È il 18 giugno del 1995, sono passate le tre del pomeriggio al Newlands Stadium di Città del Capo, in Sudafrica, dove si gioca la semifinale del Mondiale di rugby fra Inghilterra e Nuova Zelanda. Fra i 30 giocatori in campo ce n’è uno leggermente più grosso degli altri: è un bambinone di nome Jonah Lomu, è alto 1 metro e 95 e pesa 118 chili. Ha appena 20 anni e gira la leggenda che in allenamento, sui 100 metri, abbia fermato il cronometro sui 10"89. È al suo esordio in una Coppa del Mondo, eppure nelle partite precedenti ha demolito le difese di Irlanda, Galles e Scozia. Tecnicamente è molto grezzo, non è un grande placcatore e nel gioco al piede ci sa fare poco, ma quando parte con l'ovale in mano è come una bomba lanciata contro gli avversari, una montagna che si muove alla velocità di un centometrista, brucia l’erba e travolge ogni malcapitato che si immoli nel tentativo di fermarlo.
Quando in quel pomeriggio di giugno gli All Blacks finiscono di danzare la Ka Mate, Jonah vede qualcosa che non gli piace. Tony Underwood, il numero 14 inglese, l’ala che dovrà marcarlo (intanto la stampa sudafricana lo ha già ribattezzato come “Rinoceronte nero”) gli ha fatto l’occhiolino. O almeno, questo è quello che pensa Lomu: «Ci siamo schierati per il calcio d’inizio e ho guardato in direzione di Tony. Non ci siamo detti nulla, ma mi ero accorto che alla fine della haka, per un attimo, mi aveva strizzato l’occhio. Ero furioso. Per me la haka significa lanciare una sfida e a quel tempo pensai immediatamente che Underwood fosse stato irrispettoso reagendo in quella maniera. Non dissi nulla, ma nella mia testa cominciò a montare un pensiero molto preciso: sto venendo a prenderti per toglierti quel sorrisino dalla faccia».
Dopo la partita, Underwood spiegherà che quel gesto era semplicemente il suo modo di accettare il duello e che per nessun motivo voleva significare una mancanza di rispetto. Troppo tardi. Dopo un minuto e mezzo dall'inizio della partita gli All Blacks stanno attaccando gli inglesi appena dentro la loro metà campo, da destra verso sinistra. Bachop, il numero 9 neozelandese, apre la palla per Frank Bunce. Il numero 12 pensa per un attimo ad aprire il pallone, ma poi cambia idea e decide di spaccarsi le ossa: si butta dentro, a fissare il gioco, travolto da quattro avversari inglesi. La palla viene pulita rapidamente, Bachop aggira il raggruppamento, riparte verso sinistra e poco prima dell’impatto con la difesa inglese apre il pallone al largo. È un passaggio sporco, un po’ lento. L’ovale compie una parabola lunga, salta l’estremo Osborne, supera Lomu e rimbalza sul terreno. Jonah la rincorre con Underwood già addosso, la raccoglie, raddrizza la corsa e punta l’area di meta, distante una trentina di metri. Underwood, di Lomu, sfiora soltanto i pantaloncini, viene spazzato via da un frontino e vola sul campo.
Sulla linea dei 22 metri Will Carling, amatissimo capitano inglese, uno dei centri più eleganti di sempre (all’epoca finito su tutti i giornali per una sua relazione con Lady Diana), riesce a toccare la caviglia di Lomu con una perfetta francesina. Il numero 11 All Black sembra perdere il passo, sta per finire a terra: fra lui e la linea di meta manca soltanto una manciata di passi. Di fronte ha un ultimo avversario, l’estremo Mike Catt. Lomu decide di percorrere la strada più corta: passargli attraverso. Catt viene inghiottito dalla marea umana di Lomu. Il gigante nero fende l’aria per gli ultimi metri e schiaccia il pallone allungandosi con tutto il corpo sul terreno di gioco, sbattendolo in area di meta come se volesse farlo esplodere. Keith Quinn, il telecronista neozelandese, respira a fatica. Lomu si rialza immediatamente, accenna per un attimo un leggero sorriso, dà il cinque a un compagno di squadra, poi rientra di corsa verso il centro del campo. Non lo sa ancora, ma ha segnato la meta più importante della storia del rugby.
