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Il Giro d’Italia che non abbiamo visto
25 mag 2021
25 mag 2021
Senza copertura televisiva abbiamo ricostruito l’ultima tappa in altri modi.
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Il 24 maggio 2021, cioè ieri, era un lunedì, e già questo aveva fatto storcere il naso a parecchi appassionati di ciclismo. Non solo perché era, come detto, lunedì, con tutto ciò che questo comporta, ma soprattutto perché quel giorno l’organizzazione del Giro d’Italia aveva deciso di piazzare il cosiddetto tappone dolomitico. Quando si parla di tappone non si intende una tappa grande bensì - per citare un vecchio spot - una grande tappa. Cioè, nello specifico, un percorso che attraversa più passi di montagna, lungo più di duecento chilometri, con molti passaggi sopra i duemila metri di altezza sul livello del mare. Ecco: quello è ciò che normalmente gli esseri umani che si divertono a passare le loro giornate sdraiati sul divano con la tv accesa definiscono “tappone”. Ieri, insomma, eravamo già tutti un po’ più alterati proprio perché invece di stare sul divano a guardare la tv eravamo costretti altrove, mentre sulle Dolomiti al Giro d’Italia era previsto “il tappone”.

Il percorso originario prevedeva che la tappa partisse da Sacile, in provincia di Pordenone, e arrivasse a Cortina d’Ampezzo: 212 chilometri attraverso il passo della Crosetta e poi in successione Fedaia, Pordoi e Giau. Tre mostri sacri del ciclismo: tre passi oltre i duemila metri dove si è fatta la storia di questo sport. Una tappa che sarebbe stata attesa in qualsiasi caso ma che quest’anno arrivava come acqua nel deserto, in un Giro d’Italia che fino ad adesso è stato piuttosto piatto. Non tanto letteralmente, quanto emotivamente.

Il percorso del Giro quest’anno prevede infatti tante salite ma mal distribuite, tante tappe (per così dire) “di montagna” ma senza le montagne quelle vere - cioè tappe con salite lunghe e impegnative, di quelle che sfracellano i gruppi, come lo Stelvio o la salita del Blockhaus sugli Appennini. L’organizzazione quest’anno invece ha preferito puntare su arrivi su brevi salite al termine di rampe durissime all’interno di tappe brevi. Forse si voleva ridurre la durata delle tappe, concentrando lo spettacolo in quei pochi secondi d’attenzione che al giorno d’oggi tutti gli sport ricercano come il Sacro Graal. In ogni caso, è una mossa che non ha funzionato: anche per via di questo percorso, il Giro ha concesso pochissimi momenti di spettacolo, né di lunga né di breve durata, e le tappe vengono dominate puntualmente da Egan Bernal, lasciando agli altri poco più delle briciole. Certo, oggi è facile dirlo e - come scriveva il Manzoni - del senno di poi son piene le fosse.

Ciò che invece era più prevedibile sono gli incredibili problemi in cui è incorso il Giro d’Italia ieri pomeriggio. Già verso metà mattinata è iniziata a diffondersi la voce che la tappa sarebbe potuta saltare, per via di possibili nevicate o comunque di condizioni meteorologiche avverse sul Passo Fedaia. A nulla sono valse le recriminazioni di chi faceva notare che a tutti gli effetti sul Passo Fedaia non stesse nevicando, perché alla fine l’organizzazione ha preferito tagliare quel pezzo di tappa. Se ciò non bastasse, citando il freddo eccessivo (era così imprevedibile che a più di duemila metri, a metà di una primavera non certo delle più clementi, la temperatura non fosse delle migliori?) l’organizzazione ha successivamente deciso di tagliare anche il passo Pordoi.

L’unico dei tre passi inizialmente previsti rimasto nella tappa svolta ieri alla fine è il Giau, dove paradossalmente nevica davvero. Da lì, però, la corsa passa perché, a quanto pare, bisogna arrivare assolutamente a Cortina d’Ampezzo. Qui sono sorti i primi dubbi sulla serietà delle scelte dell’organizzazione: se la preoccupazione era davvero il freddo e la neve perché mantenere il passo Giau? Certo, una tappa piatta di 100 chilometri non sarebbe stato il massimo, ma anche ciò che abbiamo visto ieri - con una tappa corta ma intensa solo nel finale - non è che sia stato un grande spettacolo. Anche perché, alla fine, nemmeno l’abbiamo vista (ci arriviamo). Magari, con un po’ più di prontezza, si sarebbero potute fare altre salite, a quote più basse dove sicuramente non nevica e fa meno freddo? Non so quanto sarebbe stato impegnativo logisticamente spostare l’intero percorso a quel punto, ma di sicuro per l’organizzazione era meglio andare dritti in piano fino al Giau e basta. In fondo, come ha detto il direttore del Giro, Mauro Vegni, è «meglio così» (sic!). Ma meglio così per chi?


