Nel 2017, quando la NBA e l’associazione giocatori hanno ridiscusso i termini del contratto collettivo, alcuni tra i più attenti hanno notato che il limite per la cosiddetta “Over 36 Rule” era stato spostato di due anni, diventando la “Over 38 Rule”. La regola prevede che un giocatore non possa essere sotto contratto con un pluriennale dopo aver compiuto i 38 anni di età, venendo limitato a soli accordi di anno in anno. In molti, con un po’ di malignità, avevano sottolineato come LeBron James, Carmelo Anthony e Chris Paul, esponenti chiave della NBPA al tempo e ancora oggi, avessero maggiormente da guadagnarci da quel cambio in corsa, accusandoli velatamente di essersi fatti la regola “ad hoc” per guadagnare un po’ di più, specie perché i loro accordi erano prossimi alla scadenza con la soglia dei 36 anni in arrivo.
Grazie a quel cambiamento, accettato anche dalla NBA alla luce della maggiore longevità delle carriere dei giocatori di oggi, Chris Paul ha potuto firmare un quadriennale da 160 milioni di dollari con gli Houston Rockets nell’estate del 2018, il massimo possibile dopo una stagione in cui solo uno sfortunato infortunio muscolare subito in gara-5 contro i Golden State Warriors — partita al termine della quale i Rockets erano avanti 3-2 nella serie di finale di conference — gli ha precluso, forse definitivamente, le porte delle Finals NBA.
L’anno successivo è stato decisamente più complicato sia per Paul che per i Rockets, con la sua convivenza con James Harden andata via via deteriorandosi e una serie di problemi fisici che lo ha portato a saltare più di 20 partite di regular season per il terzo anno consecutivo. A torto o a ragione, dopo appena un anno dalla firma di quel quadriennale da 160 milioni il proprietario dei Rockets Tilman Fertitta rimpiangeva così tanto di aver dato quel contratto a Paul da definirlo (secondo la ricostruzione di ESPN) “il peggior accordo che io abbia mai vista nel business dello sport”, dando il compito all’allora General Manager Daryl Morey di scaricarlo il prima possibile.
Il contratto di Chris Paul era visto come un tale “albatross” che l’unica possibilità era quella di scambiarlo sul mercato con un contratto di uguale mostruosa entità come quello di Russell Westbrook, solo che i Rockets per chiudere lo scambio con gli Oklahoma City Thunder hanno dovuto aggiungere anche due prime scelte al Draft nel 2024 e nel 2026 e due possibilità di scambiare la scelta nel 2021 e nel 2025. Scelte che torneranno di stretta attualità negli anni a venire, visto che nel frattempo la situazione a Houston è totalmente precipitata — ma questa, come sappiamo, è un’altra storia.
La domanda ora è: come è stato possibile che in meno di due anni Chris Paul sia passato dall’essere considerato un contratto assolutamente tossico a essere probabilmente il free agent più appetibile sul mercato nell'estate successiva, il tutto a pochi giorni dal compimento del suo 36esimo compleanno?
La rinascita di Chris Paul
In una recente intervista con The Athletic, Chris Paul ha ripetuto un mantra che descrive perfettamente la sua carriera: “Controlla quello che puoi controllare”. Nell’estate del 2019, dopo tre anni contrassegnati da mille problemi fisici che si presentavano puntualmente durante o appena prima dei playoff, Paul ha deciso di cambiare la sua dieta passando a un approccio “plant-based”, come ha spiegato anche a Men’s Health citando un documentario (in verità controverso) nel quale appare come produttore esecutivo insieme a Lewis Hamilton, Novak Djokovic, Jackie Chan, Arnold Schwarzenegger e i coniugi Cameron, James e Suzy Amis.
Paul ammette che ancora oggi ha un debole per i cookies (passione condivisa almeno a inizio carriera con Marco Belinelli, con il quale si chiamava affettuosamente “ciccione” ai tempi di New Orleans), ma aver modificato la sua dieta e aver sistemato un po’ le sue abitudini in termini di routine, sonno e trainer personali hanno avuto l’effetto di cambiare totalmente la sua resistenza fisica. Paul non ha avuto un cambiamento così drastico nel suo aspetto, non è dimagrito improvvisamente di dieci chili, ma sembra effettivamente ringiovanito quando lo si guarda — e i risultati sono evidenti dal numero di partite disputate lo scorso anno a Oklahoma City (70 su 72, di cui una per lo shock della morte di Kobe Bryant e l’altra all’ultima seeding game nella bolla per un problema a un pollice) e in questa (60 su 61).