Primo tempo
L’adolescenza di Lomu non è fra le più serene del mondo. Jonah nasce ad Auckland, nel 1975, ma in Nuova Zelanda ci rimane poco. I suoi genitori decidono di rispedirlo a Tonga, la loro terra d’origine, pochi mesi dopo la sua nascita: passerà i primi 7 anni della sua vita insieme a zia Longo e zio Moses, nell’isola sperduta di Holopeka. Dopo un po’, i suoi genitori si ricordano di lui e decidono di riportarselo a casa, Jonah arriva così a Maitland Place, nel sobborgo di Mangere, zona sud di Auckland popolata da gang e bande di strada. Ha 13 anni quando suo zio, David Fuko, viene decapitato con un machete in un centro commerciale da un gruppo di samoani.
Lomu è grande e grosso, eppure è un ragazzo timido, introverso, difficile. Inizia a frequentare le compagnie sbagliate, la polizia comincia a conoscerlo, viene segnalato per rissa, accoltellamenti, furti d’auto. La madre di Jonah decide di mandarlo al Wesley College, la scuola più antica di Nuova Zelanda, con una grande tradizione di multiculturalità. I risultati scolastici non sono eccezionali, ma si capisce immediatamente che il ragazzo ha un talento sportivo assolutamente fuori dalla media. Nelle Olimpiadi scolastiche del 1989, a 14 anni, Lomu vince le gare dei 100 (in 11 secondi e centesimi…), 200 e 400 metri, i 100 metri a ostacoli, il lancio del disco, del giavellotto, del peso, il salto in alto, il salto in lungo, il salto triplo.
Una forza della natura, un adolescente di 90 chili capace di un’agilità straordinaria e di una velocità strabiliante. A Chris Grinter, il preside della scuola, non sfugge il talento di Jonah. Grinter si rende conto che quel ragazzo deve necessariamente giocare a rugby: Lomu non è convinto, ma alla fine decide di accettare e comincia ad allenarsi con la squadra della scuola. Seconda linea, flanker, numero 8, all’inizio della carriera viene utilizzato in mischia, la sua fisicità è incontenibile nelle categorie giovanili e arrivano piogge di mete. I suoi coetanei non riescono a fermarlo: Jonah è, semplicemente, troppo grosso e veloce per poterlo placcare. Grinter decide allora di chiamare Phil Kingsley Jones, all’epoca responsabile dello sviluppo del rugby giovanile per l’importante squadra del Counties Manukau.
«Con Jonah non era semplice comunicare. Era un ragazzo diverso dagli altri, lo è sempre stato. Si vestiva in modo strano, sembrava stesse per andare a svaligiare una banca. Ma era un ragazzo di grande talento e lo si capiva immediatamente» racconta Jones nell'autobiografia di Lomu: Jonah: my story. È il 1990 quando Jones decide di selezionare il quindicenne Lomu per un importante torneo di rugby a 7. Gli avversari sono tosti, squadre seniores. Il gruppo si allena il martedì e il venerdì, l’appuntamento è per la domenica successiva al Pukekohe Stadium di Auckland.
Quando mancano 10 minuti all’inizio del torneo, di Lomu neanche l’ombra. Jones è una furia, i compagni di squadra invece cominciano a essere preoccupati, sanno benissimo che senza il gigante verranno distrutti dagli avversari. Quando mancano pochi minuti al calcio d’inizio, Lomu arriva correndo, borsa a tracolla, distrutto. Ha perso l’autobus e ha percorso a piedi i 20 chilometri che separano la casa dal campo di gioco.
Jones è comunque arrabbiato per il ritardo e decide di tenerlo in panchina. Quando Lomu entra in campo la squadra sta perdendo 16 a 0 contro l’Army, una squadra esperta, che alla fine si aggiudicherà la vittoria del torneo. Dopo pochi minuti i ragazzi dell’Army si rendono conto di non riuscire a fermare quel ragazzo enorme con la faccia timida, Lomu segna tre mete in pochi minuti, la sua squadra perde di appena due punti, ma da quel giorno comincia a girare per tutta la contea di Auckland la voce che parla di un ragazzo quindicenne impossibile da fermare su un campo da rugby.
