Ispirati da The Players’ Tribune, cerchiamo di portare il lettore ancora più vicino al gioco facendocelo raccontare direttamente dai protagonisti. A farlo oggi è Chris Wright, guardia dell’Alma Trieste impegnata nei playoff della Lega Basket Serie A contro la Vanoli Cremona.
A cura di Michele Pettene.
Prima ancora di andare alla St. John’s College High School, avevo ben chiaro in testa di voler diventare un giocatore di pallacanestro.
A nove anni è normale sognarlo. Ma quando da teenager inizi a segnare tanto, ad andare al ferro e a schiacciare, ad essere chiamato al raduno dei migliori liceali d’America – il McDonald’s All American Game del 2007 – vincendo la gara del tiro da tre punti contro talenti come Eric Gordon, Derrick Rose, Kevin Love, James Harden, Michael Beasley… capisci di potercela fare.
Di quel McDonald’s vi dirò una cosa. OJ Mayo era nettamente il più forte, hands down. Dominò la partitella prima dell’esibizione, quella a porte chiuse dove potevamo darcele di santa ragione e i contatti erano meno “amichevoli” rispetto a quelli davanti alle telecamere. Dei numeri pazzeschi. Chiedete a chi c’era.
Anche Love era un tipo tosto, soprattutto era quello che faceva più ridere di tutti insieme a Griffin. Bei ricordi, di quelli che ti fanno pensare “I belong”. Ci sto, a questo livello.
Mi chiamo Chris Wright. Forse avete già sentito parlare di me.
Se seguite il basket europeo, ad esempio.
Sono il playmaker titolare dell’Alma Trieste, squadra della Serie A italiana che a sorpresa ha conquistato i playoff da neopromossa.
Sono stato anche a Pesaro, Varese, Torino, Reggio Emilia. Tutte esperienze che mi hanno insegnato qualcosa.
Oppure mi conoscete se siete degli appassionati di basket NCAA.
Ho giocato a Georgetown University, l’unica vera scelta per uno come me, nato al confine tra il Maryland e Washington DC, la capitale degli Stati Uniti.
Lì ho vissuto quattro degli anni più belli della mia vita, dopo aver scelto gli Hoyas per due motivi ben precisi.
Il primo, beh, perché ci aveva giocato Allen Iverson, il mio giocatore preferito. Vestivo il numero 3 come lui al liceo e ho indossato il più vicino, il 4, all’università.
Il secondo è perché mio padre, pur essendo di New York City e del Bronx, amava la tradizione e la cultura di Georgetown, tra Patrick Ewing, Alonzo Mourning e coach John Thompson.
Oppure potreste aver sentito parlare di me per un’altra ragione, una di quelle di cui non è mai bello discutere, ma spesso è semplicemente necessario.
Sono stato il primo giocatore malato di sclerosi multipla a giocare e segnare un canestro nella NBA. Una penetrazione in pieno garbage time, ad essere sincero, ma non è quello il punto.
Quando sei un giocatore professionista e quindi di lavoro fai un gioco, ad alcune cose manco ci pensi. Nemmeno ne conosci l’esistenza.
Avevo appena finito il college, nello stesso anno in cui era iniziato il lockout NBA, il 2011.
Con le porte della lega sbarrate, avevo firmato il mio primo contratto oltreoceano in Turchia.
Poco da fare nella città, un coach duro a cui non piacevano i rookie, un paese dove era inevitabile sentirsi soli e stranieri. Non la situazione ideale, ma da qualche parte dovevo pur iniziare.
“Strano…”
È il primo pensiero che il mio cervello elabora durante un allenamento di tiro nell’aprile del 2012 quando, dopo aver sentito un formicolio al piede destro, crollo sul parquet.
Non ci faccio troppo caso, ma il mattino dopo mi risveglio con la parte destra del corpo completamente priva di sensibilità.
Non riesco più ad afferrare nemmeno un bicchiere.
Che cosa mi sta succedendo?
