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Chris Mullin, ragione e sentimento
07 dic 2021
La storia del perfetto connubio tra streetball e ortodossia tecnica.
(articolo)
26 min
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Il basket di strada e quello organizzato rappresentano due rette parallele destinate a non incontrarsi mai e le rare eccezioni a questo assunto confermano la regola, come da copione. I playground di Oakland hanno prodotto Gary Payton e Jason Kidd, ad esempio, ma in entrambi i casi questi leggendari playmaker hanno sacrificato il loro istinto primordiale sull'altare del libro degli schemi. Una pacificazione che in altri soggetti ha conosciuto declinazioni meno pragmatiche, con il pensiero che corre alla vena poetica e fieramente istrionica di Jason Williams. Mondi diversi entrati in contatto grazie al filtro del mondo collegiale e del torneo NCAA, spesso con la supervisione di allenatori con un impianto tecnico collaudato, poco inclini alla carota e avvezzi al metaforico bastone. Con il ruolo didattico delle università in crisi, la NBA non è più considerato il punto di arrivo ma si è trasformata in un trampolino di lancio per i teenager più dotati. La prospettiva fragrante del potenziale da modellare ha progressivamente preso piede tra gli appassionati, nonché dilatato e scandito il ritmo dei roster in ricostruzione.

Questa ondata di normalizzazione va accolta senza lasciarsi sedurre dal demone della nostalgia. Studiare le caratteristiche dei fuoriclasse che hanno scritto grandi capitoli è un esercizio utile anche per capire meglio l’origine di quanto abbiamo oggi. Chris Mullin è forse il componente del Dream Team di Barcellona meno celebrato, eppure tra la fine degli anni Ottanta e la prima metà dei Novanta è stato uno dei migliori realizzatori sulla Terra. La sua storia è un unicum che vale la pena di ricordare: forse nessun interprete NBA è riuscito a cucire assieme con tanta efficacia la pallacanestro aspra e selvaggia dei playground con il manuale “virtuale” del perfetto giocatore di sistema. Dal principio ha infiammato New York e poi ha contribuito da protagonista a una delle versioni più eccitanti in assoluto dei Golden State Warriors. E mescolando con maestria due anime del basket ha messo in mostra una sottovalutata universalità e una longevità di assoluto rispetto. Etichettato banalmente solo come tiratore, il suo retaggio si è in parte smarrito a causa di una narrativa poco efficace che non è decollata dal principio e si è poi incagliata in paragoni poco efficaci. Tentiamo di recuperare.

The Fresh Prince of Brooklyn

Rod Mullin lavora all’ufficio doganale di stanza all'aeroporto internazionale John Fitzgerald Kennedy, un incarico che lo porta lontano dai suoi cari talvolta per 16 ore al giorno. Gestire la vivacità dei quattro figli maschi è spesso un'impresa e per canalizzare le energie degli eredi costruisce nel cortile di casa un campo da basket. In breve tempo questa arena si trasforma in una piccola Mecca per i devoti della palla a spicchi e in un polo di attrazione per i passanti incuriositi dalle urla. I ragazzi danno vita a interminabili e violente partite due contro due che proseguono nella camera che condividono. La famiglia è di origine irlandese e cattolica: la fede è una cosa seria per i Mullin, come attesta la presenza di una coppia di suore novantenni al discorso di cerimonia per la Hall Of Fame nel 2011. La reputazione di Chris lievita quando muove i primi passi nella lega della Organizzazione giovanile cattolica, la CYO: a 10 anni viene avvicinato e riempito di complimenti da Lou Carnesecca, destinato a diventare la sua musa cestistica. Quando si tratta di scegliere il liceo, la lista dei pretendenti è lunga: numerosi intermediari affollano il cortile. Si fa un gran parlare del suo potenziale, come avverrà anche per Stephon Marbury, Kenny Anderson e Felipe Lopez decadi dopo di lui. Sembra in effetti materiale inequivocabilmente adatto ai professionisti, a soli 14 anni.

