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Classici: Lazio-Inter '98
15 apr 2020
Ricordo di una finale di Coppa UEFA iconica.
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16 min
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I dati e le grafiche di questa analisi sono stati gentilmente forniti da StatsBomb.

Per tutti gli anni ’90 la Coppa UEFA è stato il trofeo europeo preferito dalle squadre italiane. Tra la stagione 1988/89 e quella 1998/99 ne hanno vinte ben 8 sulle 11 disponibili, di cui 4 dopo una finale che vedeva affrontarsi due squadre della Serie A. L’unica finale di Coppa UEFA che non ha visto competere un club di Serie A è stata quella del 1996, vinta dal Bayern Monaco nella doppia sfida con il Bordeaux. E in questo contesto, la finale di Coppa UEFA del 1998 tra Inter e Lazio è stata la quarta - e finora ultima - occasione in cui due squadre italiane si sono contese il trofeo, degno epilogo di una stagione che ha segnato, anche nelle controversie, la storia dei due club e di tutto il calcio italiano.

All’inizio di quella stagione, Massimo Moratti, alla sua terza stagione da presidente, aveva voluto dare una svolta decisa ai destini dell’Inter, acquistando dal Barcellona per la cifra record di 50 miliardi Ronaldo che, nella stagione precedente, in Spagna, era stato "Pichici", come la Liga chiama il proprio capocannoniere, con 34 reti. L'attaccante brasiliano complessivamente aveva segnato 47 gol in 49 partite in tutta la stagione (o, se preferite, 0,91 gol per 90 minuti, rigori esclusi).

Foto di Eric Cabanis / AFP via Getty Images.

In realtà era la seconda volta che le strade di Ronaldo e dell'Inter si incrociavano. Già l'anno prima, infatti, Moratti avrebbe potuto metterlo sotto contratto, avendo la possibilità di superare l’offerta da 30 miliardi del Barcellona al PSV, ma all’ultimo momento si era tirato indietro. Oltre al più forte attaccante del mondo, l’ex presidente nerazzurro, comunque, rinforzò ulteriormente una squadra che poteva contare, tra gli altri, su un giovane Javier Zanetti, Youri Djorkaeff e Iván Zamorano.

Alla rosa furono aggiunti il difensore Taribo West, i centrocampisti Diego Simeone e Benoit Caeut, l’ala Francesco Moriero e un 21enne fantasista uruguaiano con le guance paffute, i capelli a scodella e i tratti un po’ orientali, che esordì a 20 minuti dalla fine della prima giornata contro il Brescia, oscurando Ronaldo con due gol da distanza siderale e stregando di un amore irrazionale il suo presidente. Ovviamente sto parlando di "El Chino" Recoba.

Per la panchina, lasciata vacante da Roy Hodgson, fu scelto Luigi Simoni, detto Gigi, senza squadra dopo che a Napoli la situazione era precipitata a causa di un rapporto sempre più teso con l’allora presidente Corrado Ferlaino. Un allenatore ancora legato alla difesa con il libero e alla marcatura a uomo rigida, a cui però veniva rimproverato di non essere sempre riuscito a trovare il giusto compromesso tra il talento a sua disposizione e la necessità di dare un equilibrio alla squadra. Simoni era un allenatore che puntava molto sulle ripartenze verticali, che, almeno in quella stagione, lo ripagarono con i risultati. I nerazzurri presero il comando solitario della classifica dopo appena tre giornate, mantenendolo fino alla diciassettesima giornata, quando furono scavalcati dalla Juventus, una delle squadre più forti d’Europa in quel momento e finalista in Champions League in quell'anno.

Il testa a testa con i bianconeri fu serrato e proseguì fino allo scontro diretto del Delle Alpi del 26 aprile, deciso da un gol di Alessandro Del Piero, ma, inevitabilmente, anche dal controverso contatto in area tra Mark Iuliano e Ronaldo, forse la più dibattuta decisione arbitrale nella storia del calcio italiano, che fece perdere le staffe persino “all’allenatore gentiluomo” Simoni, che nell’occasione fu espulso dall’arbitro livornese Piero Ceccarini.