Non so perché, ma non mi faccio prendere dal panico.
Certo, sono preoccupato. Quando ti succedono cose del genere non aiuta essere un 24enne alla sua prima annata da giocatore professionista di pallacanestro, a 8.000 chilometri da casa.
A Edirne, estremo Ovest della Turchia.
Pochissimi abitanti capaci di parlare un buon inglese.
Gli occhi di tutti addosso quando cammini per strada.
Sei diverso: un americano di colore non si vede di frequente da quelle parti.
Quando ti succedono cose del genere ci vuoi vedere chiaro subito.
Sostengo tutti gli esami possibili, vedo molti specialisti. Voglio andare a fondo della cosa.
E a fondo ci vado eccome: al termine del ciclo di analisi la diagnosi è chiara.
“Sclerosi multipla”.
Man, non avevo mai sentito queste due parole in tutta la mia vita.
Foto Ufficio Stampa Pallacanestro Trieste 2004
Non voglio scendere troppo nei dettagli, ma quello che apprendo rapidamente nei giorni successivi è che la sclerosi multipla è una malattia autoimmune cronica, neurodegenerativa.
Infiamma le cellule del cervello danneggiando il sistema nervoso centrale.
Internet è un pozzo senza fondo di informazioni, tutte negative a riguardo. Molte sono distorte.
Molte parlano di perdita del tatto, dell’equilibrio, della coordinazione.
Nessuno parla di normalità.
Nessuno, a maggior ragione, mi dice che potrò continuare a fare il cestista professionista.
Per i medici con la pallacanestro ho chiuso.
Ma quando me lo comunicano, non mi abbatto. Reagisco.
Nonostante tutte le diagnosi io mi posso ancora muovere, posso ancora camminare.
A me pare un buon segno. No?
Non penso nemmeno lontanamente che la mia carriera sia già finita.
Da Istanbul telefono ai miei genitori, Orlando e Danie. Non voglio rimanere all’estero dove non capisco le parole dei dottori: voglio tenere la malattia sotto controllo, tornare a casa, a Washington DC.
Dove sono cresciuto.
E dove c’è ancora la mia famiglia: siamo sempre stati uniti, non abbiamo mai avuto tutti quei problemi di padri assenti o violenza nel quartiere che sentite spesso in giro.
Washington, la mia Washington, è quella della mia adolescenza, quella degli anni ‘90.
I mitici Bullets, un altro mio idolo come Rod Strickland, con quei crossover che ancora oggi cerco di imitare. Kevin Durant, un anno più vecchio di me, con cui ho giocato per anni nei playground e nei tornei locali.
Il campus di Georgetown, ovviamente.
Una delle più belle soddisfazioni è stata la laurea in Relazioni Internazionali in quei quattro anni.
Sono sempre stato un tipo appassionato di politica, di sistemi sociali.
Mi piacere capire quello che mi accade attorno.
Sono molto attento alle dinamiche della black community, la mia gente. Negli Stati Uniti siamo ancora una minoranza che, oltre ai noti problemi di razzismo, non è ancora riuscita a superare una condizione di dipendenza dalle altre comunità: non abbiamo delle grandi imprese gestite da afro-americani, non abbiamo dei brand in cui identificarci sul mercato globale. I nostri soldi alimentano sempre altri business, circolano pochissimo al nostro interno.
In Italia avete Fiat e Ferrari. Siete diffusi in tutto il mondo. Siete riconoscibili all’istante.
Noi se creiamo una catena di pizzerie sembra quasi un miracolo.
Spero che la situazione cambi presto, lentamente forse sta già cambiando.
Chris con la maglia di Georgetown nel torneo NCAA 2011 (Foto Getty)
Dopo la diagnosi, la dottoressa Heidi Crayton di Washington è l’unica che mi dice «Ce la puoi fare. Puoi diventare un simbolo contro questa malattia».
Non ho bisogno di sentire altro.