Mullin accetta la corte della Power Memorial Academy, una scuola maschile con un ottimo programma sportivo e ben conosciuta dagli appassionati grazie ai vecchi fasti del fu Lew Alcindor, meglio noto come Kareem Abdul Jabbar. La pressione è già enorme, anche se il fisico in via di formazione non gli consente di surclassare la concorrenza secondo le attese. Quando non gioca nel migliore dei modi, l’intero vicinato non esita a palesare insofferenza. Il rapporto con i compagni non è idilliaco, ma per fortuna stringe un profondo legame con Mario Elie che in poco tempo diventerà suo complice nelle esplorazioni nei playground della Grande Mela. In un periodo di grandi tensioni razziali questo ragazzo paffutello, poco atletico e con una pettinatura simile a quella di Michael J.Fox perlustra tutti i campetti più famosi della metropoli per sfidare le leggende dello streetball locale. L’aspetto improbabile lascia velocemente spazio allo stupore degli avversari che faticano a limitarlo. Lo scopo è quello di catturare la vera essenza di questo sport e di connettersi con l’anima del “City Game” più intimista. Elie lo protegge quando gli animi si eccitano per colpa delle sfide (che vince con discreta facilità) rischiando di esplodere, lo scorta affettuosamente nei lunghi trasferimenti che durano diverse ore. Incassa e restituisce colpi proibiti con nonchalance. In questo periodo sembra più interessato ai campetti che al liceo, anche perché non riesce ad integrarsi nella nuova scuola.

Su di lui cominciano a piovere le prime etichette negative e circolano dubbi riguardo sia i mezzi fisici che la motivazione. Quando arriva la prima panchina punitiva, Mullin prepara i bagagli e si trasferisce nella roccaforte cattolica della Xaverian, nella splendida Bay Ridge. Il trasloco gli costa un anno di stop ma ha bisogno di una comfort zone per potersi esprimere al meglio, tanto più che i reclutatori non hanno alcuna intenzione di cancellare il nome dai taccuini. Quando rientra sul parquet griffa 17 dei primi 21 punti della squadra, dimostrando progressi tangibili del repertorio e finalmente un agonismo feroce. Al suo ultimo anno, nel 1981, conquista il riconoscimento di “Mr. Basketball” e trascina la Xaverian al titolo statale: le maggiori università del paese cominciano le manovre per conquistare i suoi servigi. Il più determinato appare coach Mike Krzyzewski che si presenta con il canonico mazzo di fiori e la scatola di cioccolatini nella casa di Brooklyn in un paio di occasioni. Duke diventa favorita e a quel punto si intensificano le pressioni di Virginia e di Villanova, che riescono a strappare solo una visita ai loro campus. Lou Carnesecca nel frattempo ha ripreso le redini di St. John’s dopo la parentesi ABA e gli propone di fare una capatina nel Queens, a poche miglia di distanza. Irlandesi e italiani sanno intendersi: Chris sceglie di rimanere in città. Il “povero” Krzyzewski, intervistato negli anni successivi, non ha mai esitato a definire quello smacco una delle più grandi delusioni della carriera: voleva disperatamente reclutare Mullin come architrave del suo team.

Tutti gli anni ‘80 possibili e immaginabili condensati in un video di highlights.

New York, New York

Con la maglia dei Red Storm (prima il nickname era “redman”) costruisce un percorso di alto profilo grazie a un'intesa telepatica con lo staff tecnico e un roster che annovera futuri giocatori NBA. Ha nel repertorio un tiro che è tanto delizioso quanto efficace, e in allenamento crivella la retina con disinvoltura anche da metà campo. Le caratteristiche sono quelle di un esterno ma il corpo difetta di velocità e l’indole battagliera lo attira verso il canestro pure in presenza di avversari più prestanti. Sfiora i due metri di altezza ma gioca sempre “più grande della sua taglia”. Carnesecca gli consente ampia libertà: siamo distanti dal concetto di point forward, ma la squadra è nel suo pieno controllo. Il disinvolto metro arbitrale lo spinge a incrementare la massa muscolare e migliorare l'esplosività ma schiaccia a fatica. Nel quadriennio cristallizza una precisa identità: alterna giocate sfacciatamente scolastiche in classico stile Red Auerbach a illuminazioni estemporanee che profumano di playground. Dai polpastrelli scorre tutto in modo semplice e monocorde, un fattore che probabilmente gli aliena le simpatie della stampa e del pubblico generalista che sta scoprendo il basket adrenalinico e muscolare di Magic Johnson e Michael Jordan. Non ha la fortuna di trovare un soprannome accattivante o la fortuna di trascinare un piccolo college. Il personaggio non affascina al modo di prospetti esotici del calibro di Patrick Ewing o Hakeem Olajuwon, la verticalità non è in grado di accendere la fantasia alla maniera di Clyde Drexler e Charles Barkley.

