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La questione sommersa della depressione nel calcio
10 mar 2021
La storia di Clarke Carlisle ci dice qualcosa su come il calcio affronta i problemi mentali.
(articolo)
11 min
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Avvertimento: questo pezzo parla di suicidio e problemi mentali.

Lunedì 25 maggio 2009, il Burnley è tornato in Premier League dopo trentatré anni di attesa. Nella foto che immortala i festeggiamenti una dozzina di uomini forma una piramide di bocche aperte, occhi chiusi e braccia alzate nella schiuma dello champagne. In cima alla piramide c’è la testa di Clarke Carlisle, che svetta grazie al suo metro e novantuno. Sta vivendo il momento migliore della sua carriera, passata in maggior parte nelle serie inferiori. «Quello che nessuno sapeva», ha commentato anni dopo rivedendo quelle immagini, «è che nonostante il successo stavo combattendo una profonda depressione».

Difensore duro e intimidatorio della vecchia scuola del calcio inglese, cresciuto in una famiglia operaia di Preston che doveva ricorrere ai pacchi di aiuti della chiesa, Carlisle fuoriusciva da ogni stereotipo. Lo hanno definito “il giocatore più intelligente d’Inghilterra” dopo che ha partecipato a un quiz televisivo e grazie alle sue qualità umane ha ricoperto il ruolo di presidente dell’associazione calciatori inglese (PFA). Al tempo stesso, quando era considerato un talento promettente, Carlisle aveva già problemi col gioco d’azzardo e con l’alcol. Ian Holloway, che lo allenava ai tempi del Queens Park Rangers, nel 2003 lo ha trovato ubriaco sul pullman prima di una partita. Carlisle è finito a vedere i suoi compagni giocare al pub, davanti a una pinta. «Mi sono detto: che stai facendo? Guardi la tua squadra in TV? Ma tu dovresti giocare!». Il giorno dopo ha chiamato il suo allenatore: «Non so cosa mi sta succedendo, ma ho bisogno di aiuto».

Poi, una volta smessi i panni dello sportivo professionista, si è speso in prima persona per abbattere il tabù dei problemi mentali nel calcio. Nella sua autobiografia “A Footballer’s Life” e nel documentario “Football Suicide Problem”, entrambi del 2013, l’anno del suo ritiro dal calcio giocato, Carlisle ha raccontato di quando ha provato a togliersi la vita dopo essersi infortunato gravemente al ginocchio, in un periodo in cui era dipendente da alcol e gioco d’azzardo. Aveva appena ventun anni e, in quel caso, è stato salvato da una fidanzata che ha capito che qualcosa non andava in lui, e da una lavanda gastrica.

Dopo aver dato l’addio al calcio – un momento che dice di aver vissuto con sollievo – Carlisle è andato nuovamente vicino a togliersi la vita, stavolta caricando con una spallata un camion sulla A64, vicino a York. Era il dicembre del 2014 e aveva da poco perso il lavoro da commentatore sul canale ITV. In aggiunta, poco prima, era stato fermato mentre guidava ubriaco per le strade di Londra. Si vergognava di se stesso e pensava che le persone vicino a lui sarebbero state meglio se si fosse tolto di torno. Nella cella si diceva: «Sai solo far soffrire chi ti sta intorno. Sai solo creare problemi» e quando è stato rilasciato aveva deciso di volersi suicidare. Con la patente sospesa, ha preso un treno senza dire niente a nessuno ed è andato a dormire in albergo.

Aveva pensato a buttarsi nel fiume, nel Tamigi, ma aveva paura che qualcuno avrebbe provato a salvarlo. Aveva osservato che i treni che entravano in stazione erano troppo lenti: «Ho pensato anche che sarebbe stato ironico impiccarsi dentro lo stadio del York City», una delle sue ultime squadre. Così ha camminato di notte fino all’autostrada, il suo telefono era scarico e a quel punto era scomparso già da due giorni. «Non stavo fuggendo. Era la cosa giusta da fare per me. Avrebbe reso tutti felici. Ho fatto due passi in mezzo alla strada e poi sono saltato davanti al camion, l’ho caricato con una spallata. Bang. Poi si è spenta la luce».

Foto di Mike Egerton - PA Images via Getty Images.

Per qualche ragione Clarke Carlisle è sopravvissuto all’impatto con il camion. Quando ha riaperto gli occhi, gli è venuto da ridere. «Sono finito sotto a un camion e mi sono fatto solo dei tagli», ha detto dopo. «Dei tagli seri, d’accordo, la mia testa si era gonfiata del doppio e gli occhi erano usciti dalle orbite, avevo pezzi di parabrezza in faccia, ma ero ancora vivo». Ha pensato che non meritava di essere sopravvissuto. «Mi vergognavo. Ma non per quello che avevo fatto, quanto per non esserci riuscito». In un primo momento Carlisle non voleva vedere neanche la propria moglie. «Non riuscivo a parlare alla persona che amavo di più al mondo, mia moglie. Ero svuotato da ogni amore, un guscio vuoto».