Per tenere sotto controllo la SM inizio ad assumere il Tysabri, un farmaco indispensabile che dovrò prendere per il resto della mia vita. Una volta al mese, un’infusione endovenosa della durata di circa due ore che mi obbliga poi sempre a 24 ore di totale riposo.
Dopo sette anni ormai è una routine, fa parte della mia vita come la mia splendida moglie Erin e i miei due figli, Chris Junior e Charlotte.
Quando la notizia diventa di dominio pubblico le offerte scompaiono, e il sogno della Summer League del 2012 svanisce. Attorno alla SM c’è ancora tanto pregiudizio, stereotipi duri a morire.
Un’amara verità, ma comprensibile considerato il mio caso senza precedenti.
Il GM degli Iowa Energy però non si lascia intimorire: mi chiama in D-League e io accetto al volo. Ho una chance per poter dimostrare di poter giocare senza dovermi allontanare troppo da casa.
Inizio alla grande con un ventello, vengo convocato per l’All-Star Game, mi sento in forma nonostante tutto.
Una determinazione che dà i primi risultati.
Ai primi di marzo del 2013 mi chiama il mio agente: i Dallas Mavericks ti vogliono firmare con un contratto da 10 giorni, se accetti devi partire subito!
Non ci penso due volte, lascio la squadra e decollo verso il Texas e la NBA.
Ai Mavericks ritrovo O.J. Mayo, oltre a Vince Carter. E naturalmente Dirk.
Il 15 marzo, nella prima partita contro Cleveland, è già il mio momento.
Entro in campo a 41 secondi dalla fine.
Ricevo in ala, palleggio fino in punta, sopra l’arco dei tre punti.
Poi accelero verso sinistra.
Il difensore rimane indietro.
Penetrazione. Tabellone. Canestro.
Siamo nel garbage time, sono due punti che non contano per il risultato.
Ma significano tutto per me.
Ricordo Darren Collison che mi regala la palla della partita.
Sono competitivo.
Posso essere un giocatore professionista.
L’avventura con Dallas finisce al termine del contratto decadale.
Ma sono pieno di speranza, sono carico. Spero di ritornarci.
Intanto ho dimostrato che posso essere affidabile, e le squadre ritornano a farsi sentire: è tempo di iniziare la mia carriera di journeyman. Prima in Portorico, ai Capitanes de Arecibo. Poi arriva la Francia nel 2014, con Villeurbanne. Organizzazione super, grande annata.
Infine l’Italia.
Ancora non lo so, ma questo Paese è destinato a segnare la maggior parte del mio futuro.
Pesaro, nel centro Italia e nelle Marche, a inizio 2015 mi accoglie benissimo. La società e il suo staff mi danno una grossa mano, i tifosi sono vicini, mi sostengono.
Io non mi faccio condizionare dalla malattia, gioco duro e i risultati arrivano.
Le conseguenze collaterali sono soprattutto sul mio umore, una cosa che non posso controllare: spesso mi sento privo di energie, fuori e dentro il campo. Non ho voglia di parlare con nessuno, sono letteralmente spossato. In allenamento, in partita, nella vita quotidiana.
In campo però sembra andare tutto bene, mi sento forte. Mi piace guidare i miei compagni, essere il leader, metterli nelle condizioni di segnare. Difendere forte, far sentire i muscoli.
Sono sempre stato un realizzatore, rapido, con un buon tiro, ma a Georgetown ho fatto il salto di livello sotto coach John Thompson III, il figlio del leggendario coach di Iverson.
Ho imparato a giocare di squadra, a leggere meglio le situazioni, a rendere migliori i miei compagni. Un approccio al Gioco che porto avanti anche oggi.
Foto Ufficio Stampa Pallacanestro Trieste 2004
Ma non ho ancora fatto i conti con il lato burocratico della mia patologia.
Il peggior periodo della mia carriera è infatti proprio dentro l’angolo.
A settembre 2015 firmo in Israele, con l’Hapoel Holon.
