Durante gara-4 della serie tra Phoenix Suns e Denver Nuggets, il venerabile maestro twittatore Jamal Crawford ha scritto ai suoi 1.5 milioni di follower: “Immaginate di dire a Chris Paul che dal punto vista delle statistiche avanzate il tiro con cui continua ad ammazzare i playoff non tiene il passo dei numeri sulla carta”, aggiungendo una serie di emoji che ridono e una con il sopracciglio alzato, enfatizzando infine il suo pensiero con un paio di punti esclamativi.
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Innanzitutto bisogna ribadire che, su scala macro, il tiro dalla media distanza è indiscutibilmente sempre meno utilizzato dalle squadre NBA: è una tendenza che va avanti ormai da vent’anni e che avevamo spiegato già in questo articolo dello scorso anno partendo da una grafica di Kirk Goldsberry. Allo stesso modo, però, ogni regola ha le sue eccezioni, e Chris Paul è sempre stato un’eccezione rispetto alla normalità sin da quando è entrato nella NBA. Un tiro dalla media distanza di CP3 è tutt’altro che un cattivo tiro dal punto di vista delle analytics: nel corso della sua carriera cominciata nel lontano 2005, ha segnato il 48.8% dei tiri tra i 3 e i 5 metri di distanza dal canestro e il 46.7% dei suoi tiri tra i 5 metri e la linea da tre punti, segnalandosi anno dopo anno come uno dei più prolifici realizzatori da quella zona di campo.
Nelle ultime quattro stagioni, poi, è sempre stato stabilmente sopra il 53% di realizzazione in quelli che vengono comunemente considerate “long 2s”, giustificando quindi un volume di tiri che è sceso solamente nella parentesi di Houston (di gran lunga le due stagioni in cui ne ha tentate di meno per concentrarsi di più sul tiro da tre, nettamente ai massimi in carriera) ma rimasto costantemente tra il 20 e il 30% della sua “dieta” di tiri. Chris Paul, insomma, può tirare da lì perché se c’è uno che può permetterselo è lui, ma lo stesso non vale ad esempio per suoi compagni di squadra come Mikal Bridges o Jae Crowder, che se si prendessero un tiro dal mid-range andrebbero fuori dai loro punti di forza, regalando un possesso alla difesa avversaria che accetterebbe di buon grado quel tipo di tiri da loro due.
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La fenomenale serie di CP3 contro Denver
C’è poi da considerare il particolare momento di forma vissuto da CP3 nella serie contro Denver, per molti versi un outlier anche nella sua straordinaria carriera. Dopo le sei partite contro i Los Angeles Lakers in cui ha realizzato appena 55 punti, complice un evidente fastidio nel sollevare la spalla destra dopo un infortunio subito in gara-1, coach Monty Williams ha capito che le cose stavano tornando alla normalità quando ha visto Paul fermarsi in palestra dopo l’allenamento per provare a tirare da tre, conclusione che aveva abbandonato nel corso della serie coi gialloviola (1/9 nelle ultime cinque partite della serie con ben due 0/0 nelle due sconfitte).
Non appena la spalla ha ricominciato a funzionare a dovere, scacciando i fantasmi che lo hanno visto sempre infortunarsi sul più bello durante la sua carriera, i Suns di fatto non hanno più perso, inanellando sette vittorie consecutive con cui hanno eliminato sia i Lakers che i Nuggets. La serie di CP3 contro Denver — a 36 anni di età — è stata un capolavoro di efficienza: CP3 ha viaggiato a 25.5 punti e 10.3 assist di media con un assurdo 62.7% al tiro di cui 22/34 dalla media distanza e un totale di cinque palle perse, di cui nessuna negli ultimi quarti in cui ha sbagliato appena tre dei 19 tiri tentati per 43 punti complessivi.
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Non che nel resto delle partite abbia giocato male: a cavallo del secondo e del terzo quarto gara-4 ha segnato otto canestri consecutivi dalla media distanza, mettendo Nikola Jokic nella stanza delle torture senza mai permettergli di capire dove, come e quando intervenire, sfruttando anche l’evidente stanchezza e frustrazione del neo MVP.