La nevicata in cima al Giau, dove però la corsa è passata regolarmente (foto di Marco Alpozzi/LaPresse).



Dopo la fine della tappa, Vegni ha dato la colpa un po’ a tutti in un acrobatico tentativo di scaricarsi di ogni responsabilità. I ciclisti intervistati, quelli in lotta per la classifica generale, hanno tutti dichiarato che avrebbero preferito correre la tappa per intero. Lo stesso Bernal, ad esempio, ha dichiarato che avrebbe voluto correre il percorso originario: «Questo è il ciclismo che mi piace: quando fa freddo, la corsa si fa dura, e hai bisogno di molta grinta [per arrivare in cima, ndr]». Quindi il sindacato dei ciclisti (il CPA) di certo non ha parlato a nome loro quando è andato a chiedere a Vegni di “mettere in sicurezza” la tappa nonostante non ci fossero gli estremi per intervenire secondo quanto previsto dal protocollo per la sicurezza. Che poi ci sarebbe da discutere anche sullo stesso protocollo sulla sicurezza, un documento che è stato discusso e approvato da tutte le parti in causa e che prevede con un discreto margine di discrezionalità su quando e come è possibile correre in bicicletta in base alle condizioni meteorologiche. Ad esempio: in mezzo a una bufera di neve in montagna, ovviamente, non si può correre, nonostante ci sia chi da più parti invoca la storica tappa del Gavia del 1988.

In ogni caso, le condizioni all’alba del tappone di ieri, per stessa ammissione di tutte le parti, erano perfettamente in linea con quanto previsto. E allora non si spiega a che titolo il CPA abbia imposto la modifica del percorso né quale forza abbia messo in campo per convincere Mauro Vegni a eliminare due dei tre passi previsti. Perché in fondo il Giro d’Italia, lo sappiamo tutti, si corre a maggio e si corre in buona parte sulle Alpi. E a maggio, sulle Alpi, spesso e volentieri fa ancora molto freddo e le condizioni meteorologiche possono cambiare da un momento all’altro: è sempre stato così nella storia e purtroppo sarà sempre più vero man mano che l’emergenza climatica diventa sempre più grave. Viene quindi spontaneo riflettere sul senso stesso del Giro d’Italia, su ciò che lo rende tale. Su quanto, in fin dei conti, i ciclisti sappiano ciò a cui vanno incontro. Anche perché, come detto, in questo caso i ciclisti stessi, almeno quelli che erano lì a giocarsi la classifica generale, si erano detti disposti a correre la tappa per intero.

In una situazione così nebulosa si sono fin da subito diffuse diverse teorie sul perché l’organizzazione abbia deciso di modificare il percorso. Su chi volesse davvero fermarsi e chi correre. C’è chi sostiene che sia partito tutto da Vegni stesso, preoccupato dal fatto che con una tappa lunga Bernal avrebbe posto la pietra tombale sulla lotta alla Maglia Rosa, riducendo così l’incertezza per questo finale di Giro d’Italia già di suo così poco incerto. C’è chi invece sostiene che sia stata una decisione della Rai, che produce e distribuisce le immagini in diretta, preoccupata che le condizioni meteorologiche avverse potessero interferire con la sua capacità di trasmettere la diretta tv. Il problema, come ormai abbiamo imparato, è che con la pioggia sulle montagne gli elicotteri non possono volare, e allo stesso modo non può volare nemmeno il cosiddetto aereo-ponte che ha il compito di raccogliere il segnale delle telecamere sulle moto e spedirlo direttamente all’antenna della regia all’arrivo. Se i controllori di volo, o quale che sia l’autorità preposta a fornire l’autorizzazione, non dà il via libera per il decollo, insomma, l’aereo-ponte non parte e le immagini restano bloccate lì, nelle telecamere che registrano una gara che nessuno a quel punto può vedere. Ma è possibile che nel 2021, dopo anni e anni di Giro d’Italia e di tappe di montagne, nessuno abbia pensato a una possibile soluzione a questa non certo imprevedibile eventualità?

Nessuno, evidentemente, aveva una risposta a questa domanda. E così, mentre Egan Bernal attaccava in solitaria e andava a riprendere uno per uno i fuggitivi lasciando i suoi avversari a inseguirlo goffamente sulle rampe del Giau, le immagini in diretta della Rai sono puntualmente saltate.