St. John's/Collegiate Images via Getty Images

Il New YorkTimes lo definisce “Gym Rat” per diversi anni, i più maliziosi si spingono a definirlo una versione “bianca” di Larry Bird per cercare un profilo in grado di esaltare solo gli addetti ai lavori. St. John’s a dire il vero accende gli appassionati di New York che devono fare i conti con una trascurabile versione dei Knicks e sognano il titolo collegiale per far tornare la città al centro della scena nazionale. Mullin resta quasi sullo sfondo: più che il fattore principale viene considerato un beneficiato di questo momento magico. Ma quando la squadra accede alle Final Four o si attesta in cima al ranking, il clima diventa elettrico. Diverse gare vengono dirottate al Madison Square Garden che risponde con il tutto esaurito e un clima degno di una finale Olimpica. Chris a questo livello esercita un dominio silenzioso simile a quello a cui ci ha abituato Tim Duncan nella seconda parte di carriera: poche licenze allo spettacolo, massima efficienza balistica se analizziamo i 13 tiri scarsi di media in quattro anni con il 55% dal campo, linguaggio del corpo sobrio nonostante le divagazioni artistiche. Nel pieno boom dei sistemi difensivi estremi, il gruppo di Carnesecca flirta con il canestro con il piglio di un roster ABA. Uno stile armonioso con un occhio di riguardo allo show, aspetto che ripugna gli avanguardisti. Le teorie offensive del coach sono popolari persino nel nostro campionato e la base della “Flex Offense” in voga nelle migliori squadre del Belpaese al tempo. I suoi clinic si trasformano in cult e l'ateneo oggetto di numerosi pellegrinaggi.

Nei momenti topici anche la Statua della Libertà, che come ricordato da Federico Buffa sembra sempre pronta a ricevere il pallone in post basso, viene illuminata con i colori dei redman. Il titolo NCAA sfugge agli appassionati della Grande Mela, ma quel gruppo con Mark Jackson, Walter Berry e Bill Wennington è rimasto lo stesso una delle espressioni sportive cittadine più amate per un lungo periodo. Mullin riesce a vincere le Olimpiadi del 1984 e a familiarizzare con buona parte dei componenti del Dream Team originale. L’impatto con coach Bobby Knight è più felice del previsto e ne rafforza le attitudini difensive almeno a livello di letture, un lato spesso sottovalutato del suo bagaglio. Quando arriva il momento di approdare al professionismo i grattacapi non mancano: lo status risente notevolmente dei pregiudizi legati allo scarso atletismo, molti scout sono convinti che non sia adatto alla NBA. Qualche insistente voce di corridoio dice che non vorrebbe allontanarsi da Brooklyn. I galloni maturati al college gli permettono di negoziare uno stipendio molto alto (al tempo non esisteva il contratto standard per le matricole), e molte franchigie prima di cominciare a ragionare sulle cifre chiedono ai New York Knicks la disponibilità per una trade. Prende il via un circolo vizioso a dir poco deleterio.