Quella di Carlisle è una storia violenta e il suo gesto non è rimasto senza conseguenze, anche al di là dei danni causati al suo stesso corpo. Chris Kilbride, un autista che lavorava con delle fattorie in zona, ha visto l’incidente dal suo furgone e si è fermato per chiamare i soccorsi. Era sicuro che Carlisle fosse morto, non ci poteva credere quando lo ha visto respirare. «Il camion era così danneggiato che pensavo ci fosse un’altra auto coinvolta e che Carlisle fosse stato espulso dal finestrino».

Kilbride ha passato le notti successive all’incidente tormentato dagli incubi, non riusciva a togliersi dalla testa le scarpe di Carlisle immerse in una pozza di sangue. «Erano delle scarpe di pelle». Di giorno non riusciva più a passare sul luogo dell’incidente senza andare in pezzi e ha finito col perdere il lavoro. Sette mesi dopo l’incidente, la polizia dello Yorkshire lo ha trovato morto, a ventiquattro anni. La causa della morte non è stata chiarita ai giornali.

In un’intervista alla radio, Carlisle ha detto di aver scelto quel camion perché pensava che il danno collaterale sarebbe stato minimo. Ma il suicidio è una bomba per chi lo circonda. L’autista del camion che lo ha investito ha raccontato di aver passato il Natale a chiedersi se la persona che aveva investito sarebbe sopravvissuta. «Ero sicuro di aver ucciso un uomo. Come avrei potuto vivere con un pensiero del genere?». Per mesi non riusciva a pensare di poter tornare dietro al volante e quando Carlisle è uscito dall’ospedale, dopo sei settimane, e ha provato a incontrarlo, lui si è rifiutato.

Foto di Ralf Pollack/ullstein bild via Getty Images.

Un tabù è diverso da un segreto. Che ci siano calciatori che soffrono di depressione e attacchi di panico ormai è risaputo. Gli esempi purtroppo non mancano e anche se la storia di Clarke Carlisle (che non ho ancora finito di raccontare) è particolarmente cruda e drammatica, quanto meno ha un finale diverso da quelle più conosciute di Robert Enke e Gary Speed.

Il primo è stato il portiere della nazionale tedesca (tempo fa Fabrizio Gabrielli gli ha dedicato un bellissimo ricordo) il secondo è una leggenda del calcio gallese, in campo e sulla panchina della nazionale. Entrambi sono morti suicidi, a due anni di distanza l’uno dall’altro (2011 e 2009). Nella sua lettera di addio, Enke si è scusato con i medici che lo seguivano per non avergli confessato di pensare al suicidio. Anni prima aveva perso una figlia piccola, ma sembrava stare meglio negli ultimi tempi, nessuno immaginava che si sarebbe gettato sotto a un treno. Teresa Enke, dieci anni dopo la morte del marito, ha detto che «dovrebbe essere permesso, negli spogliatoi, a giocatori e allenatori, mostrare le proprie emozioni. Dire: Non sto bene».

Nel libro intitolato “Unspoken” e pubblicato qualche anno dopo la morte di Gary Speed, i ricordi di chi gli è stato vicino sono tormentati dalla domanda di fondo: avrei dovuto accorgermene, avrei potuto fare qualcosa? Kevin Ratcliffe, amico d’infanzia e compagno di nazionale di Speed, lo ricorda bello come una star del cinema: «Di sicuro non era qualcuno a cui avresti voluto stare vicino in una foto. Ma questo era l’esterno. Chi lo sa che tipo di pensieri gli passavano per la testa». Ratcliffe racconta che, invece, vedendo Speed in tv pochi giorni prima del suicidio, sua moglie si era sorpresa: «Oh, cos’ha Gary che non va?».

Louise Speed ricorda che quando le sembrava che ci fosse qualcosa di strano nel marito, quello le rispondeva di essere semplicemente stanco. Per provare a trovare una ragione, anche se remota, ha riletto le lettere che si scrivevano da ragazzi. In una risalente a quando Speed aveva diciassette anni le aveva scritto: «Sono così depresso, spero solo di addormentarmi e non svegliarmi mai più». Più di venti anni dopo quelle parole hanno un’eco sinistra. Ma la violenza di un suicidio non tocca solo chi lo commette, ed è tremendamente cruda. «Non penso che riuscirò mai a perdonare Gary per averci fatto passare quei momenti e quelli venuti dopo», ha scritto Louise Speed. «Sono io che l’ho trovato. Sono io che ho dovuto tagliare la corda e portarlo giù. È stato come in un film dell’orrore».

Foto IPA/Fotogramma.

Lo scorso 28 gennaio si è suicidato il sedicenne Max Windle, parte del programma accademico del Cramley Town. Il 6 febbraio, il calciatore uruguaiano Santiago Garcia si è sparato un colpo di pistola alla tempia nel suo appartamento, aveva trent’anni. Ogni suicidio ha origini diverse, ogni storia di questo tipo è a sé. E ovviamente non si suicidano solo i calciatori, ma il calcio è una fabbrica di immaginario, sui calciatori modelliamo le nostre idee di successo, lavoro, sacrificio, talento, è significativo che non si parli di problemi che non siano fisici. Di ansia, depressione, panico, si parla sempre con un certo imbarazzo, o si preferisce non parlarne affatto.

