Probabilmente non esiste nella storia del calcio un uomo che sia stato più decisivo di Johan Cruijff nel cambiare le sorti di una squadra. Dal suo arrivo in Catalogna, estate 1973, Cruijff divenne presto un simbolo popolare: un anno dopo chiamò suo figlio con un nome catalano (Jordi), e vinse la Liga dopo ben 14 anni di digiuno. Il definitivo impatto di Cruijff sul Barcellona si avrà per le sue idee: prima, a fine anni ’70, quando suggerì di creare una struttura moderna per il settore giovanile, utilizzando La Masia come residenza per i giovani calciatori; poi da allenatore, nel 1988, quando ebbe inizio la vera grande epopea di un Barcellona “nuovo”.
L’olandese, con il suo credo calcistico, cambiò per sempre la mentalità e la storia del club catalano; da “equipo exquisito y melancolico”, nelle parole dello scrittore Javier Marías, con una costante tensione verso il complottismo e il vittimismo, a macchina di vittorie, capace di vincere 6 trofei in un solo anno (il 2009) e di macinare record su record. Dal suo arrivo sulla panchina blaugrana fino a oggi il Barça ha vinto più campionati (13) che nei precedenti 60 anni (10). A livello europeo la differenza è ancora più impressionante: prima del Cruijff allenatore, solo due vittorie europee (Coppa delle Coppe) in quasi novant’anni di storia; dopo, ben 13 titoli in meno di 30 anni.
Proprio grazie a Cruijff il Barça riuscì a rompere la maledizione della Coppa dei Campioni (due finali perse nel 1961 e 1986) e a vincere l’ultima edizione prima del cambio di nome, quella del 1992.
L’avversario, quella sera del 20 maggio a Wembley, era la Sampdoria, che lo stesso Marías (di fede madridista) paragonò in un celebre articolo allo Sporting Gijón. Si sbagliava di grosso (con tutto il rispetto per gli asturiani): quella era la Samp di Boskov, del DS Paolo Borea, di Vialli e Mancini, di Pagliuca e di tanti altri. Era soprattutto la Samp del presidente Paolo Mantovani: un altro uomo che stava cambiando completamente il destino e la storia del suo club, con idee razionali e illuminate.
Dal 1973 al 1976 Mantovani era stato addetto stampa dei blucerchiati; poi decise di acquistare la squadra nel 1979. La scalata della Sampdoria al calcio italiano fu metodica: piccoli, ma decisivi passi ogni anno sul mercato (per citare i giocatori presenti a Wembley: Vierchowod nel 1981, Mancini nel 1982, Pari nel 1983, Vialli e Mannini nel 1984, Cerezo nel 1986, Pagliuca nel 1987, Katanec, Invernizzi e Lombardo nel 1989, Bonetti nel 1990, Buso nel 1991, più Lanna dal settore giovanile), puntando su giovani talenti da far maturare con calma.
Questa strategia fu premiata da una progressione di successi: la Coppa Italia nel 1985, nel 1988 e nel 1989; la finale di Coppa delle Coppe del 1989 persa proprio contro il Barça di Cruijff, e quella del 1990 vinta contro l’Anderlecht, il primo titolo europeo dei blucerchiati. Poi, nel 1991, lo Scudetto. Quella finale del 1992 era l'ultima tappa di uno splendido percorso, tutto tranne che un evento casuale e straordinario.
Il video della partita.
Le due squadre si conoscevano già molto bene e si rispettavano: dopo la finale di Coppa delle Coppe del 1989, vinta per 2-0, il Barça aveva cambiato molti giocatori, ma non il suo stile di gioco. La Samp invece, era rimasta quasi la stessa squadra, ma aveva guadagnato fiducia: erano entrambe squadre vincenti.
Il Barça (con un’orrenda maglia arancione) praticava un ibrido tra più moduli: in teoria un 3-4-3 con posizioni molto fluide e in cui si cercava, sempre e soprattutto, la superiorità con il pallone, per disorientare l’avversario.
