L’aumento della forbice economica e qualitativa tra i club europei e il resto del mondo ha reso la Coppa Intercontinentale - oggi ribrendizzata come Mondiale per club - una competizione ambigua per le squadre del nostro continente. Se la vinci, hai fatto il tuo dovere, se la perdi, è una tragedia. Non è sempre stato così però, o almeno questa è la percezione che si ha rivedendo le finali del passato, partite molto più sentite, che spesso finivano per essere estremamente combattute; partite in cui poteva venire il dubbio su chi fosse davvero la migliore tra le due. All’inizio degli anni ’90, ad esempio, il San Paolo di Tele Santana vince per due anni consecutivi Libertadores e Coppa Intercontinentale. In finale batte una volta il Barcellona di Cruyff e una volta il Milan di Sacchi. Al termine della partita col Barcellona Cruyff disse: «Se devi essere messo sotto meglio che sia da una Ferrari».
Quello è forse l’ultimo momento in cui una squadra non europea può essere considerata tra le migliori del mondo. Ora un club del vecchio continente potrebbe anche perdere in una partita secca contro la controparte (anche se non succede dal 2012), ma non verrebbe in mente a nessuno di dire che l’altra è una squadra più forte. Anche loro lo sanno e spesso si presentano alla sfida con l’idea di non fare brutta figura, difendere il fortino cercando di cogliere in fallo l’avversaria che si trova questa partita infilata in un brutto momento del calendario.
Una squadra però ha cercato di essere ambiziosa, provato a volare come Icaro allo stesso livello della sua controparte europea. E come Icaro, è finita malissimo. Sto parlando del Santos di Neymar contro il Barcellona di Messi e Guardiola, nella finale del Mondiale per Club del 18 dicembre del 2011. Questa partita è entrata a malapena nella narrazione di quel Barcellona, che solo pochi mesi prima aveva annichilito il Manchester United a Wembley nella finale della Champions League eppure nella storia di quella squadra è un momento importante. Giocata di mattina, in Giappone, contro un avversario comunque meno forte, era sembrata la solita partita che il Barcellona dominava e portava a casa in maniera brillante senza scomporsi troppo. Invece, come racconta Martí Perarnau in Herr Pep, parlando con il suo assistente Estiarte durante il primo ritiro estivo col Bayern, Guardiola ricorderà la prestazione contro il Santos come il picco massimo raggiunto dal suo Barcellona.
Guardiola è rimasto al Barcellona per quattro stagioni e spesso questo lungo periodo viene considerato come un blocco unico. La prospettiva storica tende a schiacciare questo percorso per infilarlo tutto sotto l'ombrello del “tiqui taca” - ripudiato dallo stesso allenatore - ma in realtà in ognuna di queste quattro stagioni ci sono stati dei cambiamenti importanti, perché, come insegnatogli da Cruyff, una squadra deve essere un organismo in continua evoluzione, per evitare di diventare prevedibile o di perdere ambizioni a causa di fattori come la stanchezza e l’accontentarsi. Pur conservando diversi uomini chiave, il Barcellona della prima stagione di Guardiola è diverso dal Barcellona della sua ultima e si può tracciare un percorso di crescita e consapevolezza. Da squadra che affonda le radici nell’ortodossia cruyffiana di un gioco di posizione verticale nella prima Champions League vinta nel 2009, a una che spinge di più verso un dominio territoriale attraverso il possesso nella vittoria del 2011.
L’ultima stagione sarà quella del duello in Liga con il Real Madrid di Mourinho, che mangerà tutto il discorso, ma è anche forse la versione più ideologica del Barcellona di Guardiola, quella più fluida e flessibile, che in maniera organica sembra sublimare tutto il lavoro dell'allenatore e, forse per questo, è la sua versione preferita. La finale con il Santos arriva proprio a cavallo di questa stagione ed è una partita da raccontare.