Paul ha chiuso gara-4 con 37 punti a referto, la sua seconda miglior prestazione della carriera dopo i 41 realizzati contro Utah in gara-5 con la maglia degli Houston Rockets. E lo ha fatto tirando un assurdo 14/19 dal campo e 9/9 ai liberi, con la ferocia di uno che voleva per la prima volta concedersi il lusso di uno cappotto per 4-0 (non ci era mai riuscito prima di ieri) e soprattutto di chi sa che la settimana di riposo che attende ora i Suns potrebbe rivelarsi cruciale per le speranze di titolo di Phoenix, la squadra più convincente vista fino a questo momento nei playoff.
La completezza dei Suns sui due lati del campo
Quello che frega del modo in cui gioca Chris Paul è che fa sembrare tutto facile, ma quel tiro non lo è per niente — altrimenti tutti lo proverebbero e le difese avversarie non lo concederebbero così volentieri. C’è un motivo se gli Utah Jazz, dominanti nel corso della regular season, hanno costruito il loro sistema difensivo proprio sull’invogliare gli avversari a prendersi quel tiro in sospensione da due punti, mettendo gli avversari davanti a un dilemma matematico: se voi tirate sempre da due e noi tiriamo sempre da tre, come fate a colmare il gap di punti che inevitabilmente verrà a crearsi?
I Phoenix Suns non hanno solamente un giocatore che ama il tiro dal mid-range come Paul, ma anche uno che è altrettanto bravo a realizzarli come Devin Booker — ma compensano piazzando quasi sempre due tiratori negli angoli come Mikal Bridges e Jae Crowder, deputati a tenere alto il numero di conclusioni dalla lunga distanza e, soprattutto, a punire le attenzioni delle difese che al centro del campo devono trovare un modo di fermare le combinazioni tra Paul, Booker e Deandre Ayton, in un quintetto di estrema efficienza e completezza sui due lati del campo.
Due creatori di gioco di élite con la palla in mano, un lungo che blocca e taglia forte verso il ferro, due tiratori piazzati per allargare il campo: il quintetto base dei Suns ha giocato 380 possessi in questi playoff (più di qualunque altro in NBA) con un differenziale dominante di +18.7, sopra media tanto in attacco (121.6) quanto in difesa (102.9).
I Suns poi, pur avendo diversi giocatori chiave alla prima esperienza ai playoff, hanno confermato quanto di buono già visto in regular season in termini di completezza, solidità e capacità di eseguire. Coach Monty Williams, finito un po’ a sorpresa al secondo posto nella classifica dell’Allenatore dell’Anno, ha costruito minuziosamente una squadra capace di eseguire qualsiasi spartito e, allo stesso tempo, abbastanza forte dal punto di vista mentale per non farsi distogliere dal proprio piano gara, prendendo il sopravvento nelle partite dando quasi una sensazione di inevitabilità.
Andare a chiudere la serie contro l’MVP in carica con la fiducia e la ferocia mostrata in gara-4 non è da tutti, specialmente contro una squadra che negli ultimi due anni si era segnalata proprio per la capacità di rimontare e di trovare energie inaspettate per ribaltare le serie (chiedere a Jazz, Clippers e in parte pure Blazers per informazioni a riguardo). Eppure dopo il primo tempo di gara-1 i Suns non hanno lasciato una chance agli avversari, chiudendo a doppia mandata la difesa e costruendo un super piano partita attorno a Jokic (non a caso hanno perso le distanze proprio quando il serbo è uscito per espulsione, concedendo 43 punti negli ultimi 16 minuti di gara) ed eseguendolo alla perfezione.
«È impressionante quanto siamo concentrati come squadra, tutti i cinque giocatori in campo leggono la stessa pagina del libro in ogni momento. Quella è la chiave» ha detto Jae Crowder, che rischia di tornare in finale dopo esserci già riuscito lo scorso anno con Miami. «Che si vinca o che si perda, non entriamo mai in campo senza essere preparati alla perfezione, ed è per merito dei nostri allenatori» ha detto Chris Paul, notoriamente uno che non fa particolari sconti ai suoi coaching staff.