Sul contratto c’è scritto chiaro e tondo che sono coperto dall’assicurazione sanitaria, ma dopo sole quattro partite scopro che non è così e vengo tagliato. Lo Stato può decidere a sua discrezione di non far lavorare un immigrato nel suo Paese se affetto da una malattia pre-esistente al suo arrivo in Israele.
Una doccia gelata.
Con il mio agente ci opponiamo, ma non c’è nulla che si possa fare.
L’unica via è rimanere concentrati: sei costretto a imparare la lezione, a maturare in fretta.
Finalmente a gennaio 2016 firmo con Varese, il mio secondo club italiano. Un bel posto, tanta passione e col mio arrivo iniziamo pure a vincere: con sette successi nelle ultime undici, passiamo dalla zona retrocessione a due punti dai playoff.
Sembra andare di nuovo tutto a gonfie vele: arriviamo in finale di FIBA Europe Cup, io vengo inserito nel miglior quintetto della competizione. Ma all’ultima giornata di campionato contro Cantù, un sentitissimo derby paragonabile solo a quelli nell’NCAA, vengo selezionato per fare un controllo antidoping al termine della partita.
Un accertamento all’ultima giornata di campionato: per me non ha molto senso.
Ma ovviamente mi sottopongo al test.
Risultato: positivo all’antidoping.
Non so se avete idea di cosa significhi per un giocatore professionista un esito del genere, ma lasciatevi dire che non è nulla di buono. Si rischia una squalifica pesantissima, un’immagine professionale rovinata, una lotta sfiancante davanti al giudice.
Io ho la coscienza pulita. Il Modafinil, il farmaco proibito cui sono risultato positivo, è uno dei medicinali che uso a scopo terapeutico per curare la mia malattia.
Una giustificazione che il tribunale di Roma mi riconosce come valida, ma non prima di una lunga estate - da maggio a settembre - passata tra testimonianze, ricorsi, stipendi in ritardo, divieti di parlare con i club per la nuova stagione.
La frustrazione finalmente si attenua quando Torino, un club storico che vuole ritornare ai piani alti della Serie A, mi chiama. Tra tutti i dirigenti della nuova squadra è Marco De Benedetto, il team manager e scout, quello che mi vuole maggiormente, che crede ciecamente in me.
Mi accompagna a Roma per andare in tribunale, mi sostiene. Inizia a crearsi un legame tra di noi.
Oggi è con me anche a Trieste, ormai è un vero amico.
A Torino provo a lasciarmi alle spalle i brutti ricordi del passato recente, provo a ricostruirmi una carriera. Vado due volte in doppia cifra con gli assist, segno, arriviamo vicini ai playoff.
Un momento di rinascita legato anche alla mia famiglia: C.J., la piccola Charlotte e il matrimonio con Erin mi danno una forza che non avevo mai sentito prima.
Il punto è che non c’è mai stato nessuno prima di me che abbia deciso di fare comunque il giocatore di basket professionista con una malattia del genere.
È un territorio inesplorato, nessuno conosce le conseguenze sul lungo periodo di questa cosa. Così come nessuno si è mai scontrato con i regolamenti delle varie federazioni a riguardo.
Mi sto prendendo tutto il fardello, sperando che la mia esperienza possa essere utile e possa dare una speranza a chi è affetto dalla stessa malattia.
Anche per questo ho creato una fondazione benefica, “The Chris Wright Foundation”, nata dall’idea di aiutare chiunque sia entrato in contatto con la mia storia.
Non vi nascondo che sto pensando di fare qualcosa anche in Italia, mi piacerebbe molto: da anni ricevo sui miei social messaggi privati di persone che hanno saputo di me, che sono affetti dalla stessa malattia, a volte ragazzi più giovani con poca speranza che vedono nel modo con cui affronto la sclerosi una motivazione reale per affrontarla diversamente.
Molti mi chiedono informazioni sulla mia dieta, i medicinali che prendo, il tipo di allenamenti.