L’asse portante era formato da un difensore centrale come Koeman, ex centrocampista, in grado di impostare in modo perfetto (per Cruijff l’inizio azione era la fase più importante del gioco), un giovane Guardiola a dettare i tempi, Bakero a cercare la posizione tra le linee avversarie, e gli attaccanti in continuo movimento, per dare ampiezza o superiorità al centro in base ai momenti, con Laudrup falso centravanti, affiancato da Salinas e Stoichkov.
Per Cruijff la posizione più importante era quella di Bakero, cioè una mezzapunta che doveva ricevere tra le linee, ma spalle alla porta, per restituire il pallone a un compagno con il campo davanti e quindi in grado di cambiare il ritmo della circolazione di gioco.
La Samp di Boskov scese in campo con un 4-4-2 di base, con Mannini sulla destra e Marco Lanna nel ruolo di libero; un’ala d’attacco (Lombardo), un centrocampista di manovra (Cerezo) affiancato da un mediano come Pari; e una coppia d’attacco molto affiatata, quella tra il centravanti Vialli e il numero 10 Mancini.
Tra identità e paura
Poco prima di entrare in campo, il tecnico olandese aveva detto ai suoi giocatori una semplice frase, «Salid y disfrutad»: cioè entrate in campo e godetevela. Di divertimento ce ne fu poco, però, sia per i giocatori che per gli spettatori: le squadre erano molto, troppo, attente a non commettere errori. Il primo tempo in particolare è quasi inguardabile (testimoniato anche dal basso dato dell’IPO di SICS: 15-13).
Il fraseggio corto, specialità del “Dream Team” di Cruijff, non funzionava bene: Guardiola era frenato dalla gabbia preparata da Boskov; Bakero, Eusebio e Laudrup, i tre riferimenti del gioco tra le linee, non riuscivano mai a liberarsi per ricevere un passaggio senza essere braccati da un giocatore avversario.
La Samp si raggruppava bene nella propria metà campo, non dava spazio al possesso catalano in zona centrale, ma poi aveva problemi in ripartenza, nonostante il continuo movimento di Vialli sul fronte offensivo.
La Sampdoria creava pericoli quasi solo sui calci piazzati, perché i suoi saltatori erano di gran lunga migliori (oltre che effettivamente più alti), e perché Cruijff non preparava strategie specifiche per corner e punizioni (si limitava a posizionare le tre punte fuori dall’area di rigore, impedendo così ai difensori avversari di salire). È proprio Andoni Goikoetxea, un giocatore che disputò quella finale, a rivelarci questo dettaglio nella “nuova” telecronaca di quella partita: il basco confessa che in effetti a ogni calcio piazzato i giocatori catalani provavano un brivido lungo la schiena.
Le difficoltà dei campioni d’Italia in impostazione erano talmente grandi che dopo venti minuti Lanna era costretto a defilarsi, lasciando a Cerezo il compito di iniziare l’azione.
Il pressing catalano sul primo possesso blucerchiato: Cerezo prova ad abbassarsi, ma è circondato; Lanna fa il libero, ma è impaurito e la passa indietro a Pagliuca, che la blocca con le mani. All’epoca, quindi, il pressing alto era una tattica ancora più difficile, visto che i difensori avevano un appoggio sicuro nel portiere.
In fase di contenimento la Samp si schierava a volte con un 5-3-2 con Mannini, Lanna e Vierchowod centrali di difesa, oppure con un 4-5-1 in cui Vialli era l’unico riferimento offensivo e Mancini si sacrificava sulla sinistra in ripiegamento: tale duttilità era permessa anche da Bonetti, in grado di ripiegare fino a terzino sinistro, e da Katanec, che occupava praticamente tutti i ruoli del centrocampo.