Secondo tempo
Raccontare il giocatore Lomu non è un’impresa molto difficile. Dopo un inizio in terza linea, i suoi allenatori si accorgono che Jonah deve giocare in un’altra zona del campo. Non è un giocatore particolarmente tecnico, non ha una visione di gioco superiore alla media, è spesso distratto in difesa e non segue linee di corsa vincenti. Quello che Lomu sa fare meglio degli altri è correre, correre forte, spostare i suoi 115 chili alla velocità della luce e lanciarli come un treno contro qualunque avversario si trovi di fronte. Ross Cooper, il tecnico dei Counties, lo schiera così al numero 11: è il 1994. In posizione di ala, Lomu diventa ancora più devastante. Per lui si aprono immediatamente le porte della Nazionale neozelandese di rugby a 7.
Di quella squadra fanno parte anche Eric Rush, Dallas Seymour, Graeme Bachop, Glen Osborne, giocatori esperti, con già diversi caps nella selezione All Blacks a quindici. Lomu, a 18 anni, diventa un perno fondamentale di un gruppo che riuscirà a vincere il torneo di Hong Kong, la più importante competizione mondiale di rugby a sette, sconfiggendo in finale i favoritissimi figiani. «Dal primo momento in cui lo vidi—racconta Eric Rush, all’epoca suo compagno di squadra—mi resi conto che avrebbe potuto fare qualsiasi cosa su un campo di Seven. Ricordo che giocammo un torneo a Singapore e a un certo punto dovevamo affrontare una squadra non particolarmente forte: sapevamo che avremmo vinto facilmente. Jonah era il ragazzino del gruppo, così prima della partita gli dicemmo chiaramente che avrebbe dovuto giocare da solo, noi saremmo entranti in campo solo per far numero. Ovviamente scherzavamo, ma lui ci prese sul serio. Entrammo in campo e cominciò letteralmente a giocare da solo contro tutti. Segnava la meta, calciava la trasformazione, ritornava a centrocampo, placcava, recuperava la palla, tornava in meta e via così per tutta la partita: alla fine il risultato fu Lomu 36, avversari 0».
Gli exploit di Lomu nel Seven fanno crescere la considerazione di coach Cooper per il ragazzo e Jonah fa così a 18 anni il suo esordio in prima squadra contro l’Horowhenua, un XV di grande tradizione che schiera a estremo un certo Christian Cullen. I Counties segnano oltre 100 punti, Lomu marca 3 mete ed è autore di una prestazione solida e convincente. Dopo la partita Ross Cooper riferisce a Jonah che i selezionatori All Blacks lo stanno tenendo d’occhio: in pochi mesi arriva la prima chiamata ufficiale per un trial di avvicinamento al tour estivo che opporrà i neozelandesi a Francia e Sudafrica. Laurie Mains, il tecnico neozelandese, è indeciso sulla convocazione di Lomu per i test match. Il ragazzo ha talento e una fisicità incontenibile, ma Mains non è convinto sia pronto per il rugby internazionale. Nonostante i dubbi, nella sorpresa generale, Lomu viene selezionato per i primi due incontri con la Nazionale francese.
«Mi misero in stanza con John Kirwan—racconta Lomu nella sua autobiografia—che io avevo sempre considerato il più grande tre quarti neozelandese. Avevo 12 anni quando nel 1987 gli All Blacks vincevano la loro prima Coppa del Mondo, lui era in quella squadra e adesso ero in stanza con lui, mi allenavo con lui: incredibile!». Il 26 giugno 1994 Jonah fa il suo esordio: ha 19 anni e 1 mese ed è il più giovane di sempre a indossare la maglia All Black. Tutta la nazione è curiosa di vedere da vicino le prodezze di questo enorme ragazzo di cui si raccontano leggende straordinarie. Le cose purtroppo, non vanno però come previsto. La Francia vince 22-8, Philippe Sella festeggia il suo cap numero 100 con una vittoria storica, mentre il giovane Lomu lascia il campo a testa bassa.