Un pezzo alla volta
Fino a quel momento la corsa aveva avuto uno svolgimento abbastanza lineare (e non poteva essere altrimenti vista la linearità della nuova altimetria): una fuga da lontano con il gruppo a inseguire trainato dagli uomini della Ineos. In fuga però stavolta c’erano anche nomi grossi, come Joao Almeida, Vincenzo Nibali e Davide Formolo, non proprio tre ciclisti a caso a cui si può lasciare troppo spazio. Così da dietro si mette a tirare la EF per riportare sotto Hugh Carthy nel tentativo di far male a qualcuno dei suoi avversari. Il primo a saltare per aria è Remco Evenepoel, il giovanissimo talento belga che arriverà al traguardo semi-congelato con più di 20 minuti di ritardo dai primi (ma la sua storia merita un discorso a parte, come il suo Giro d’Italia). Poi, appena la strada ha iniziato a trasformarsi nella salita del passo Giau, a sfaldarsi è stato tutto il resto del gruppo. Fino al momento dell’attacco decisivo di Egan Bernal, splendida maglia Rosa di questo Giro d’Italia che di splendido ha ben poco. Soprattutto perché quel poco di bello non è stato possibile vederlo, dato che, come detto, a quel punto la diretta è stata interrotta. Le telecamere Rai hanno quindi prima indugiato sulla linea del traguardo, poi hanno provato a mostrarci l’ormai nota grafica con i pallini che si muovono su una mappa virtuale.



Infine hanno rinunciato del tutto: la corsa c’è ma non si vede. E se in diretta qualcuno ha provato a raccontarla in qualche modo, noi dobbiamo accontentarci di ricostruirla per immagini, in base alle foto che sono arrivate intatte fino a noi nonostante la spaventosa tormenta che non si è abbattuta sulle strade del Giro.




L’ultimo momento decisivo della tappa che siamo riusciti a vedere in diretta riguarda Simon Yates che si stacca dal piccolo gruppetto Maglia Rosa trainato dagli uomini della EF. “Lo scienziato” perde qualche metro, sempre saltellando sui pedali con la solita eleganza di chi sembra che stia lasciando fare per non rovinarsi l’abito da sera. Lo sguardo di Yates non cambia mai, la sua pedalata è sempre la stessa, sia che stia sferrando l’attacco decisivo sia quando invece va in difficoltà e perde le ruote dei diretti avversari. Da quel momento in poi, per il britannico della Bike Exchange inizia una lunga - ma non così lunga, visti i tagli del percorso - agonia che somiglia a un pellegrinaggio. Un percorso spirituale verso la vetta, alla ricerca di sé stessi. Una via crucis intimista e intimissima, come sembra suggerire lo striscione che ci ricorda anche che, in fin dei conti, Simon Yates è pur sempre un uomo come gli altri, con le sue difficoltà e i suoi difetti.


Foto di Sara Cavallini/Getty Images



Quelli che erano sopravvissuti al forcing della EF invece si sciolgono - al contrario della neve ai bordi della strada - non appena Egan Bernal piazza il suo unico decisivo scatto. Il colombiano lascia tutti lì e si lancia all’inseguimento dei fuggitivi di giornata: il primo che viene ripreso dalla sua furia è Vincenzo Nibali che si volta ammirato e sembra voler dire qualcosa al giovane “escarabajo”. Ma questi china il capo e tira dritto, non lo degna di uno sguardo. O forse sì, ma non lo sapremo mai. Forse invece Nibali in quei brevi attimi in cui Bernal gli passa accanto a doppia velocità riesce a dire qualcosa. Forse gli ricorda che un tempo era lui quello che faceva quelle azioni, il campione in maglia Rosa che sfida la tormenta. E forse Bernal quelle parole le sente e pensa che in fondo prima o poi arriverà qualcun altro a fargli lo stesso sgarbo che lui sta compiendo ai danni di Nibali. Per questo abbassa la testa, china lo sguardo e riflette di fronte al suo memento mori.


Foto di Fabio Ferrari/LaPresse



Pochi metri più indietro, in questa foto, si vede Hugh Carthy in piedi sui pedali che cerca di tenere duro con Caruso che fa capolino alle sue spalle e la sagoma di Romain Bardet coperta quasi interamente da Vincenzo Nibali in primo piano. Ne deduciamo che Hugh Carthy all’inizio ha provato a rispondere all’attacco di Bernal senza riuscirci, venendo poi alla fine - da qualche parte lungo il passo Giau - lasciato per strada anche da Bardet e Caruso che invece proseguiranno insieme fino al traguardo.

Sono cose che possiamo solo ricostruire a posteriori vedendo queste immagini, perché non possiamo sapere né come né quando “il Cammello” della EF si sia effettivamente ritrovato da solo nel suo personalissimo deserto. Quel che è certo è che nell’immagine successiva, un paio di curve più tardi, la situazione è la seguente.