Telefono casa

Con la scelta numero 7 del Draft del 1985 lo scelgono i Golden State Warriors: la prospettiva di un trasferimento a San Francisco atterrisce il suo entourage e le trattative per siglare il contratto innescano il prevedibile triangolo con i Knickerbockers. Prima di lui sono stati selezionati Jon Koncak alla posizione numero 5 e Joe Kleine alla 6: la lega è innamorata dei giocatori interni. In estate comincia una trattativa che sembra sempre sul punto di decollare ma che non approda a nulla di concreto. Mullin è l’ultimo giocatore scelto al primo giro a inchiostrare ufficialmente e si allena con Carnesecca, mentre il suo agente rompe gli indugi solo alla sesta partita di stagione regolare. Molti appassionati sognano la coppia formata dal ragazzo locale e da Pat Ewing, scelta numero uno del Draft 1985, ma il movimento di opinione popolare non trova sponda sui media locali che restano freddini. Nelle prime gare da Warrior appare evidente che il feeling con la retina non trova ostacoli anche al piano di sopra, ma il suo anno da matricola resta sottotraccia rispetto alla classe del Draft. Finisce la stagione in solida doppia cifra per punti segnati (14 a partita), con buone medie al tiro e con la percentuale ai liberi che sfiora il 90%. Evidenzia un gioco lontano dal pallone che nessuno gli aveva accreditato e si dimostra dal principio competitivo. Nelle votazioni del rookie of the year il suo nome non riceve alcuna preferenza a causa di un lungo infortunio mentre troneggiano specialisti cult come Manute Bol e Spud Webb. Gioca in pianta stabile da esterno puro e principalmente da specialista balistico.

Fuori dal campo Mullin cerca di replicare lo stile di vita perfezionato nell'ecosistema universitario senza alcun risultato. Rimpiange i fine settimana trascorsi ad allenarsi fino alle ore piccole, in compagnia di uno stereo portatile che diffondeva i pezzi di Madonna e del fidato assistente allenatore Larry Falabella. Ancora oggi ottimi amici, hanno cementificato il rapporto nelle interminabili sessioni tecniche serali e nella ricerca di letti di fortuna negli uffici dei dirigenti, perfino nell’aula magna dell’ateneo. Le bollette telefoniche sfiorano i 1000 dollari: se non ha il pallone tra le mani, Mullin è sempre in comunicazione con gli amici e familiari rimasti a Brooklyn. Questa solitudine non sembra riflettersi sul parquet, gli iconici movimenti sulla linea di fondo sono fonte di ispirazione per Reggie Miller e più tardi per Klay Thompson. Le uscite dai blocchi vengono impiegate principalmente per liberare il mortifero jumper mancino dai 5/6 metri, ma osservare con la lente di ingrandimento le sue partite è fonte inesauribile di dettagli che non finiscono sul tabellino. Tagli chirurgici, tagliafuori di fattura sartoriale, passaggi a lunga gittata, grande velocità di piedi a dispetto dei limiti fisici. In difesa agisce da battitore libero sulle linee di passaggio grazie all'abilità di rubapalloni, ma quando incrocia il diretto avversario si fa battere troppo spesso. Dopo un lungo periodo caratterizzato da risultati poco brillanti, Golden State affida la panchina al giovane ed emergente George Karl che quando vuole sa miscelare bene un carattere vulcanico a un ferreo pragmatismo.

Il gruppo si qualifica ai playoff con la quinta testa di serie, vince la serie contro gli Utah Jazz già di Stockton e Malone e fa bella figura al secondo turno con i Lakers. Karl comincia a riconoscere il valore tecnico del suo talentuoso sophomore, disegnando per lui dei giochi specifici e preoccupandosi di lavorare sull'autostima ancora fragile. Il neo allenatore riesce a dare un epilogo alla trattativa con i Knicks che continuano a richiederlo e giocare al ribasso. Il giovane timoniere fissa il prezzo e scopre il bluff: Darrell Walker (onesto mestierante) e una prima scelta al Draft del 1987. Il vantaggio tecnico risulta cristallino, ma per finalizzare lo scambio e pareggiare i contratti Mullin dovrebbe negoziare un altro accordo e perdere circa metà del suo stipendio. Il giocatore e il suo agente vacillano ma dal Madison fanno sapere che non hanno intenzione di cedere anche una scelta, e i corteggiatori passano a friendzonare senza riguardi il povero Chris. Questo clamoroso errore di valutazione chiude le porte a un trasferimento che poteva pagare enormi dividendi per la squadra di Patrick Ewing. Quando siamo alle porte del suo terzo anno nella lega, gli Warriors sembrano pronti a spiccare il volo dopo dieci anni di sofferenze tecniche. Karl nell’estate del 1987 è il nuovo idolo dei tifosi ma il proprietario Jim Fitzgerald gradirebbe un profilo con maggiore esperienza e un'impeccabile gestione dei nervi. Viene ingaggiato Don Nelson che, almeno inizialmente, si siede nella stanza dei bottoni della dirigenza con l’obiettivo di conquistare la panchina in un secondo momento. La tensione tra i due contendenti sfiora subito il livello di un duello da vero film Western.