La sua partita è costellata da tanti piccoli errori, soprattutto di posizionamento, dovuti all’emozione, probabilmente, ma anche a una scarsa conoscenza del ruolo e alla mancanza di esperienza internazionale, soprattutto contro una squadra rodata come quella francese. «Sapevamo bene che il ragazzo non era pronto per competere a quel livello—ammetterà il tecnico Laurie Mains—ma aveva un potenziale straordinario e volevamo introdurlo gradualmente alle difficoltà del rugby internazionale. Non ci aspettavamo che entrasse in campo e vincesse la partita da solo, per noi l’importante era che stesse tranquillo. Era difficile parlare con Jonah, era un ragazzo molto chiuso e noi lo incoraggiavamo a essere sé stesso, senza troppe informazioni tattiche».
Il 3 luglio, a una settimana di distanza dalla prima sconfitta, Nuova Zelanda e Francia tornano ad affrontarsi, questa volta all’Eden Park di Auckland. Lomu viene schierato per la seconda volta consecutiva nel ruolo di ala, con il numero 11. Quando mancano 3 minuti alla fine del match, Lomu non sta giocando la migliore delle sue partite, ma appare comunque più a suo agio rispetto all’esordio. Soprattutto nel primo tempo si è distinto per una serie di penetrazioni importanti e ha mantenuto la posizione difensiva in maniera tutto sommato accettabile.
Gli All Blacks hanno dominato la partita, eppure il risultato, a pochi minuti dal termine, è ancora in bilico, sul 20 a 16. Al 77.esimo il mediano di apertura neozelandese riceve palla dal raggruppamento e calcia un pallone lungo, dentro i 22 francesi. Saint-André lo raccoglie e contrattacca, facendo partire una penetrazione vincente. Il tallonatore Gonzalez apre la palla da ruck per il numero 10 Delaigue, che passa l’ovale al seconda linea Benazzi: di fronte a lui, Jonah Lomu, che rimane incerto di fronte a una situazione difficile, perché si trova esposto a un tre contro uno, e non riesce a indietreggiare facendosi saltare facilmente all’interno da Benazzi, la cui corsa si infrange qualche metro dopo sul placcaggio di Bunce.
Quell’incertezza manda la Francia in ritmo, Ntamack riesce a portare ancora avanti l’ovale, i francesi arrivano in sostegno, Lomu intanto vaga spaesato lungo l’out di sinistra, mentre i Bleus, alla fine di un’interminabile sequela di passaggi, riescono a marcare quella che passerà alla storia come “la meta dalla fine del mondo”. Non è certo colpa di Lomu, se la Francia vince quella partita, eppure il ragazzo è convinto di aver compiuto un errore determinante. «Dovevo prendere una decisione, e non l’ho presa. Sono rimasto in mezzo, nella terra di nessuno, senza sapere cosa fare. Avrei potuto evitare quella meta e avremmo potuto vincere quella partita, ma non l’ho fatto, non ho placcato nessuno e alla fine ho la sensazione che la sconfitta sia colpa mia».
Laurie Mains, il tecnico neozelandese, difende il suo giocatore, ma decide di lasciarlo a casa per il resto del tour contro la Nazionale sudafricana, così da non bruciarlo definitivamente. I mesi successivi, per Lomu, sono molto difficili. Riceve una proposta da 300.000 dollari l’anno per andare a giocare con i Canterbury Bulldogs, nel rugby a 13, una cifra importante per un ragazzo appena diciannovenne. Intanto i giornali locali lo distruggono per le sue prestazioni contro la Francia e il sogno di partecipare al Mondiale sudafricano diventa sempre più lontano. Phil Jones, il suo mentore, lo convince a resistere ancora un po’ nel rugby a 15. I due stringono un patto: Phil lavorerà al fianco di Jonah come manager, in cambio della prima maglia che Lomu indosserà alla Coppa del Mondo 1995.
