sempre pronti a dargli un riferimento sul corto), dovendo comunque tenersi pronto ad agire da seconda punta se a ricevere spalle alla porta era Marazzina.
Due tipiche azioni del Chievo: nelle prime tre slide, verticalizzazione da Moro verso Marazzina, Corradi che riceve la sponda e sfrutta il movimento in profondità di Luciano. Nella quarta, invece, è Corradi a ricevere la verticalizzazione, senza compagni vicini riesce a proteggere il pallone e lanciare Luciano con un bel filtrante.
I movimenti a elastico delle due punte erano spesso difficili da contenere per le difese avversarie, perché la punta che riceveva era efficace nella protezione e rapida a scaricare, mentre Perrotta e i due esterni riuscivano a infilarsi immediatamente in qualsiasi fessura veniva a crearsi nella linea. Marazzina e Corradi furono i due migliori realizzatori del Chievo in stagione, il primo con 13 gol e il secondo con 10.
Due colpi di tacco consecutivi, Corradi che protegge palla, Perrotta che si butta dentro, Marazzina lucido davanti al portiere. Chievo in vantaggio al Delle Alpi.
L’arrivo del 2002 coincise con un calo nel rendimento che durò fino a primavera, ma la notizia peggiore di questo periodo fu la morte in un tragico incidente stradale di Jason Mayélé, attaccante congolese, la sera del 2 marzo. Questo avvenimento scosse fortemente la serenità di un ambiente che, nonostante il comprensibile calo sul campo, stava comunque sognando oltre ogni rosea aspettativa e si trovava in una situazione di classifica clamorosa, in piena lotta Champions. Il Chievo si sbloccherà parzialmente grazie a una vittoria nel derby contro l’Hellas a fine marzo. In tutto il girone arrivarono però solo 3 vittorie e i “Mussi Volanti” chiusero il campionato a 54 punti, a una sola lunghezza dal Milan quarto in classifica, che si qualificò per la Champions col punteggio più basso di sempre (andandola poi a vincere a Manchester contro la Juventus la stagione successiva). Nonostante i sincronismi e l’ambizione, il Chievo incassò ben 52 reti e appena 8 clean sheets, ma riuscì a restare sempre nelle zone alte della classifica grazie alle ottime capacità realizzative (57 gol fatti, il quarto attacco del campionato).
Fu una stagione ricca di paradossi e sbalzi emotivi per il Chievo, ma il climax negativo del girone di ritorno non è comunque stato sufficiente a cancellare dalla memoria collettiva l’impresa di una realtà così piccola, che fece da trampolino per Gigi Delneri verso altre realtà di dimensioni ben più grandi, dove però non è mai riuscito a ricreare il feeling e l’efficacia raggiunti in questi anni al Chievo, fatta eccezione forse solo per la stagione del ritorno in Champions della Sampdoria nel 2009/10. In tutte le sue esperienze successive, Delneri ha cercato di riproporre il suo iconico 4-4-2 basato sulla difesa a zona e sulla verticalità, ma raccogliendo poche soddisfazioni. Attraverso uno stile di gioco non particolarmente innovativo, ma senz’altro rapido, convinto e convincente, Delneri contribuì a scrivere una delle storie più belle del calcio italiano, consegnando agli archivi una stagione straordinaria anche dal punto di vista delle prestazioni individuali. Nonostante un finale abbastanza amaro potrà senza dubbio dirsi orgoglioso della sua carriera.