Ci rifiutiamo di vedere il calcio anche come un sistema disumanizzante, in cui l’uomo è ridotto a valore di mercato. In cui i calciatori sono come cavalli da corsa: nutriti e curati nel modo migliore possibile finché le loro performance sono all’altezza delle aspettative. E se dagli attori, dai cantanti, dagli artisti, accettiamo un lato privato magari anche oscuro e sofferente (sempre romanticizzato) nei confronti degli sportivi esercitiamo un controllo di efficienza strettissimo, dentro e fuori dal terreno di gioco. E non tolleriamo imperfezioni. Un calciatore non può essere depresso perché altrimenti significa che non merita i privilegi che accompagnano la sua professione.

Sappiamo che la depressione non fa distinzione di classe, che possiamo soffrirne anche noi, o le persone vicino a noi, ma scegliamo di ignorare la questione, dicendo che una determinata categoria sociale non si può ammalare. Così facendo, però, stiamo accettando ricatti simili nelle nostre vite (e in fondo è già parte del nostro discorso comune che chiunque al di sopra di un bambino schiavizzato in una miniera sia da considerare un privilegiato).

Il mondo del calcio è ancora prettamente maschile, e non ama diversità o fragilità (Rio Ferdinand, che ha avuto difficoltà ad affrontare la perdita della moglie 34enne per un cancro al seno, ha detto: «Vengo dalla cultura dello spogliatoio, ero chiuso emotivamente e pensavo fosse una debolezza, per un uomo, mostrare le proprie emozioni»), ma come queste storie mostrano, la violenza di un suicidio non colpisce solo chi lo agisce, ma anche chi gli sta intorno. È anche per chi è sopravvissuto a queste tragedie, o convive con persone che soffrono di questo genere di cose, che dobbiamo trovare il coraggio di discuterne.

Foto di Glyn Kirk/AFP via Getty Images.

Non dobbiamo chiederci solo perché è così raro che un calciatore in attività confessi di avere problemi mentali – la scusa è la stessa che usa Philipp Lahm quando consiglia ai giovani calciatori di tenere per sé la propria omosessualità, ma se il problema sono i cori e gli striscioni dei tifosi perché con gli stadi vuoti da un anno la situazione non è cambiata minimamente? - ma anche perché ci sono così poche reti di supporto, perché le società non sono tenute a occuparsi della salute mentale dei loro tesserati, soprattutto di quelli più giovani. A questo proposito va segnalata una recente eccezione, la collaborazione tra AIC e la Lega Pro che hanno lanciato poche settimane fa una serie di webinar di formazione e sostegno.

Abbiamo l’obbligo di chiederci se gli sportivi di alto livello sono realmente liberi di parlare dei propri problemi interiori, o se siano implicitamente invitati a fare finta di niente. «Per un club di calcio sei solo un asset, stanno investendo soldi su di te. E per farlo controllano tutti gli aspetti possibile della tua vita», ha detto Clarke Carlisle, in una delle sue molte interviste. «Ti dicono cosa pensare, come pensare, come elaborare una situazione, con chi parlare, cosa dire, come dirlo, cosa non dire, da chi stare lontano. Ti modellano su un’immagine e una vita confezionata dal tuo datore di lavoro, per l’intera durata del tuo contratto. Ti deforma la mente».

Un anno dopo essersi gettato sotto a un camion, Clarke Carlisle ha creato una fondazione benefica per aiutare persone in difficoltà come lui; tre anni dopo, però, nel settembre del 2017, è sparito di nuovo nel nulla. Stavolta solo per dodici ore. Ha fatto perdere le sue tracce nel centro di Manchester e ha preso il treno per Liverpool, con l’intenzione di togliersi la vita. La nuova compagna, Carrie, incinta di sei mesi, ha lanciato una ricerca su Twitter che nel giro di poche ore ha portato dei frutti insperati.

Seduto su una panchina di un parco, Carlisle ha visto un’auto fermarsi e un ragazzo avvicinarglisi. «Pensavo fossi te e non potevo fare finta di niente», gli ha detto il ragazzo, che pochi giorni prima aveva perso un amico, suicida. «Non volevo il suo aiuto in quel momento. Ma mi si è seduto affianco, mi ha abbracciato e si è messo a piangere, chiedendomi di mettermi in contatto con la famiglia». Oggi Carlisle continua a curarsi e a lavorare perché la salute mentale dei calciatori diventi un tema prioritario.

Se leggendo hai pensato di avere problemi simili a quelli trattati non esitare a rivolgerti alle persone che hai vicino o a cercare aiuto medico. Ci sono molti numeri verdi locali disponibili e in questo periodo particolarmente difficile ce n'è anche uno che garantisce sostegno psicologico a livello nazionale: 800 833 833.

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