Il punto di svolta

San Francisco viene considerata una franchigia in crescita con un grande potenziale economico, ma il nuovo arrivato deve modellare una squadra in grado di conquistare il vertice. Nel giro di pochi mesi vengono scambiati Sleepy Floyd, Joe Barry Carroll e Purvis Short, che nel 1978 era stato selezionato prima di Larry Bird. Mullin viene considerato un punto fermo ma si presenta al training camp fuori forma e per la prima volta in carriera appare pigro e poco interessato agli allenamenti. Comincia ad arrivare tardi alle sedute di tiro e finisce nel mirino di Nelson che non ha alcuna intenzione di concedergli sconti o un trattamento da star. Il peso è fuori controllo, la bilancia è un problema dall'infortunio al tallone del primo anno e conosce troppe oscillazioni. Soprattutto la tendenza a eccedere con le birre è ormai di dominio pubblico all’interno dell’organizzazione. Chris cerca di rimettersi in sesto e la mano pittorica non tradisce: incrementa la media realizzativa (ormai veleggia sui 20 punti a sera) ma la consueta consistenza e la capacità di coinvolgere i compagni sembrano compromessi. Vorrebbe giocare più vicino al ferro e lasciare in soffitta quella etichetta di semplice tiratore che lo rende insofferente. In squadra non riesce a stringere un rapporto di amicizia, si sente perduto, l’impressione che qualche giocatore rifiuti di passargli il pallone. Cade definitivamente vittima dei demoni personali, un piccolo gruppo di tecnici conosciuti al college fa pressioni sulla dirigenza di Golden State: necessita di aiuto e di supporto.

Allo specchio si riflette invecchiato di quasi dieci anni e al culmine della crisi accetta di entrare in una clinica per disintossicarsi dall’alcool. Investe i canonici 48 giorni, ma alla fine supera brillantemente i problemi di dipendenza. La squadra nel frattempo è affondata nella confusione generata dal dualismo elettrico tra Karl e Nelson. Quando si decide di ricostruire intorno a Ralph Sampson, il centro si infortuna la situazione precipita: il record finale si inabissa verso la lotteria. Il giovane allenatore pretende un'estensione salariale e un attestato di fiducia che Fitzgerald rifiuta, e sentendosi quindi di troppo rassegna le dimissioni prima della fine della stagione. Gli succede l’assistente allenatore Ed Gregory che eredita un bilancio di 16 vittorie e 48 sconfitte, preoccupandosi solo di finire l’annata nel modo più dignitoso possibile in attesa della nuova era di Nellie. Il figlio di Brooklyn torna in campo in discrete condizioni e sopporta l’onda lunga dei giornali che si interrogano sulle origini dei suoi problemi, trascurando il basket giocato. Dalla riabilitazione esce più più solido mentalmente, con un indole più aperta verso il resto del gruppo e una voglia matta di smentire i critici. Molti tifosi lo vedono solo come un virtuoso del catch & shoot e una guardia troppo lenta per gli standard della lega; Nelson, che ha costruito le prime fortune da tecnico brevettando il concetto di point forward, pare l’uomo giusto per l’agognato salto di qualità. Dopo qualche confronto tra le parti, il cambio di ruolo viene concordato per la stagione successiva.