La nuova importanza del tiro da due punti
Se il mid-range di CP3 è il “nonno” dei tiri da due punti in sospensione, c’è una sorta di “nipotino” che sta trovando particolare successo in questi playoff: il floater. Contro una lega in cui il lungo gioca sempre più spesso in contenimento sui pick and roll per cercare di non essere bruciato dal palleggio mandando in rotazione l’intera difesa, gli attaccanti devono ormai avere nel proprio repertorio una conclusione in avvicinamento a canestro alzando la parabola. E se il tiro dalla media distanza va bene per Paul ma non per tutti i giocatori, un tiro preso con i piedi dentro l’area è allo stesso tempo più “anaylitics friendly” e un’arma tattica fondamentale per scardinare le difese avversarie, facendo pagare la posizione conservativa dei lunghi.
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Qualche settimana fa su ESPN Kirk Goldsberry spiegava come il futuro della lega risieda anche nei floater, visto che i più prolifici realizzatori di questo tipo di fondamentale siano tutti sotto i 23 anni di età. Basti sapere poi questo dato assurdo: negli ultimi due anni le guardie hanno segnato più punti in area delle ali e dei centri, e non era mai successo nella storia della NBA.
Come sempre, ai playoff vince chi ha maggiori armi tattiche a disposizione: non basta saper fare molto bene una cosa sola, perché le difese avversarie inevitabilmente si concentreranno sul toglierla il più possibile, costringendoti a passare al piano B, C e D. E chi riesce ad avere una risposta di livello a ogni dilemma tattico posto dagli avversari o dalle contingenze (vedi: infortuni) ha maggiori chance di sopravvivere. Avere un tiro dalla media distanza, che sia un floater come la nuova generazione di portatori di palla o un jumper come CP3, è ormai requisito imprescindibile in una lega che tenta in tutti i modi di togliere il ferro e il tiro da tre punti agli attacchi avversari. Lo ha detto lo stesso Paul dopo la partita di ieri sera: «Negli ultimi anni ho notato come le difese difendessero sempre di più in drop e allora ho perfezionato ancora di più il mio tiro». Il basket NBA è sempre un gioco di scacchi e CP3 sembra aver trovato lo scacco matto per scardinare il drop coverage.
Poi ci si mette anche la parte estetica, come fa Chris Paul quando si sente in controllo delle operazioni e comincia a divertirsi con i suoi numeri in palleggio, come la finta con cui “congela” il difensore facendogli credere di passare il pallone per mettersi in ritmo col jumper (ad esempio qui) o quella con cui si mette per un attimo di spalle al lungo per cambiare la frequenza dei passi e prendergli il tempo (povero JaVale McGee). Pezzi del repertorio di Chris Paul che abbiamo imparato a conoscere in questi anni e che lo rendono un protagonista unico della lega anche a 36 anni di età, giocando a livelli talmente alti che potrebbero portarlo a rinunciare a 44.4 milioni di dollari in estate per cercare un triennale da 100 milioni per arrivare a sfiorare i 40 anni come uno dei giocatori più pagati della lega. E dire che due anni fa il suo contratto sembrava un albatross impossibile da scambiare sul mercato, o almeno così erano convinti a Houston appiccicando due scelte al Draft pur di spedirlo a Oklahoma City.
Ora come ora però il presente ci dice che Paul si appresta ad affrontare le finali di conference per la seconda volta della sua carriera — con le quali ha un conto aperto, visto il modo drammatico con cui si sono concluse sul più bello quelle del 2018, quando un suo infortunio al bicipite femorale gli ha impedito di capitalizzare sul 3-2 conquistato nella serie contro i Golden State Warriors degli Hamptons Five. Quest’anno all’orizzonte non sembra esserci una corazzata di quel tipo da dover superare, e questo assomiglia davvero all’ultimo treno della sua carriera per raggiungere le Finals che gli sono sempre sfuggite.