Oggi Guardiola viene accusato di pensare troppo prima delle partite decisive, stravolgendo la squadra per cercare un piano gara ipotizzato solo da lui, ed è curioso come anche quella partita fu aperta da una sua controintuitiva scelta di formazione. Nella semifinale si era infortunato gravemente David Villa, un'assenza importante ma che potrebbe essere coperta in maniera naturale da Pedro o Alexis Sánchez. Invece Guardiola stravolge la squadra: schiera una difesa a 3, il centrocampo a rombo e Dani Alves ala destra. In attacco, a sorpresa, c’è Thiago Alcantara, che però non occupa il posto di Villa, ma scala a sinistra cambiando tutto lo schieramento: Iniesta diventa mezzala sinistra, Fàbregas trequartista e Messi falso 9. Solo due giocatori tra quelli schierati (Abidal e Dani Alves) non sono passati per la Masia, un aspetto fondamentale per come giocherà la squadra in questa finale.
Contro c’è un Santos che è considerato nella sua migliore versione dai tempi di Pelè e non soltanto perché dispone del suo erede più credibile. La squadra è un mix di giocatori esperti esperti tornati dall’Europa (come gli attaccanti Borges e Elano e il difensore Edu Dracena) e giovani in rampa di lancio che sono il portiere Rafael, Danilo che la stagione successiva arriverà in Europa con il Porto, ma soprattutto Ganso e Neymar. In quel momento questi due sono considerati la più grande cosa capitata in Brasile da parecchio tempo, due giocatori che avrebbero rivoltato il calcio, sia in patria che all’estero. Le cose, poi, non sono andate esattamente così per uno dei due, ma in quel momento nessuno lo sospetta, anzi per qualcuno Ganso è addirittura più forte di Neymar.
Eppure la vetrina non può essere la sua, di Neymar, che aspetta questa partita da mesi. Ci arriva preparato in tutto: la cresta schiarita al punto giusto e ben sistemata, un cerotto bianco sul naso di quelli per respirare meglio, le maniche corte e le fasce ai polsi nonostante i guanti neri (che si toglie dopo poco il fischio iniziale). Carichissimo, dispensa occhiolini e sorrisi beffardi mentre entra come ultimo della fila della sua squadra. «Tra non molto sarà il migliore del mondo» aveva detto il suo allenatore Muricy Ramalho alla vigilia, prima di addentrarsi nel confronto con Messi: «I due sono simili, ma Neymar è un po' più speciale. Il suo stile alterna la direzione della palla mentre la porta, mentre Messi palleggia più in linea retta. Neymar è imprevedibile. Non si trova nessuno al mondo che faccia quello che fa lui con la palla».
Per il primo vero confronto con il calcio europeo, Neymar viene schierato in attacco accanto a Borges, libero di cercarsi la posizione per ricevere meglio il pallone e con Ganso come trequartista alle spalle dei due. L’idea di Muricy Ramalho è di provare a recuperare il pallone a centrocampo e farlo passare per i piedi di Ganso prima di arrivare a Neymar, che dovrebbe ricevere nello spazio alle spalle di Busquets e davanti alla linea difensiva, costringendola ad accorciare.
Neymar non tocca un pallone per i primi quattro minuti e mezzo di partita; per farlo deve scendere a centrocampo e ricevere un passaggio spalle alla porta, che controlla e scarica pulito per Ganso, che di coscia prova uno strano appoggio per Danilo, che viene chiuso da tre avversari. La prima azione pulita arriva all’ottavo minuto, quando sugli sviluppi di un contropiede riceve sulla trequarti. Neymar ha un po’ di spazio, davanti a lui c’è Puyol e dal lato sta arrivando Busquets. Il brasiliano finta il tiro da fuori per eludere la marcatura di Puyol, ma la chiusura di Busquets gli impedisce il tiro immediato. Sulla seconda finta ormai ha perso il tempo e il difensore può intervenire frontalmente e contrastarlo con successo.