Il sogno Scudetto di Moratti e Ronaldo svanì col fischio finale e all’Inter non restò che concentrarsi sulla Coppa UEFA, dove aveva raggiunto la finale dopo la semifinale con lo Spartak Mosca, decisa da un doppio 2-1 interista e soprattutto dalla doppietta di Ronaldo in Russia: un gol “di rapina” e un guizzo con cui scherzò due difensori e il portiere Aleksandr Filimonov, prima di depositare la sfera nella porta rimasta vuota.

La Lazio, invece, a fine febbraio aveva steso i nerazzurri 3-0 ed era una seria contendente allo Scudetto. I biancocelesti avevano per lunghi tratti insidiato sia la squadra di Simoni sia quella di Marcello Lippi, ma si erano spenti sul finale, che li vide perdere all’Olimpico con la Juventus e raccogliere appena un punto nelle ultime sei gare, precipitando al settimo posto. Come l’Inter, la Lazio si era rinforzata notevolmente per volere di Sergio Cragnotti, che affidò la squadra allo svedese Sven-Göran Eriksson. L’ex allenatore della Sampdoria portò con sé da Genova il numero 10 Roberto Mancini (Giuseppe Signori fece il percorso inverso nella sessione di mercato autunnale), mentre la società strappò alla Juventus Vladimir Jugović e il figliol prodigo Alen Boksić. Il centrocampo fu rinnovato con l’arrivo di Matías Almeyda, la difesa con il terzino Giuseppe Pancaro. Tra le sue fila la Lazio annoverava anche l’elegante difensore 21enne Alessandro Nesta (che Eriksson ha definito il calciatore più forte allenato alla Lazio) e un 24enne Pavel Nedved, che da esterno sinistro chiuse la stagione da capocannoniere di squadra con 15 gol in tutte le competizioni, tanti quanti Boksić.

Pur deragliando in campionato, Eriksson convinse Cragnotti e il presidente Dino Zoff e gettò le basi per quello che fu lo Scudetto del 2000, anche grazie alla vittoria in Coppa Italia contro il Milan, per cui fu decisivo il gol del 3-1 di Nesta nel ritorno dell’Olimpico, dopo che la gara d’andata era stata decisa dal gol George Weah.

In Coppa UEFA il percorso della Lazio fu netto tanto da arrivare alla finale imbattuti e con appena 3 gol subiti a fronte dei 16 segnati in tutta la competizione. Decisiva per la conquista dell’accesso in finale fu la gara di Madrid, contro l'Atletico, in cui a una Lazio accorta bastò il gol di Jugović al Vicente Calderon: il ritorno dell’Olimpico terminò infatti con uno 0-0 scorbutico e poco spettacolare.

La finale

Quella finale di Coppa UEFA fu particolarmente importante per diversi motivi. Importante per la Francia e il Parco dei Principi, innanzitutto, perché rappresentava la prova generale del Mondiale ormai alle porte. Ma anche per la Lazio, non solo perché era la prima in assoluto nella sua storia, ma perché sembrava l'atto conclusivo di un'era che avrebbe proiettato la squadra romana in un futuro radioso. Il 6 maggio 1998, giorno in cui si giocò la finale a Parigi, la Lazio divenne infatti la prima società italiana a quotarsi in borsa. E a Piazza Affari furono costretti a sospendere quasi subito il titolo per eccesso di rialzo, che aveva guadagnato il +11,8% sul prezzo di collocamento di 5500 lire.

Tornando al campo, Simoni fu costretto a fare a meno del capitano Giuseppe Bergomi e scelse per il ruolo di libero Salvatore Fresi, difensore utilizzabile anche a centrocampo. A completare la difesa schierata davanti alla porta difesa da Gianluca Pagliuca furono West, Francesco Colonnese e Zanetti. I quattro di centrocampo erano disposti a rombo, con Zé Elias da regista, l’ex biancoceleste Aron Winter mezzala destra, Simeone sul centro-sinistra e Djorkaeff trequartista. In attacco ovviamente Ronaldo, vicecapocannoniere della Serie A con 25 reti (dietro al solo Oliver Bierhoff, 27) a far coppia con Zamorano.

Eriksson doveva invece rinunciare a Boksić (che per un infortunio al ginocchio saltò anche il Mondiale), sostituito da Pierluigi Casiraghi e a Pancaro, che decise di rimpiazzare schierando da terzino destro Alessandro Grandoni. Con Marchegiani in porta, la prima linea del 4-4-2 era formata da destra a sinistra dal terzino dell’Under 21, Nesta, Paolo Negro e Giuseppe Favalli. Giorgio Venturin e Jugović erano i due centrocampisti centrali, con il capitano Diego Fuser largo a destra e Nedved a sinistra. Infine, in attacco Mancini agì da seconda punta alle spalle del centravanti Casiraghi.