Qualcuno mi scrive confessandomi di avermi seguito con lo sguardo durante tutta la partita, incredulo che io potessi giocare in quelle condizioni.
La mia fondazione vorrebbe essere soprattutto questo, un’ispirazione.
O semplicemente un esempio positivo, in un oceano di negatività.
Tornando all’Italia, oggi vivo e gioco a Trieste.
La città è sul mare Adriatico, al confine con la Slovenia.
È un posto bellissimo, forse il più bello dove sia mai stato da quando ho lasciato Georgetown.
Ho fatto bene ad ascoltare due miei ex compagni di squadra, “Cava” e “Musso” [Daniele Cavaliero e Federico Mussini, ndr], che mi hanno consigliato spesso questa società.
I miei bambini stanno crescendo qui: alla mattina li porto alla scuola internazionale prima di andare all’allenamento. Quando siamo liberi andiamo a fare una passeggiata in Piazza Unità d’Italia, una delle più grandi d’Europa, direttamente sul mare.
La nostra famiglia sta bene, stiamo vivendo un momento stupendo: siamo in attesa del nostro terzo figlio, abbiamo appena saputo che sarà una bambina e C.J. le vuole dare lo stesso nome della sua maestra. Non sembra intenzionato a trattare.
Erin è serena, sta affrontando la gravidanza promuovendo il secondo romanzo dopo il suo esordio, “The Game Changer” ispirato alla nostra storia (ma molto più romanzato!).
Come in ogni posto dove sono stato anche qui cerco di assorbire la cultura locale, la cucina, i modi di parlare, il dialetto triestino. Cerco di imparare qualcosa di più, di crescere.
Va bén, no?
Qui l’ambiente è super. L’Allianz Dome è sempre pieno, l’entusiasmo alle stelle, abbiamo tanto talento e credo possiate chiamarci la squadra-sorpresa della stagione insieme a Cremona: abbiamo raggiunto il sogno-playoff all’ultima giornata, addirittura abbiamo toccato il quinto posto dopo la straordinaria vittoria del 9 aprile dopo un supplementare ad Avellino. Incredibile per una neopromossa, ma ce lo siamo meritati durante tutto l’anno, e ora possiamo goderci questo momento vivendo al massimo la prima serie di playoff che questa città affronta in Serie A da 16 anni.
Chris si racconta alle telecamere della Lega Basket
Con una stagione così e una figlia in arrivo spesso dimentico addirittura di essere malato: sono una persona tranquilla, normale in tutto e per tutto, o almeno è così che mi sento. Non voglio in alcun modo essere compatito, è una sensazione che odio.
Fino a qualche anno fa mi risultava difficile parlare della mia condizione: anche se in modo un po’ egoistico, non volevo che la mia malattia offuscasse il mio essere un atleta, l’essere visto come un giocatore diverso dagli altri.
Solo poi ho capito quanto questa cosa sia più grande della pallacanestro, quanto possa essere utile per gli altri condividere la mia situazione, parlarne, ascoltare, dare consigli, anche se ciò non toglie che io continui più di ogni altra cosa a voler essere giudicato solo per quello che faccio sul campo. Come tutti.
A volte capita invece che anche durante la partita la malattia dal nulla torni a farsi sentire.
Non troppo spesso, fortunatamente, ma ci sono attimi in cui mi sento debole, traballante, con poca sensibilità. Anche quando ho la palla in mano.
Dagli spalti o dalla tv non ve ne potete accorgere.
Solo mia moglie, che mi conosce più di chiunque altro, può capire da un dettaglio del mio linguaggio del corpo o dall’espressione del mio viso contro cosa sto combattendo dentro di me in quel determinato frangente della partita.
Ma col tempo ho imparato a giocarci sopra, a bloccare mentalmente qualsiasi impulso negativo, a non farmi condizionare in nessun modo fino alla sirena finale.
Solo così puoi pensare di vivere la migliore delle vite che ti sono state concesse.
Solo così puoi pensare di avere un impatto decisivo.
Dentro e fuori dal campo.