Il Barça reagiva a questo blocco centrale cercando sempre di giocare in ampiezza, senza troppo successo: Laudrup e Stoichkov si alternavano sulla fascia sinistra, molto larghi, all’altezza della linea laterale. Bakero (secondo le rilevazioni SICS, per il basco 4 assist, 6 passaggi chiave, 1 dribbling, 10 palle recuperate e 10 duelli vinti: dati che spiegano l’apprezzamento di Cruijff) era marcato quasi a uomo da Toninho Cerezo, un altro grande giocatore costretto a sacrificarsi.
Il primo tempo non poteva che terminare 0-0: la Samp sembrava interessata solo a chiudere gli spazi ai blaugrana, con successo, ma senza arrivare a tre passaggi di fila nella trequarti avversaria; il Barça cercava con pazienza di aprire il gioco e di trovare delle soluzioni, ma non riusciva a trovare spunti individuali. Solo Stoichkov e Laudrup, due grandi campioni, avevano le capacità per saltare sempre l’uomo, ma nessuno aveva la velocità di azione e di gioco di un Messi, giusto per capirci.
Guardiola era stato tagliato fuori dal gioco (i suoi dati sono deludenti: solo 5 passaggi chiave, e più palle perse che recuperate), e a dettare i tempi c’era solo Koeman, che giocava quasi da centrocampista centrale (e che ha chiuso la partita con dati da regista: 4 assist, addirittura 14 passaggi chiave, 8 palle recuperate e ben 8 duelli vinti), cercando sempre di aprire il gioco in diagonale.
Sette minuti di gioco e il Barça ha già la linea difensiva altissima, schierata addirittura oltre la linea di centrocampo: Koeman, alla fine, diventa un vero regista. Non c’è pressing sampdoriano sul primo possesso, ma Guardiola è in una gabbia di tre giocatori, e non ci sono linee di passaggio vicine oltre a quelle orizzontali.
Time of your life
Nel secondo tempo il Barça si dimostrava immediatamente aggressivo (a fine partita ben 12 palle recuperate nella metà campo avversaria), con le linee sempre più alte (a fine partita, l’altezza media delle palle recuperate è di 42 metri), e nei primi cinque minuti, seppur in modo casuale, era riuscito a concretizzare il suo dominio: ci pensò Pagliuca a salvare il risultato, con delle vere prodezze (su Salinas, Stoichkov ed Esuebio).
La linea difensiva era passata da 3 a 4 nel secondo tempo, per tornare alla conformazione originaria dopo pochi minuti. La mossa, infatti, non aveva prodotto grandi effetti, anche perché rendeva più difficile il sostegno di Koeman alla manovra.
A spiccare nel Barça già allora era la mancanza di ruoli predefiniti: nella posizione di centravanti si alternavano prima Laudrup, poi Stoichkov, poi Salinas e persino Bakero. Insomma, si capisce bene da chi abbia preso il Guardiola allenatore.
La Sampdoria continuava a raccogliersi a ridosso della propria aerea, ma senza risolvere il problema della fase offensiva: c’era troppo campo da percorrere in contropiede. Quando i blucerchiati provavano ad attaccare in modo ragionato, ricorrevano spesso a lanci lunghi, finendo quasi sistematicamente in fuorigioco (ben 11 volte).
L’unica possibilità era di partire in contropiede sulla fascia destra puntando sulla velocità di Attilio Lombardo, l’uomo in più della squadra di Boskov. Sempre pronto ad attaccare lo spazio tra Nando e Juan Carlos, sembrava incontenibile perché nel Barça non c’era nessuno con il suo passo (ed è infatti il giocatore sampdoriano con il miglior score: un assist, 2 cross, 5 dribbling riusciti e addirittura 19 duelli vinti).
Proprio in questo modo la Samp riuscì a creare una grandissima occasione: contropiede veloce con il numero 7 che saltava avversari in velocità e serviva un cross al centro per Vialli, che con furbizia bruciava Koeman, ma a due passi da Zubizarreta sbagliava la volée.