L’inviato di Marca scriverà così della sua partita: «Non è stata la giornata di Neymar. La stella del Santos è stata surclassata da una squadra molto compatta, che non aveva crepe. Il primo tempo del nazionale brasiliano è stato da dimenticare. Non è riuscito a fare un tiro in porta ed è riuscito solo far ammonire Piqué». Sul ribaltamento di quell’azione nasce la prima vera occasione per Barcellona, che con pochi passaggi veloci riesce a far arrivare il pallone a Messi a centrocampo. L’argentino parte in conduzione e attrae su di sé tutta la difesa del Santos, potendo quindi scaricare a sinistra per Thiago, che è liberissimo. Il centrocampista può puntare l’avversario e portarlo fino a dentro l’area di rigore, scambiare con Messi e ricevere il passaggio di ritorno che lo mette solo davanti al portiere. La palla ritorna a Thiago coi tempi giusti, ma prima di poterla ricevere viene contrastato da Edu Dracena che lo stende, per l’arbitro però non è un contatto falloso. L’azione è la prima in cui si vede cosa chiede Guardiola a Thiago in questo ruolo inedito di ala sinistra.
Le azioni principali della partita.
Tutto questo non funzionerebbe senza l’aiuto del reparto arretrato, con Piqué centrale e ai suoi lati Puyol e Abidal, istruiti per uscire forti in anticipo. Davanti a loro Busquets si muove mantenendo le distanze richieste tra la linea dei centrali e i compagni di centrocampo, stando attento a non schiacciarsi troppo quando Xavi scende a impostare. Un lavoro di letture senza palla che solo lui, in quel momento, sembra poter eseguire con quella precisione, dovendo tenere sotto controllo anche nella marcatura preventiva Ganso, che ama ricevere al centro della trequarti. Il Barcellona recupera il pallone prima ancora che arrivi in area e poi risale subito il campo palla a terra.
La squadra conosce a memoria il gioco di posizione e riesce a manipolare un avversario non abituato a trovarsi di fronte una tale complessità. Rispetto ai passaggi in diagonale tra i giocatori nei mezzi spazi verso l’esterno, dopo aver creato un lato forte, il Santos non ha grandi risposte. I centrocampisti finiscono per muoversi da destra a sinistra seguendo il pallone come dentro una giostra.
In questo contesto la connessione tra Messi e Fàbregas è un’arma di distruzione di massa. Messi è nel suo picco atletico: è una scheggia col pallone incollato al sinistro, può darlo a un compagno o metterlo in fondo alla rete più o meno in qualsiasi momento. Chiuderà la stagione con 73 gol e 48 assist (lol). Fàbregas, arrivato in estate dopo un corteggiamento infinito per “riportarlo a casa”, è considerato da Guardiola l’ultimo pezzo del puzzle. Con lui il Barcellona dovrebbe trovare profondità nella fascia centrale del campo, rompendo quindi i sistemi più chiusi. In questa fase della carriera Fàbregas è abituato agli inserimenti in area, arriva da una stagione da 18 gol e 9 assist, ma Guardiola vuole spingersi oltre e farne un incursore specializzato nei contromovimenti in profondità rispetto a quelli incontro di Messi. Forse Guardiola pensa alla coppia Bakero-Laudrup, con lui in campo sotto Cruyff, e pensa di poterne costruire una ancora migliore, visto che Messi e Fàbregas si conoscono da quando giocavano insieme nelle giovanili e uniscono una connessione quasi telepatica a una tecnica splendida. È una bella idea che non funzionerà mai con continuità, e porterà anche a considerare l’impatto di Fàbregas sotto le aspettative (nonostante chiuderà la sua stagione con 15 gol e 21 assist). In questa partita però funziona, ed è devastante.
Il Barcellona ha sempre un giocatore al centro dell’attacco tra i due, ma senza averne mai uno fermo che possa offrire riferimenti al Santos. Chi segue Fàbregas deve lasciarlo per l’arrivo di Messi, che però si muove talmente tanto da liberare spazio per il ritorno di Fàbregas. La stampa definisce il modulo un 3-7-0, considerando quindi lo spazio come centravanti. Una descrizione che non convince Guardiola, anche perché un giocatore al centro dell’attacco c’è sempre, solo che ruota continuamente il nome di chi occupa la zona: «Non credo che stessimo giocando 3-7-0. È solo il nostro modo di giocare. Cerchiamo di controllare il centrocampo e di sfruttare gli spazi».