Il tecnico pianifica l’adozione di uno stile run & gun ad alto voltaggio, sulla falsariga dei Denver Nuggets di Paul Westhead, nel momento in cui la lega è dominata da ritmi sincopati e da centri di grande stazza. Non si tratta di una strategia tattica nuova di zecca: già negli anni Sessanta questo modello di gioco aveva dimostrato risultati positivi, ma alla fine degli Ottanta somiglia un azzardo. Mullin può fare molto bene con una filosofia di questo tipo e affronta la offseason con una routine di lavoro estrema: sveglia all’alba, corsa di 5 miglia tra la foschia mattutina di San Francisco, un'ora di esercizi aerobici, un'ora di sala pesi poi doccia, pranzo e trasferimento in palestra. A seguire almeno 400 tiri in sospensione, 200 tiri liberi in meno in 50 minuti e poi allenamenti tecnici di vario genere. Con il training camp alle porte e la quarta stagione della carriera all’orizzonte, questa volta si presenta con il 6% di grasso corporeo e la giusta motivazione. Grazie ai suggerimenti di qualche giornalista migliora anche la gestione con i media e si dimostra più accattivante e solare nelle interviste. Modifica il taglio di capelli, che forse non gli dona dal punto di vista estetico ma contribuisce a trasformare in positivo la sua immagine. L’aspetto strizza l’occhio a un militare più che allo stereotipo di un fattore agricolo e questo cambiamento sembra incontrare il gradimento dei tifosi: l’abito non fa il monaco, ma certamente non guasta. Ora le sue fattezze sono quelle di un atleta credibile e, cosa più importante, finalmente avverte un profondo legame con la città. Al momento di rinnovare il contratto firma con l’intenzione di mettere radici definitivamente e si accorda sulla base di ben 9 anni complessivi. Un accordo per la vita?

Una macchina inarrestabile

Il trasferimento in pianta stabile nella posizione di ala è reso possibile dalla firma di Mitch Richmond che Nelson sceglie al Draft con la quinta scelta. Il nuovo arrivato vince il titolo di matricola dell’anno e si integra alla perfezione con Mullin, che grazie alla trasformazione fisica è finalmente in grado di traslare integralmente il suo gioco nella NBA. Arriva la prima convocazione per la partita delle stelle grazie a un incremento sostanziale nella media assist (5.1), in quella dei rimbalzi (5.9), nei palloni rubati (2.1) e nella produzione offensiva che sfiora i 27 punti per allacciata di scarpe con il 50% dal campo. Il contributo realizzativo è bilanciato in modo certosino: si sviluppa a metà tra la zona verniciata e la “mattonella” dai 5 metri dove è semplicemente immarcabile e opera costantemente con il difensore incollato addosso. Attacca il ferro e realizza sottomani in condizioni di equilibrio precario o con l’ausilio del tabellone che resta una delle sue opzioni preferite. I compagni in panchina impazziscono quando sfida lunghi molto fisici (cioè praticamente tutti al tempo) perchè nonostante i lividi e i colpi proibiti incassati riesce sempre a realizzare come quando si misurava nei playground. Non schiaccia quasi mai, si affida malvolentieri agli isolamenti, il pallone resta nelle sue mani per un tempo molto breve, appena un compagno fa il giusto movimento senza il pallone il suggerimento è automatico. Tira i liberi con percentuali sopraffine, in una serata tipo diverse delle sue conclusioni non scuotono mai la retina e producono uno swish celestiale.

Se costretto spalle a canestro è un maestro a fare perno con il corpo dell'avversario e scoccare la conclusione in frazioni di secondi. Quando prende il tiro nel traffico dell'area alza facilmente la parabola quel tanto che basta per mandare fuori ritmo i migliori stoppatori e generare rapidamente errori di pura frustrazione. In linea generale le forzature sono ridotte al minimo indispensabile: la selezione di tiro è forse una delle raffinate ogni epoca, le letture avanzate gli permettono di occupare in modo luciferino anche le corsie del contropiede. Mullin è il meno rapido di tutti ma arriva con il timing giusto per un facile appoggio al canestro. Tira poco da tre punti (2.2 tentativi di media carriera) che all’inizio degli anni Novanta resta un'opzione di emergenza e non una variante tattica da esplorare. Reggie Miller (4.7 tentativi di media carriera) da questo punto di vista ha osato di più ed è forse riuscito a lasciare un'immagine più vivida negli occhi dei tifosi, proponendosi come il primo Vero Grande Tiratore da Tre. Il fatto è che Chris preferisce misurarsi con la fisicità dei difensori e ottenere un vantaggio a ogni contatto: è stato un interprete magistrale della pallacanestro congestionata e sostanzialmente priva di spaziature capace di forgiare la generazione del Dream Team. Il suo stile va assimilato, compreso e assaporato con calma: al culmine della potenziale era uno dei giocatori preferiti del pubblico europeo che stava familiarizzando con la lega. Con gli anni è diventato un feticcio dei puristi più incalliti. Le ottime prestazioni registrate contro difensori di grande livello fisico e tecnico come Scottie Pippen lasciano immaginare un impatto di alto livello anche con il gioco in voga oggi.