Per assurdo, pochi minuti dopo era il Barcellona ad andare vicinissimo al gol in contropiede: la Samp si era spezzata in due su un calcio piazzato nella trequarti avversaria e aveva perso il pallone; Laudrup (2 assist, 4 dribbling riusciti e 14 duelli vinti) serviva una splendida palla filtrante di esterno per Stoichkov (1 assist, 2 dribbling, 10 duelli vinti), che, di destro, con un tiro a incrociare colpiva il palo interno alla destra di Pagliuca. Sarebbe stata una vera beffa tattica.
Le difficoltà della Samp in fase di impostazione: Cerezo è bloccato e non ha linee di passaggio facili; cerca un’apertura sulla desta che finirà in fallo laterale.
Il tridente offensivo dei catalani diventava sempre più aperto sul campo, nel tentativo di allargare la linea difensiva sampdoriana, che però riusciva a limitare i danni grazie ai raddoppi sulle fasce. Goikoetxea, una vera e propria ala, sostituiva Salinas nel tentativo di garantire più spinta sulla destra.
Quando la Samp provava qualche movimento offensivo più elaborato, si accorgeva che la linea difensiva catalana non era propriamente imbattibile: ad esempio, Mancini si abbassava sulla trequarti mentre Vialli correva in direzione opposta per attaccare la profondità. A venti minuti dalla fine, un rasoterra verticale dalla difesa riusciva a bucare la difesa del Barça, permettendo al centravanti (allora con una folta capigliatura) di sfidare Koeman in velocità (l’unico difetto del difensore olandese), per lasciar partire un tiro che solo l’istinto di Zubizarreta riuscì a salvare.
Una volta assimilata l’incapacità della Samp di iniziare l’azione dalla difesa, Boskov aveva spostato Katanec in posizione di rifinitore statico dietro le punte, ma solo per raccogliere di testa i lanci lunghi (incredibilmente potenti e precisi, da portiere sudamericano) di Pagliuca: sulle spizzate dello sloveno, i blucerchiati potevano creare qualche pericolo.
Pochi secondi dopo, proprio in questo modo la Samp ebbe l’occasione della partita: Guardiola perdeva un duello aereo con Katanec e Mancini riceveva il pallone avendo visto in anticipo il movimento di Vialli ad attaccare lo spazio. Il centravanti della Samp, davanti al portiere avversario, provava un tocco morbido, quasi un pallonetto laterale, che usciva però di pochi centimetri.
Un’altra opportunità sprecata dal numero 9, che proprio nei giorni precedenti la finale era stato al centro di voci sempre più insistenti di mercato (era in realtà già stato ceduto alla Juventus): un Vialli combattivo, ma impreciso, con la testa piena di tanti, troppi pensieri. I 90 minuti, piuttosto scialbi, finivano con un risultato inevitabile, visto l’andamento di gioco.
Nei supplementari, Cruijff provava a cambiare lo schema tattico della sua squadra: Stoichkov diventava prima punta, con Bakero dietro a supporto e Laudrup e Goikoetxea sulle fasce, in una sorta di 3-3-1-3.
All’improvviso, stufo di quello spettacolo, il pubblico cominciò a fischiare in massa (tranne i tifosi blaugrana, ovviamente) lo sterile possesso palla catalano: un anticipo sulle critiche che circa 20 anni dopo verranno rivolte al gioco di posizione (volgarmente chiamato tiki-taka) del Guardiola allenatore.
Il blocco centrale della Samp: da questo intervento nasce la punizione decisiva.
La Sampdoria però non offriva opzioni migliori: completamente rinchiusa nella propria trequarti (altezza media delle palle recuperate pari a 28 metri, davvero pochi), era ormai priva di qualunque opportunità di contropiede. Eppure, ancora Lombardo, impressionante per tenuta atletica, al minuto 105 addirittura saltava 3 avversari, umiliando dal punto di vista atletico un ventunenne Guardiola.