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Sin da inizio stagione sulla sua borraccia tiene la scritta “Chris’ Secret Stuff”, citando il famoso “intruglio” di Bugs Bunny in Space Jam.
Soprattutto, Chris Paul è tornato a essere l’All-Star che conoscevamo dopo non essere più stato convocato per la partita delle stelle dal 2016 in poi, aggiungendo le stelle numero 10 e 11 al suo infinito palmares di riconoscimenti individuali (solo per citarne alcuni: 9 volte All-NBA, 9 volte votato nei quintetti difensivi, 6 volte miglior recuperatore di palloni e quattro volte miglior assistman). Al suo primo incontro con i Thunder ha rispettosamente declinato ogni tentativo della dirigenza di imporgli una gestione in stile “Load Management”, non solo per preservarne il fisico — tanto erano tutti consapevoli che quel matrimonio sarebbe durato giusto il tempo di un anno — ma anche per permettergli di stare vicino alla famiglia, rimasta a vivere a Los Angeles e lontana da lui per la prima volta in carriera. È stato un trionfo per tutte le parti coinvolte: Paul ha totalmente rivitalizzato la sua carriera tornando a essere il giocatore più clutch della lega e i Thunder, dopo essersi fatti un giro ai playoff, hanno potuto capitalizzare cedendolo non solo senza rimetterci, ma guadagnandoci anche giocatori e altre scelte al Draft, oltre a dare un anno di “apprendistato” sotto la guida di CP3 al futuro uomo franchigia Shai Gilgeous-Alexander, con cui il dialogo continua ancora oggi.
La nuova fase della carriera di Chris Paul
Salutata Oklahoma City in evidente fase di ricostruzione, CP3 ha potuto scegliersi una nuova squadra praticamente da free agent di fatto, concordando con la dirigenza dei Thunder uno scambio per andare ai Phoenix Suns — individuati come la squadra giusta non solo per avvicinarsi a casa (da L.A. all’Arizona basta un volo di 90 minuti) ma anche come il gruppo di giovani da portare “al livello successivo”, per usare le parole del membro del coaching staff Riccardo Fois.
I Phoenix Suns avevano mostrato già nella bolla di Orlando di avere trovato una chimica speciale tra i propri membri, mancando l’aggancio al torneo play-in solamente all’ultimo possesso per colpe altrui. Ma l’arrivo in squadra di Chris Paul ha alzato immediatamente il livello di professionalità e competitività richiesto per tenere il passo con il veterano, che a Phoenix si è immediatamente sentito a casa grazie alla familiarità con tutti i membri più importanti della franchigia. Paul, essendo capo dell’associazione giocatori, incute un rispetto e un carisma immediato nei confronti dei suoi colleghi, e di certo ha aiutato il fatto che conoscesse già Devin Booker con il quale condivide la stessa agenzia, la CAA. CP3 poi conosceva già sia il GM James Jones (con cui ha lavorato nella NBPA), il vice-presidente Jeff Bower (suo GM a New Orleans), il capo-allenatore Monty Williams (suo coach sempre con gli allora Hornets) e l’assistente Willie Green (compagno sia a NOLA che ai Clippers per tre anni). Non c’era bisogno di formare nuovi legami, insomma — e Paul ha preso subito possesso dello spogliatoio, calandosi nel ruolo di veterano saggio più che in quello di monarca assoluto dei suoi anni ai Clippers.
È noto nei circoli NBA che Chris Paul, per usare un termine edulcorato, sia un fenomenale rompiscatole e che la sua puntigliosità finisse spesso per irritare le persone che lo circondavano, portandole all’esasperazione. Si sono deteriorati fino al punto di rottura i suoi rapporti con Blake Griffin, con DeAndre Jordan, con Doc Rivers, e alla fine anche con James Harden. Chris Paul è un moto perpetuo e non accetta compromessi: o si fa a modo suo, oppure le cose sono destinate ad avere una scadenza a breve termine. E anche se ha smussato qualche aspetto tecnico del suo gioco insieme a quelli del suo carattere, dopo 16 anni nella lega tutti sanno a cosa si va incontro quando lo si ha in squadra.
La solidità dei Suns di Chris Paul
L’impatto che ha avuto sui giovani Suns è stato semplicemente sensazionale. Il gruppo ha assorbito la sua personalità facendola propria, diventando una squadra solidissima sui due lati del campo e in ogni circostanza, tanto da avere non solo il secondo miglior record di tutta la NBA (dietro solamente agli Utah Jazz, distanti una partita) ma essendo anche l’unica squadra rimasta in singola cifra per sconfitte in trasferta, a fronte di 20 vittorie (nessuno come loro). È un risultato notevolissimo già di suo, ma che acquista ulteriore significato se si considera da dove arrivano i Suns, cioè da dieci anni filati rimanendo fuori dai playoff e con un “Process” che a un certo punto sembrava definitivamente fallito.