Insomma quanto visto in campo sarebbe più corretto chiamarlo 3-6-1 o 3-3-4, visto che è l’evoluzione del 3-4-3 col centrocampo a rombo di quando Guardiola stesso giocava sotto Cruyff e van Gaal. Niente di nuovo: come sempre Guardiola ha “rubato” qualcosa dal passato per riadattarlo alla contemporaneità. Riproporrà una versione di questo sistema nel Manchester City con de Bruyne e Foden o Bernardo Silva a fare questo gioco di movimenti e contromovimenti tra trequartista e falso nove. Quello che ci sembra calcio d’avanguardia nel 2021, insomma, si era già visto nel 2011, quando si era preso spunto dal 1991.
A funzionare meravigliosamente in questa partita è la fluidità, della coppia Messi-Fàbregas e di tutta la squadra. Ci sono rotazioni continue del centrocampo che portano magari Iniesta a occupare il centro della trequarti perché Xavi è venuto a sinistra a ricevere palla, e allora è Fàbregas che si muove a destra per occupare la zona della mezzala. Non sembrano esserci rotazioni studiate a tavolino ma solo continui aggiustamenti tra i giocatori in campo che seguono la propria intelligenza individuale che si scioglie nell’intelligenza collettiva. I giocatori del Barcellona seguono il posizionamento dei compagni per avere sempre i corridoi verticali occupati, e per creare triangoli naturali e giocare a uno o massimo due tocchi.
Al 13’ Messi ha la prima occasione con un’azione personale delle sue, che si conclude con un tiro da fuori che Rafael riesce a deviare. Il primo gol arriva pochi minuti dopo sfruttando una fluidità e delle combinazioni che portano Messi a ricevere in area. In questo caso, negli spazi ristretti della trequarti destra, il triangolo è formato da Messi vertice basso, Fàbregas a destra e Xavi al centro dell’attacco. Messi dà a Fàbregas che, spalle alla porta, con un tocco di prima di collo esterno passa a Xavi; è un passaggio leggermente alto che costringe il regista a un controllo di esterno destro dietro la schiena, seguito da un filtrante di collo interno destro per il taglio di Messi. L’argentino riceve alle spalle della difesa e deve solo controllare col destro e alzarla col sinistro sopra l’uscita del portiere.
Il Santos che inizialmente sembra fiducioso, forse reverente, ma comunque ambizioso, dopo il gol interiorizza un senso di paura nei confronti degli avversari. Vede una squadra che sa meglio come muoversi in campo, che sembra sapere persino dove perdere il pallone e cosa fare per recuperarlo subito; una squadra che non ti lascia respirare un secondo quando ha palla, anche dalla sua difesa. La squadra di Muricy Ramalho si spaventa e si disorganizza da sola: la palla sembra iniziare a scottare, c’è sempre un avversario attaccato e si ricorre di più ai lanci lunghi dalla difesa. Un gioco che i brasiliani non sanno fare, e che diventa solo un modo rapido per restituire palla al Barcellona.
Dopo il primo gol Guardiola non esulta e beve un sorso d’acqua dalla bottiglietta; poi riprende posto accanto alla linea laterale. Potrebbe anche rilassarsi, perché il gol consegna la partita nelle mani del Barcellona. Con l’ennesima rotazione, al minuto 23, la sua squadra si trova con Fàbregas mezzala destra e Xavi che va ad occupare il suo posto sulla trequarti. La palla arriva a Dani Alves e il movimento in profondità in area di Messi attira i centrali, Xavi nel frattempo si è inserito e riceve il cross del brasiliano per un facile 2-0.
È un’emorragia, le occasioni arrivano ininterrottamente: prima con uno scambio tra Messi e Fàbregas che chiude il triangolo e manda il dieci in porta, dove viene però anticipato dall’intervento miracoloso di Durval. Poi Fàbregas prende un palo solo contro il portiere, messo lì da un lancio di Xavi.