E poi, poco altro, fino al famoso calcio di punizione: è impressionante guardare la reazione dei giocatori della Samp al fischio dell’arbitro. Mancini si lamentò immediatamente, Invernizzi non sembrava darsi pace e Vialli, in panchina, disperato si copriva gli occhi con un asciugamano. Tutto ciò prima che Koeman calciasse: eppure di punizioni ce n’erano state già altre, nel corso dei precedenti 111 minuti. Fino a quel momento la partita era stata in parità anche per l’IPO: il Barça aveva creato di più (ben 9 le parate di Pagliuca), ma la Samp era stata pericolosissima nelle sue poche sortite offensive (a fine partita il totale è di 80 a 63 per i catalani).
Non so se si possa attribuire una colpa, su quel magnifico gol: forse i tre blucerchiati furono poco reattivi e lenti a uscire dalla barriera; forse Pagliuca non avrebbe dovuto fare quel famoso saltello verso sinistra per vedere il pallone.
Ma forse bisogna riconoscere i meriti a Koeman per una punizione straordinaria: quando ancora i palloni erano di marmo, riusciva a far viaggiare il pallone a una velocità di circa 112 km all’ora. Insomma, Pagliuca aveva a disposizione solo 88 centesimi di secondo (più o meno), per reagire a quel tiro.
Va riconosciuto a Koeman di essere stato un giocatore particolare e forse anche sottovalutato: è tuttora il difensore che ha segnato più reti, 193, in 535 partite.
Il gol di Koeman: quando il pallone riesce a passare attraverso l’unica fessura possibile tra 3 avversari, forse bisogna parlare di destino. O di barriera disorganizzata.
Sliding goal
Nei minuti che seguirono, ci fu un assedio disordinato della Samp, con tutte le energie che c’erano; con molti spazi per il contropiede del Barça, e ancora un paio di grandi parate di Pagliuca.
Così il Barça vinse la sua prima Coppa dei Campioni: un momento decisivo, perché senza quella prima vittoria forse non sarebbero venute le altre (di quanta fiducia avrebbe goduto Cruijff, e la sua idea di calcio? E quanta credibilità avrebbe avuto, il Guardiola allenatore?). Per ricevere la coppa, i catalani cambiarono giustamente maglia, indossando quella classica blaugrana invece dell’arancione fluorescente.
Le lacrime disperate di Mancini, seduto sul campo da calcio, erano inevitabili perché consapevoli della fine di un ciclo. La sua partita fu piuttosto spenta, ma non per colpe specifiche (5 assist e 6 passaggi chiave sono molti, in una partita giocata quasi sempre nella propria metà campo): la Sampdoria scelse di giocarsi la finale concentrandosi molto, troppo sui pregi degli avversari. Riuscì a bloccare il Barcellona, è vero, ma di fatto si amputò di tutto il genio e la creatività di cui disponeva, e che Mancini rappresentava in pieno.
Chissà cosa sarebbe accaduto se la Samp avesse vinto quella finale, con un pizzico di spregiudicatezza in più: magari il Barça non sarebbe diventato quello che è ora; la Samp avrebbe continuato nel suo modello di progettazione razionale, anche dopo la morte di Mantovani, e sarebbe diventato un modello in Europa. Magari Mancini sarebbe diventato, da allenatore, l’incarnazione di quel modello, guidando i blucerchiati dalla panchina.
Quella sera di Wembley ci ha consegnato un altro epilogo, purtroppo: deve rimanere l’orgoglio per un grande sogno, quello sampdoriano, che incantò gli stadi di tutta Europa, ma che purtroppo mancò l’appuntamento decisivo.
Alla Font de Canaletes, invece, festeggiarono tutta la notte; era un nuovo inizio per il Barça, e un nuova era stava per sorgere anche sulla città di Barcellona, che stava per essere cambiata per sempre dalle Olimpiadi del 1992.
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