41 punti con cinque errori al tiro a casa di Magic Johnson.

La parte meno celebrata del repertorio è senza dubbio la qualità di passatore, in considerazione della fattura degli assist che forniva regolarmente ai compagni: primizie dietro la schiena o di tocco nel cuore della venice, con un caratteristico schiaffetto al pallone semplice solo in apparenza. La parte che lascia vagamente interdetti è certamente la difesa per via dei limiti fisici che questo fondamentale mette a nudo più impietosamente. La vena di ladro di palloni attesta un apprezzabile senso dell’anticipo e di bontà delle letture (1.6 furti di media su 16 stagioni) coadiuvate dai numeri legati alle stoppate che hanno superato quota 500 e in qualche annata registrato medie in linea con il top di squadra. Dopo la riabilitazione e i durissimi allenamenti per diverse stagioni è risultato il leader dei minuti giocati nella NBA: Nelson è responsabile di aver spremuto troppo quel fisico al top della carriera e accorciato sensibilmente il periodo migliore. Nella prima annata di grazia, la 1988-89, è diventato il terzo giocatore della franchigia a cumulare almeno 2.000 punti, 400 rimbalzi e 400 assist in una stagione dopo Wilt Chamberlain e Rick Barry. Insieme a Mitch Richmond ha formato il duo di migliori marcatori stagionali con quasi 50 punti realizzati per sera, per giunta i più giovani in assoluto a raggiungere questo obbiettivo dai primi anni Settanta. Mullin in breve si è evoluto nel giocatore cool che sperava di essere sin dai tempi del college e finalmente anche in un leader emotivo capace di diventare un solido punto di riferimento.

¡Three Amigos!

La rifondazione si completa nel 1989-90 con l’approdo di Tim Hardaway che si aggiunge alla coppia di scintillanti marcatori della franchigia. Il terzetto interpreta con grande classe gli schemi di Nelson, genera una serie di tutto esaurito al palazzetto quanto un impatto profondo anche nella cultura popolare. Il gruppetto prende il nome di “Run TMC” dalle iniziali dei giocatori e viene deciso da un sondaggio popolare indetto dal San Francisco Examiner. I Warriors diventano una squadra di culto che offre la pallacanestro più divertente della lega, spesso e volentieri si rivela quella più prolifica e conquista pertanto nuovi tifosi e simpatizzanti anche all'estero. Poche realtà hanno toccato la vetta di icone, soprattutto in considerazione delle record poiché l’assenza di un lungo di peso condannava il roster a una posizione scomoda sin dal principio. Gli Warriors era molto più forti della media, ma al tempo stesso non avevano le armi tattiche e fisiche per impensierire le alte vette della lega.

Uno dei periodi migliori degli Warriors prima che diventassero "Gli Warriors".

L'annata spartiacque è la 1990-91, aperta con un clamoroso 162-158 in casa dei Denver Nuggets e sigillato con una grandissima serie contro i San Antonio Spurs di David Robinson che potevano vantare un record migliore e il favore dei pronostici. Al secondo turno avere la meglio sui Lakers era quasi impossibile ma il “potere” del trio ha dato vita a una serie elettrica con almeno un paio di partite talmente belle e coinvolgenti da fare epoca. Mullin continua a crescere e nel 1991-92 arriva sesto nella votazione di MVP, si assesta tanto per cambiare sui 25 punti di media per la quarta volta e chiude la stagione entrando in quasi tutte le voci statistiche “ogni epoca” dell’organizzazione. La convocazione per Barcellona è meritata in pieno e si sposa bene con la costruzione del roster che prevede la presenza di pochi tiratori affidabili dalla distanza. Nelson ha provato in tutti i modi a inserire un centro in grado di dare il tocco finale al roster, insieme all’agente di Chris ha tentato persino di firmare Pat Ewing che poteva finalmente finire nella stessa squadra del prodotto di Carnesecca.