Neanche la mezz'ora e il Santos fa il primo cambio, con Danilo che esce per dare spazio all’attaccante Elano, messo però al suo posto come mezzala destra. Il Barcellona costringe il Santos a snaturarsi completamente, perché non ha mai visto questi giocatori e questo sistema di gioco tanto elaborato. Non sa come difendere, non sembra proprio avere gli strumenti tattici per reggere gli scambi ravvicinati e ipertecnici tra Messi, Fàbregas, Iniesta e Xavi. Quando il gioco viene cambiato il campo si allarga e altri fenomeni come Thiago o Dani Alves possono associarsi di nuovo oppure puntare l’avversario diretto. La coperta sembra sempre troppo corta per il Santos.
I brasiliani sono abituati a passare le proprie partite in attacco, e si ritrovano invece a chiedersi come riuscire a toccare una palla. Ma in quegli anni il Barcellona costringe quasi ogni avversario a snaturarsi, a cominciare dall’ultra-offensivo Real Madrid di Mourinho. Tutti decidono di abbassare il proprio baricentro e fare qualche preghiera in ripartenza. Solo essere già passati dentro il fuoco del Barcellona consente di farsi un’idea di cosa significhi, per arrivare quindi più pronti alla sfida successiva. Non è un caso se a battere i blaugrana in una partita decisiva questi anni siano state Inter, Real Madrid e Chelsea, ovvero tre squadre che già in precedenza li hanno affrontati.
Per chi però non è abituato a snaturarsi tanto come il Santos, non è semplice giocare col baricentro tanto basso, e al contempo l’assenza di meccanismi di pressing riduce ciascun giocatore a improvvisare un modo per fermare l’avversario diretto. Non ne arriva però solo uno alla volta, il Barcellona è uno sciame d’api. Il risultato dello sforzo difensivo del Santos è quasi comico: a volte sembrano invitare gli avversari a giocargli ai lati o alle spalle, in spazi aperti appositamente. Il Barcellona ha sempre un giocatore libero da trovare. Il terzo gol arriva a fine primo tempo: il Barcellona tocca il pallone in area con quattro giocatori differenti (tra cui un colpo di tacco di Messi per Dani Alves) con una prima conclusione di Thiago e poi quella vincente di Fàbregas. Il Barcellona chiude il primo tempo col 74% del possesso palla e 9 tiri, contro i 2 del Santos.
Il secondo tempo è una lunga passerella in attesa del fischio finale, con Messi che trova la sua doppietta a dieci dalla fine, mandato in porta questa volta da Dani Alves, dopo un pallone recuperato a centrocampo contro una squadra che sta aspettando solo il fischio finale.
Il Barcellona quindi vince Mondiale per Club dominando, e quello di Guardiola sembra un regno su cui non tramonta mai il sole, invece durerà solo qualche altro mese. Il Barcellona non giocherà mai più come contro il Santos e, dopo aver perso la semifinale di Champions League contro il Chelsea di Di Matteo, e soprattutto la Liga contro il Real Madrid di Mourinho, Guardiola è mentalmente svuotato. Lascia il Barcellona e la Catalogna, per un anno sabbatico prima di iniziare una nuova fase della sua carriera. Il suo amico e vice Tito Villanova eredita la squadra e inizia un lungo corteggiamento per riuscire a comprare proprio Neymar, che a causa della malattia non arriverà mai ad allenare.
Neymar esce dalla partita forse convinto di due cose: che vuole giocare nel Barcellona e che non era ancora pronto a farlo a 19 anni. Rimane in Brasile un anno e mezzo; in 70 partite segna 56 gol e con la Seleçao stravince la Confederations Cup 2013 giocata in casa, battendo la Spagna in finale per 3-0. Solo allora accetta il Barcellona, e dissipa rapidamente ogni dubbio sul fatto che il suo calcio estroso possa esprimersi anche contro le grandi squadre d’Europa. Quella partita era un caso a parte, come detto proprio da Neymar a fine partita: «Il Barcellona era impossibile da fermare».