La partita si sbloccò praticamente subito, con un lancio alto alle spalle della difesa di Simeone, lasciato senza pressione, destinato a Zamorano. Dopo aver compiuto una mezza finta, il 9 nerazzurro tagliò davanti a Negro (che probabilmente guardava solo la palla) e poté persino far rimbalzare la palla prima di colpire di controbalzo e superare Marchegiani.

L’errore di lettura della difesa della Lazio fu abbastanza netto, visto che non era posizionata né per attuare una trappola del fuorigioco, né per scappare all’indietro come sarebbe stato invece consigliato dalla situazione di palla scoperta, visto che nessuno dei centrocampisti si era staccato per disturbare il centrocampista argentino dell’Inter.

D'altra parte, sia l’Inter che la Lazio erano due squadre disabituate a difendere e attaccare in maniera posizionale e davano il loro meglio in transizione. Come ricordò Bruno Pizzul nella sua telecronaca, preferivano “giocare di rimessa”. Oltre al vantaggio nel punteggio, il gol al quinto minuto spostava l’inerzia tattica in favore la formazione nerazzurra, che poteva dunque costringere la Lazio a fare la partita e cercare di colpire in ripartenza. E infatti, dopo l’1-0, Simoni fu ben contento di lasciare il possesso palla (63% a 37%) agli avversari.

Inter a uomo, Lazio a zona

Al di là dell'affidamento alle ripartenze, le due squadre erano però decisamente diverse, soprattutto nell'approccio difensivo dei due allenatori. Il sistema di gioco di Simoni era ancora fortemente influenzato dalla zona mista: oltre all’utilizzo del libero, le marcature a uomo applicate dai suoi erano rigide e a tutto campo. E in questo modo in fase di non possesso il modulo dell'Inter si scomponeva sul campo, e veniva determinato di fatto dalle posizioni degli avversari.

Senza palla, Fresi si posizionava dietro alla linea di difesa, con West che marcava a uomo Casiraghi, determinando subito uno scontro notevole sul piano fisico, con Colonnese che invece era impegnato su Mancini. Zanetti, fluidificante sulla sinistra, ingaggiò fin dalle prime battute il suo personale duello con Fuser sia in fase difensiva che offensiva, mentre su Nedved si allargava spesso Winter, lasciando Simeone e Zé Elias in parità numerica con i centrocampisti della Lazio.

Anche in fase difensiva lo schieramento dell’Inter era particolare: Winter - che forse oggi avrebbe potuto essere un terzino di ruolo - offriva una linea di passaggio larga, per poi convergere in dribbling verso il centro, mentre Djorkaeff si abbassava sul mezzo spazio di destra per bilanciare l’occupazione del campo.

Eriksson, invece, impiegava un 4-4-2 con la difesa a zona, utilizzando un blocco medio-basso in fase difensiva e senza esercitare un pressing particolarmente aggressivo sul portatore di palla avversario. Non mancavano momenti in cui la Lazio compattava le due linee da 4 per ridurre lo spazio a disposizione sul lato della palla, ma nemmeno quelli in cui l’allenatore svedese decideva di alzare la pressione. In queste situazioni un attaccante pressava il difensore avversario in possesso e l’altro a marcava l’opzione di passaggio più ravvicinata, mentre il centrocampo accompagnava preparandosi a intervenire sulle altre linee di passaggio, con l’obiettivo di forzare un passaggio rischioso o un lancio lungo.

In fase offensiva la Lazio era solita appoggiarsi molto al suo centravanti, in questo caso Casiraghi, ma anche l’Inter cercava ripetutamente Zamorano. Rivedere la quantità di lanci verso la punta di due squadre di alto livello fa un certo effetto e dà un’idea precisa di quanto avere un centravanti di ruolo fosse importante per quasi tutti gli allenatori dell’epoca. Il calcio di allora sembra quasi un altro sport.