La convocazione per il Mondiale passa per il terribile camp di Taupo, dove coach Mains li accoglie così: «In questo campo divideremo gli uomini dai ragazzini. Non mi interessa se alla fine di un allenamento state camminando o strisciando, l’importante è che arriviate sino in fondo e dimostriate quanto ci tenete a vestire questa maglia». Le sessioni di Mains sono brutali, tre ore e mezza al giorno, con placcaggi, corsa, placcaggi, ancora corsa e ancora placcaggi. Alla fine di ogni giornata, una serie di 22 sprint da 150 metri, nei quali Mains chiede spingere al massimo.
Lomu è distrutto, decide di gestire le forze per poi dare tutto all’ultimo affondo. Quando è sulla linea di partenza per lo scatto finale, va via a tutta velocità e lascia indietro i compagni. È un grande errore. Mains capisce che Lomu si è risparmiato e obbliga tutta la squadra a una sessione aggiuntiva. «Alla fine della giornata sembravamo come zombie. Ero famoso per essere un mangione, ma alla sera non riuscivo nemmeno a cenare, prendevo qualcosa di leggerlo dalla tavola e andavo a buttarmi sul letto: mi sembrava dovessi morire da un momento all’altro».
Durante il camp Lomu si guadagna la stima e il rispetto di tutti i compagni, soprattutto di un leader come Sean Fitzpatrick, che si espone personalmente con coach Mains, dubbioso sulla convocazione di Lomu, offrendosi di aiutare Jonah in un lavoro atletico extra, pur di averlo in squadra per la Coppa del Mondo: i senatori sono convinti che Lomu possa rappresentare una minaccia ingestibile per le difese avversarie, se disciplinato tatticamente.
Sarà un passaggio vincente: al Mondiale sudafricano del 1995 Lomu trascinerà la Nuova Zelanda sino alla finale di Coppa del Mondo, anche se non basterà per la vittoria finale. Addirittura, uno sponsor degli Springboks prometterà una taglia di 5.000 dollari a placcaggio per i giocatori sudafricani in grado di fermare il “Rinoceronte nero”. Lomu uscirà da quel Mondiale con un posto nella storia, 7 mete marcate e il merito, universalmente riconosciuto, di aver permesso al rugby di diventare, per la prima volta nella sua storia, uno sport planetario.
Terzo tempo
La parte triste nella vita di Jonah Lomu inizia ad appena 21 anni. Dopo la fantastica Coppa del Mondo del 1995, a Lomu viene diagnosticata una rarissima infezione ai reni, una sindrome nefrosica che da quel momento in avanti renderà un calvario il proseguimento ad alti livelli della sua carriera agonistica. C’è un momento preciso, nella carriera sportiva di Jonah, che segna il declino definitivo, ed è il 2002. Lomu arriva da una serie di stagioni non entusiasmanti, ma durante le quali ha comunque messo alcuni risultati importanti: la semifinale alla Coppa del Mondo del 1999, chiusa con 8 mete, ma da cui gli All Blacks vengono estromessi dopo una cocente sconfitta, ancora una volta contro l’indigesta Francia; la vittoria del Tri Nations, nello stesso anno; la vittoria alla Sevens World Cup del 2001.
Eppure, Lomu viene spesso criticato per le sue condizioni atletiche (arriverà a pesare anche 150 chili a causa dei farmaci), i giornalisti lo accusano di non difendere, di non essere in grado di calciare l’ovale e di essere un pessimo ricevitore sui palloni alti. Anche la vita personale del ragazzone con lo sguardo triste non va per il meglio. Jonah si sta separando dalla prima moglie, Tanya, conosciuta in Sudafrica durante la Coppa del Mondo del 1995 e sposata in gran segreto ad appena 20 anni. Nel maggio del 2002 Lomu viene selezionato per i test degli All Blacks contro Italia, Fiji e Irlanda in preparazione al Tri Nations.
In molti disapprovano la scelta del coach John Mitchell, Lomu infatti arriva da una stagione disastrosa, i suoi Hurricanes hanno chiuso molto male il campionato Super 12 e gran parte della stampa sportiva preferirebbe vedere sul terreno di gioco Doug Howlett, il suo antagonista. In giugno arriva il match contro le Fiji, si gioca a Wellington. Lomu parte titolare con la maglia numero 11, Howlett si accomoda in panchina.