Foto di Tim de Waele/Getty Images



Egan Bernal è già da solo, ma davanti ci sono ancora altri ciclisti da raggiungere, almeno Almeida e Formolo. Il suo sguardo però è spento, come se ormai fosse arrivato a non sentire più ciò che le gambe avrebbero da dirgli su quel che sta combinando in questo Giro d’Italia. Dietro di lui si è formato il duo Caruso-Bardet, così importante anche diplomaticamente in questo momento di tensioni franco-italiane dopo la battaglia dell’Eurovision. Alle loro spalle stantuffa l’ultima speranza del Regno Unito di essere protagonista in questo Giro d’Italia. La cosa curiosa è che alle sue spalle non c’è nessuno, segno che Giulio Ciccone era inizialmente rimasto più attardato ed è rientrato su Carthy solo in seguito. Probabilmente poco dopo questa foto, scattata nel momento in cui Hugh Carthy raggiunge il fuggitivo Almeida con Ciccone lì a pochi metri. Siamo ormai però vicini alla vetta.


Foto di Tim de Waele/Getty Images



La Rai a questo punto della tappa sta mostrando ancora le immagini del pubblico all’arrivo a Cortina, con gli operatori che vanno a pescare le persone più fotogeniche. In fondo è anche giusto così: già i ciclisti non sono proprio bellissimi da vedere, almeno in questi momenti godiamoci il più bello dei pubblici possibili.

Ma la corsa va avanti, nonostante tutto. Abbiamo visto Carthy inseguito da Ciccone che va a riprendere Joao Almeida, segno che Bernal è ancora più avanti e ha già staccato tutti i fuggitivi di giornata, compresi il portoghese e l’eterno giovane Davide Formolo, che però ha una manciata di giorni in meno di me che giovane non mi ci sono mai sentito. A differenza mia, però, Formolo davanti al mondo che gli crolla addosso tiene duro e alla fine concluderà la tappa al nono posto, davanti a Simon Yates, a 2’33” da Egan Bernal.

Quel che succede nei pressi dello scollinamento è difficile da ricostruire, così come è impossibile capire bene cosa sia successo in discesa. Soprattutto se dovessimo affidarci alle immagini della Rai che invece indugiano con particolare interesse sul traguardo. Mentre Bernal fa la sua piccola impresa sul Giau e i suoi avversari si spezzano le gambe nel tentativo di non naufragare nell’inseguimento, mentre Romain Bardet tira fuori la sua miglior prestazione in una tappa di montagna da tempo immemore; mentre lassù - insomma - succede il finimondo, quello che ci mostra la regia è un meraviglioso cane di cui, mi perdonerete, ignoro la razza. So solo che era molto bello, fiero nella sua posa, con lo sguardo rivolto lontano nel vuoto. Se devo pensare allo sguardo di Egan Bernal che si lancia in discesa giù dal Giau verso Cortina in quel momento, ecco, in testa ho questo fermoimmagine:



Chissà come si chiama quel cane, chi c’è all’altro capo del guinzaglio. Chissà se ha capito dov’era, se sa di essere passato in diretta televisiva e se se ne vanterà con i suoi amici a quattro zampe. Non lo sapremo mai, purtroppo, come non sapremo mai cosa è successo in cima al Giau perché - come durante la trasmissione tutti quanti hanno tenuto a precisare e come si poteva leggere dalla scritta in sovraimpressione - con queste condizioni meteorologiche così estreme è impossibile avere delle immagini in diretta. Per fortuna però siamo nel 2021, un anno in cui un disperato può salire in cima al Giau e fare una diretta Instagram di circa 33 minuti per mostrarci il passaggio dei ciclisti.














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Il passaggio di Bernal è intorno al minuto 7:45; il colombiano è solo e dietro di lui c’è il vuoto. Il video si interrompe a un certo punto, non sappiamo per quanto tempo esattamente perché nella registrazione è solo un attimo. Quel che è certo, e che non avremmo mai saputo altrimenti, è che al secondo posto passa Damiano Caruso in solitaria: segno che nel finale della salita il siciliano della Bahrain-Victorious era riuscito a distanziare Romain Bardet, che transita a una quindicina di secondi. I due sono poi arrivati al traguardo insieme e ciò significa che Bardet ha fatto una bella discesa sul bagnato, grazie alla quale è riuscito a rientrare su Caruso e a recuperare parecchi secondi su Bernal che invece dovrebbe aver fatto la discesa con maggiore prudenza.

Insomma, non è molto ma questo è il massimo che possiamo ricostruire del momento decisivo della più importante tappa del Giro d’Italia di quest’anno. Il resto lo dobbiamo riempire con la fantasia e l’immaginazione, proprio come immagino facevano le persone prima che arrivasse la diretta televisiva nel nostro mondo. Alla fine, se siete abbastanza creativi, non vi servirà molto per immaginare uno svolgimento del Giro d’Italia più appassionante di quello che abbiamo visto ieri.

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