D'altra parte, sia Zamorano che Casiraghi avevano probabilmente nel gioco aereo e nel colpo di testa la propria caratteristica principale, e anche in quella finale entrambi si resero protagonisti di un continuo duello con il proprio marcatore di riferimento, fatto di colpi di testa e di complicati controlli volanti. Il confronto tra i due fu però nettamente a favore del cileno, che vinse 6 duelli aerei su 10, mentre Casiraghi uscì vincitore solo 3 volte (33%), anche per via di un dominante West (7 duelli aerei vinti, 78%).

Se Casiraghi fungeva da riferimento offensivo, Mancini svariava su tutto il fronte offensivo, cercando la combinazione con Fuser o Neved, o in alternativa l’iniziativa personale con il dribbling o l’imbucata di prima intenzione per un compagno. A 34 anni, la classe dell’attuale CT della Nazionale era tutt’altro che sbiadita, ma, pur essendo secondo al solo Nesta per coinvolgimento nel gioco (117 tocchi), nel corso della gara fu spesso neutralizzato da un ottimo Colonnese, la cui prestazione fu una delle chiavi della vittoria dell’Inter.

Pur dovendo ribaltare il risultato e quindi gestire il gioco, la Lazio era una squadra costruita per giocare in verticale. Nesta (134 tocchi) e Negro (92), più di Venturin, erano i giocatori che controllavano il ritmo del gioco partendo dalla difesa, decidendo se accelerare con una giocata verso le punte o se smistare il gioco lungo la fascia.

Sulla fascia destra gran parte delle responsabilità di progressione del gioco dipendevano da Fuser, il laziale con più dribbling (4) e passaggi nell’ultimo terzo (23), che non mancava di percorrere tracce interne per appoggiarsi sul talento di Mancini, situazioni che potevano determinare un uno-due e il conseguente cross per Casiraghi, o attendere la sovrapposizione di Grandoni.

Nel corso della ripresa il terzino fu anche sostituito da Eriksson con il più offensivo Gottardi, forse per provare ad arrivare al cross con più costanza, visto che i movimenti di Fuser sullo spazio di mezzo attiravano il suo marcatore Zanetti e lasciavano sguarnito il lato sinistro della difesa dell’Inter, un lato sul quale sarebbe in teoria toccato a Fresi intervenire. In un paio di occasioni Grandoni aveva persino avuto il tempo di ricevere palla dietro la difesa, costringendo il libero nerazzurro a un’uscita disperata.

A sinistra, invece, Nedved cominciò da esterno spostandosi gradualmente sempre più dentro al campo, anche a causa della fastidiosa marcatura di Winter che in fase difensiva faceva praticamente il terzino destro, trovando in Jugović l’uomo ideale per compiere un movimento complementare ad allargarsi. Altra situazione potenzialmente pericolosa per l’Inter, ma non adeguatamente sfruttata, visto che soprattutto nel secondo tempo, quando l’intensità degli avversari era calata, i loro movimenti erano riusciti a scombinare lo schema di marcature a uomo di Simoni, prendendo in mezzo Winter e Zé Elias.

La pressure heatmap dell’Inter nel primo tempo (sopra) e nel secondo (sotto).

La Lazio era andata vicino al pareggio praticamente solo in chiusura di primo tempo, ma le marcature a uomo dell’Inter, che praticamente non aveva mai pressato affidandosi quasi totalmente alla sua superiorità nei duelli individuali, si erano dimostrate decisamente solide e più affidabili della difesa a zona di Eriksson.

La linea difensiva biancoceleste non era riuscita ad applicare la tattica del fuorigioco con gli automatismi necessari, concedendo un'altra occasione a Zamorano poco dopo l’inizio della ripresa, con Ronaldo abile a giocare a muro su Djorkaeff che con un lancio aveva messo il cileno in grado di bucare nuovamente Marchegiani. Ma in quell’occasione i biancocelesti furono salvati dal palo.

La firma di Ronaldo

A indirizzare definitivamente la partita fu però un raro gol di Zanetti, forse il più bello e importante della sua carriera insieme a quello in Inter – Roma nel 2007/2008: un destro al volo in corsa con il pallone che rimbalzava nella sua direzione, che concluse la sua traiettoria infilandosi al sette per il 2-0 dei nerazzurri.