L’operazione è stata valutata scrupolosamente e per riuscire a sfruttare la clausola di rescissione del contratto del giamaicano la proprietà era pronta a rivedere i maggiori accordi del roster e fare un importante sforzo economico. Naufragata la possibilità di inserire un giocatore di grande qualità dal mercato, la finestra del Run TMC si è rapidamente chiusa nel novembre del 1992 dopo la sanguinosa trade incentrata sulla cessione di Mitch Richmond. Questo errore di mercato è considerato il principio del nuovo declino della squadra: dopo le Olimpiadi del 1992 infatti si è avvitata in un veloce quanto irreversibile calo. Chris stesso appena superati i 30 anni è dovuto scendere a patti con un corpo incapace di replicare le annate appena trascorse. Ancora oggi si organizzano eventi pubblici, cerimonie, celebrazioni dedicate a un gruppo sensazionale, un trio capace di scaldare il cuore a chiunque li abbia visti giocare. Il merchandising originale è ormai materiale da collezione.

L’epilogo

Dalla metà degli anni Novanta molte squadre alla ricerca di un veterano affidabile hanno cominciato a corteggiarlo, offrendo sul piatto la possibilità di competere per il titolo. Dopo un lungo inseguimento gli Indiana Pacers allenati da Larry Bird lo hanno strappato alla baia nel 1998 e riprogrammato lievemente le abitudini offensive con un incremento delle conclusioni dalla lunga distanza. Mullin al primo anno con la nuova maglia risponde con il 44% da tre e sfiorando il 95% ai tiri liberi, dimostrando di poter incidere in modo significativo anche alla soglia dei 35 anni. Acquistato per sostituire Derrick McKey, ha subito sposato la causa di Indiana e contribuito a migliorare il record di 19 partite rispetto all'anno precedente con un totale di 58 partite vinte, il massimo di sempre per la squadra.

Efficace anche nei playoff, ha prima tirato magistralmente nella serie al primo turno contro Cleveland con due performance da 13/15 dal campo e poi messo lo zampino sul canestro con cui Reggie Miller ha segnato la serie con i Knicks. Una stagione esaltante arrivata al culmine con i Chicago Bulls di Michael Jordan trascinati alla settima partita. Forse il canto del cigno.

L’anno successivo il suo minutaggio è stato tagliato a vantaggio di Jalen Rose e si è trasformato progressivamente in uno specialista dei minuti finali o di schemi specifici per organizzare un tiro dalla lunga distanza. Nessuna polemica o alcun tipo di malumore ha rovinato la sua permanenza nel roster di un amico come Larry Bird, ma in un triennio ha finito per essere utilizzato meno del previsto e di quanto avrebbe meritato. È riuscito a scendere in campo per qualche minuto nelle finali del 2000 con i Lakers di Shaq e Kobe senza incidere in modo particolare.

Desideroso di tornare in maglia Warriors, è stato accontentato da Indiana e si è ritirato nel 2001, griffando una ventina di presenze nel suo ultimo ballo nella lega a 37 anni. Dopo il basket giocato ha lavorato nella dirigenza di Golden State e come consulente per i Sacramento Kings, dopo varie esperienze come telecronista ha deciso di accettare l’incarico di allenatore alla St. John nel 2015. Nella sua gestione dei Redman hanno giocato anche Amar Alibegović e Federico Mussini, si è ricomposta la coppia con Mitch Richmond che ha ingaggiato come assistente. Un problema familiare lo ha poi spinto a rassegnare le dimissioni nel 2019 dopo sole quattro stagioni da capo allenatore.

Ancora oggi è in grado di vincere gare di tiro con le attuali stelle NBA, realizzare 100 triple con meno di 110 tentativi e mantenere grandi percentuali anche con palloni di peso e dimensioni diverse. Un simbolo del lavoro duro, della passione per questo sport, di una abnegazione totale, quasi religiosa per la palla a spicchi. Un giocatore con un fuoco interiore, uno stile di gioco e un carisma quasi irripetibile.

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