Il test non è proibitivo, tanto è vero che gli All Blacks superano agevolmente i figiani con il risultato di 68 a 18, mettendo a segno 11 mete. I giornali neozelandesi successivo non si concentrano però sulla vittoria, ma sulla prestazione di Lomu. Timido, spaesato, deconcentrato, Jonah sembra essere completamente con la testa da un’altra parte. Non mette a segno nemmeno una marcatura, non difende, commette numerosi avanti. Per due volte, Norman Ligairi, il suo diretto avversario, lo ridicolizza, puntandolo, girandogli al largo e andando a schiacciare in linea di meta, due segnature inaccettabili a livello internazionale, a maggior ragione per un giocatore del suo livello.
Lomu è l’ombra del grande giocatore che il pubblico di tutto il mondo aveva ammirato nel 1995. Lento, impacciato, macchinoso, si fa battere in velocità senza opporre nessuna resistenza. Quella partita, quelle due mete incassate in maniera così inerme, rimangono il simbolo del crollo definitivo di Jonah, ormai fiaccato nel fisico e nell’animo dalla lunga malattia e distratto da affari extrasportivi che ne limitano l’attenzione e l’interesse per il rugby di alto livello.
È cosi che si spegne, fra alti e bassi, nel 2002, a 27 anni la carriera internazionale di uno dei più grandi giocatori di sempre. Seguiranno interminabili sedute settimanali di dialisi, un trapianto di rene con ammiratori da tutto il mondo disposti ad aiutare il loro idolo, la lenta riabilitazione e il tentativo, mai raggiunto, di ricominciare a giocare nel rugby che conta.
Ci prova, a ritornare in campo, ma senza grande fortuna. Nel dicembre del 2005, con i gallesi dei Cardiff Blues, sfida Calvisano in Heineken Cup. Alla fine le partite messe insieme in Europa saranno 10, con una meta segnata. Rientra in Nuova Zelanda, nel 2006, con la speranza folle di riuscire a trovare un team di Super 14 pronto a offrirgli un contratto: il sogno sarebbe quello di giocare il Mondiale del 2007, ma riuscirà soltanto a racimolare un’offerta, rifiutata, da parte di una franchigia del rugby a 13. Uno dei ricordi rugbistici più belli, forse l’ultimo, resta la testardaggine con cui nel 2009, ormai trentaquattrenne e due anni dopo il ritiro ufficiale, avvenuto nel 2007, Lomu decide di compiere un ultimo, impossibile sforzo, firmando per il Marseilles Vitrolles, nella terza divisione francese. Tre partite, le ultime, giocate in un contesto ambientale difficilissimo, prima da centro e poi, infine, in posizione di numero 8, il ruolo tanto amato, nel quale aveva cominciato quando era soltanto un ragazzo.
Lomu è scomparso lo scorso 18 novembre. Di lui Gavin Hastings, l’estremo scozzese considerato uno dei più grandi di sempre, disse, dopo averlo affrontato: «La prima volta che ho cercato di fermarlo, lui mi ha semplicemente travolto. Ero nel rugby internazionale da oltre 9 anni, ero alto 1.91 m e pesavo 90 chili, insomma non ero un piccoletto, ma non lo si poteva contenere, era incredibile la sproporzione fra il vederlo giocare alla tv e trovarselo di fronte sul campo. Fino a quando non ce lo hai davanti è difficile immaginare la potenza, la forza, l’esplosività, la grandezza, di Lomu. Dopo averci giocato contro, è stato un piacere vedere le sue partite contro le altre avversarie. Voglio dire, ogni volta che lo vedevo partire palla in mano cominciavo a sorridere, in preda a uno stato di eccitazione per quello che stava per succedere. Mi chiedevo: “Cosa accadrà adesso?". Non c’è mai stato nessun altro giocatore capace di trasmettere le stesse emozioni con un pallone da rugby fra le mani».