Insomma, per come si era messa la partita, la Coppa UEFA era già virtualmente nella bacheca dell’Inter, ma mancava ancora la firma del suo fuoriclasse, che nel dicembre del 1997, ad appena 21 anni, aveva ricevuto a San Siro anche il suo primo Pallone d’Oro. Firma che puntualmente arrivò, quando al 70esimo fu servito dal subentrato Moriero sul filo del fuorigioco, lanciandosi con la sua iconica corsa verso il 3-0, conclusa depositando la palla nella porta vuota dopo aver dribblato anche Marchegiani.

La sua prima stagione all’Inter rimane senza ombra di dubbio quella più significativa della sua carriera in nerazzurro, che a partire dalla stagione successiva entrò inesorabilmente in una maledetta e interminabile spirale discendente che si concluse solo con il suo addio, dopo una serie di disgraziati infortuni che lo fermarono proprio quando sembrava essere destinato a prendersi tutto, a cominciare dallo Scudetto. I 90 minuti di Parigi sono esemplificativi di come Ronaldo fosse un unicorno prima degli unicorni, un attaccante completissimo con una rapidità di esecuzione pionerisitica che lo fece risultare letteralmente ingiocabile anche in Italia, dove negli anni '90 c'era un'attenzione alla fase difensiva persino più ossessiva di quella che c'è oggi.

Nel 1998 Ronaldo era il futuro del calcio e forse lo sarebbe anche oggi. Lo ricordiamo come il miglior 9 di tutti i tempi, ma in quell’occasione, indossando il 10, giocò un’eccezionale partita da seconda punta, in appoggio a Zamorano, supportando la squadra in tutti i settori del campo. Si fece valere persino nei ripiegamenti difensivi, pur avendo un talento superiore di vari ordini di grandezza rispetto a qualunque altro calciatore nerazzurro.

Chiunque avesse visto una sua partita in quel periodo, sarebbe rimasto con un senso di straniamento misto a estasi pura, ma l’aspetto stupefacente di quella sua prestazione, che forse non fu nemmeno la migliore nella competizione se paragonata a quella in semifinale con lo Spartak, è il magnetismo che esercitava.

Ronaldo elude per due volte Gottardi e nella seconda occasione lo mette a sedere con un elastico, in uno dei 5 dribbling completati nella finale.

Ronaldo fu il fulcro dell’Inter in quella partita, risultando non a caso il giocatore con più tocchi (104) e quello più determinante nella creazione delle occasioni. Con soli 3 tiri, accumulò 0,91 xG ma se si esamina il suo coinvolgimento complessivo con l’xG chain (xGc), una metrica che misura gli xG di tutte le azioni in open play in cui un giocatore è coinvolto, il dato sale addirittura a 1,71 xGc (su 2,16 xG complessivi).

Se gli 0,91 xG ci restituiscono la sua capacità di essere al posto giusto al momento giusto, l’xGc è una misura indiretta dell’attrazione gravitazionale che Ronaldo esercitava sugli avversari. Il brasiliano era il “Fenomeno” ma anche il grande facilitatore dell’Inter di Simoni, capace di generare superiorità e di conseguenza di aprire spazi ai suoi compagni, creando occasioni da gol non solo attraverso il talento ma anche semplicemente con la sua presenza. Una caratteristica unica, che non può che indurre un immediato paragone con Lionel Messi, forse il giocatore del calcio contemporaneo che lo ricorda di più per come attrae a sé gli avversari come un corpo celeste.

Potremmo archiviare la finale di Parigi come l’ultimo trionfo di un calcio obsoleto e reazionario, quasi rilettura della zona mista, sulla difesa a zona pura e il moderno 4-4-2 di Eriksson. Ma sarebbe una valutazione superficiale che trascurerebbe come il sistema dell’Inter di Simoni, indipendentemente dalle sue radici ideologiche, fosse costruito per massimizzare il talento futurista di Ronaldo, senza però determinare squilibri tattici o malumori nello spogliatoio. Un concetto che trascende le ere calcistiche e che rimane attualissimo anche nell’epoca dei “super team” e degli “unicorni”. E che spiega come il tecnico di Crevalcore sia rimasto uno degli allenatori più amati della storia dell’Inter, anche per il suo indubbio legame con Ronaldo. Che quella sera, oltre alla Coppa UEFA, vinse anche la scommessa di tagliare i capelli al suo allenatore, rasandolo a zero con la macchinetta.

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