I Suns erano a tutti gli effetti una barzelletta della NBA, ma con il lavoro di James Jones e Monty Williams (che lo stesso Paul ha indicato come i veri fautori di questo cambiamento ben prima del suo arrivo) hanno cominciato a fare le cose normali e zitti zitti sono diventati una squadra per cui non ci si sorprende neanche più di tanto se battono in maniera convincente Lakers, Jazz, Bucks o Sixers come accaduto nell’ultimo mese. È diventata una cosa assolutamente normale, anzi è lecito arrabbiarsi quando si perde contro Sacramento, Detroit, Washington, Minnesota o Orlando come successo nel corso della regular season. Non è stato un processo immediato, ma è stato portato avanti con una calma e una convinzione nei propri mezzi che sembra provenire direttamente dal comportamento tenuto da Chris Paul, che ha rifatto in Arizona quello che aveva già fatto a Oklahoma City — per certi versi persino meglio.
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L’effetto Chris Paul spiegato dai numeri.
Se Paul nei suoi anni migliori era autosufficiente, nel senso che bastava circondarlo di “play-finisher” per avere un attacco di altissima efficienza, oggi è diventato un playmaker capace di condividere il pallone con altri creatori di gioco, da Harden a Dennis Schröder e Gilgeous-Alexander fino a Devin Booker. La convivenza con il giovane leader di Phoenix non è stata immediata: a inizio stagione il rendimento dei Suns con loro due in campo assieme era mediocre, mentre decollava non appena uno rimaneva in campo senza l’altro, dando l’impressione che per coesistere dovessero “fare a turni” più che collaborare. Ora i dati su base stagionale sono decisamente più allineati: con CP3 e Booker assieme Phoenix ha un differenziale complessivo di +6.1 su 2.578 possessi, che diventa +6.9 quando si siede Booker e +7.8 quando non c’è CP3 (dati Cleaning The Glass).
C’è ancora una differenza sensibile tra le due versioni della squadra — la difesa migliora enormemente quando il giovane si siede e Paul gestisce i ritmi, mentre l’attacco decolla a 122.1 punti su 100 possessi quando Booker va da solo con i membri della panchina e Paul si riposa —, ma i Suns hanno raggiunto un equilibrio decisamente migliore rispetto all’inizio della stagione. E la solidità del progetto tattico di Monty Williams è dato dal fatto che la squadra non ha sbandato nemmeno nei 642 possessi “veri” (Cleaning The Glass non considera il garbage time delle partite) in cui nessuno dei due era sul parquet, registrando un differenziale su 100 possessi positivo (+1.5).
La ricerca della marcia in più
I Suns di Paul e Booker hanno il record e l’andatura in regular season di una contender, anche se non vengono ancora considerati come una pretendente al titolo del livello di Lakers o Clippers nella Western Conference o dei Nets nella Eastern. Un po’ perché questo gruppo non è testato a livello di playoff (di fatto solo Paul e Jae Crowder hanno esperienza di lunghe serie di post-season) e un po’ perché fino a questo momento hanno dimostrato di poter viaggiare stabilmente in quarta marcia, ma di avere qualche problema in più a ingranare la quinta o la sesta — facendo nascere anche il dubbio che forse non abbiano la possibilità di “accendersi” più di così, a meno che Devin Booker non abbia un livello superiore al quale poter accedere che non abbiamo (e non ha) ancora scoperto.
L’ultima sconfitta in casa dei Brooklyn Nets, sotto questo aspetto, è stata esemplificativa. Nel momento in cui Kyrie Irving e Kevin Durant hanno cominciato a salire di colpi tirando fuori un canestro impossibile dietro l’altro, i Suns non sono riusciti a tenere il passo — dando l’impressione di poter mantenere un ottimo ritmo anche più a lungo degli altri, ma di non avere quel guizzo finale al momento dello sprint. Prima della vittoria di stanotte contro New York, i Suns in questa stagione avevano disputato 137 minuti “in the clutch” (solo Indiana ne ha giocati di più a 144), ma a fronte di un buonissimo record di 19-11 il loro differenziale era solo di +1.6, con un numero bassissimo di assist (solo il 44.1%, quart’ultimi) e di percentuali effettive (46%, solo sest’ultimi) compensato da un numero eccezionalmente basso di palle perse (solo il 7.2%, primi in NBA).
Questa notte ha sistemato un po’ i suoi numeri e quelli della squadra con tre canestri uno più pesante dell’altro negli ultimi 90 secondi di gioco, fermando la striscia di vittorie dei New York Knicks.
Chris Paul, che lo scorso anno ha rotto qualsiasi statistica legata al rendimento nei finali punto a punto tirando con un irreale 58% di percentuale effettiva e un Net Rating di +25.3, quest’anno è calato di quasi 10 punti percentuali al tiro e ha un differenziale negativo nei minuti in cui è stato in campo (-4.8) secondo i dati di NBA.com, mentre curiosamente sia Booker (+3.5, pur con percentuali pessime) e Deandre Ayton (+6.7) hanno differenziali positivi. Quello del rendimento nei finali punto a punto è sicuramente la domanda a cui i Suns devono rispondere ai playoff, ma già solo che si stiano facendo le pulci alla squadra cercandone i limiti con la lente d’ingrandimento certifica la bontà del lavoro fatto fino a questo momento — e della strada che hanno fatto per arrivare fino al secondo miglior record della NBA.
Il free agent più richiesto sul mercato?
Uno degli aspetti sottaciuti della “Over 38 Rule” è che comunque devi pur sempre arrivarci a meritarti contratti pluriennali fino alla soglia dei 38 anni. Ci siamo spesso meravigliati della longevità di LeBron James e della sua capacità di continuare a essere tra i migliori al mondo anche dopo 18 stagioni di NBA, ma Chris Paul non è da meno — e a differenza del Re non ha un fisico senza precedenti da portare a spasso, ma un corpo di appena 180 centimetri (seppur con doti atletiche sensazionali).
Normalmente i playmaker di questa stazza non restano rilevanti così a lungo, anzi: scollinata la soglia dei 30 anni vengono relegati al ruolo di riserve, se non proprio defenestrati dalla lega. Chris Paul invece continua a mantenere un livello di gioco fenomenale, con quel suo equilibrio tra la modalità “realizzatore” affidandosi al suo ineffabile tiro dalla media distanza (anche quest’anno sopra il 53% tra i 5 metri e la linea da tre punti: è la quarta stagione in fila) e il coinvolgimento dei compagni (è suo quasi il 40% degli assist quando è in campo).
Nel frattempo il mese scorso è anche diventato il sesto giocatore di sempre con 10.000 assist, superando poi Magic Johnson al quinto posto ogni epoca e con una concreta chance di arrivo al secondo posto di Jason Kidd (per il primo di John Stockton conviene mettersi il cuore in pace).
Chris Paul ha giocato talmente bene nelle ultime due stagioni da rendere effettivamente una discussione interessante se esercitare o meno la player option a sua disposizione per il prossimo anno a 44.2 milioni di dollari. È pressoché senza precedenti che un giocatore di 36 anni debba anche stare a pensarci, eppure per CP3 potrebbe avere senso uscire da quell’accordo per presentarsi su un mercato dei free agent in cui — complici le tante estensioni firmate lo scorso autunno da Giannis Antetokounmpo a LeBron James e Anthony Davis fino a Paul George e Rudy Gobert — non ci sono così tanti giocatori in grado effettivamente di cambiare le sorti di una franchigia.
Molte squadre, inoltre, hanno un sacco di spazio salariale di cui non sanno bene cosa fare e che potrebbero investire su di lui nel breve periodo, considerando che al massimo potrà firmare un accordo di tre anni per la già citata “Over 38 Rule”. Tenendo presente che il suo massimo salariale con una nuova squadra è di 124 milioni, Paul potrebbe incredibilmente firmare un altro contratto da 40 e passa milioni all’anno dopo che quello firmato nel 2018 era stato considerato “Il peggior affare nel business dello sport”, per usare le parole di Fertitta. E se i Phoenix Suns volessero tenerlo (lui stesso si è detto aperto alla possibilità) potrebbero aggiungere due anni di estensione ai 44.2 milioni già previsti dal suo contratto per il prossimo anno, continuando a costruire sulle basi già gettate in questa stagione.
Molto dipenderà anche da come finiranno i playoff, ai quali Phoenix punta quantomeno a superare il primo turno per poi giocarsi le proprie chance contro una delle due losangeline in base a quale seed saranno riusciti a conquistare. Ma indipendentemente da tutto, la storia degli ultimi due anni ci ha riconsegnato un giocatore che, anche a quasi 36 anni, continua a fare la differenza e a rappresentare un caso da studio per longevità, competitività e grandezza nel senso più pieno del termine.