Il 19 giugno del 1990, quando si è giocata Italia-Cecoslovacchia allo Stadio Olimpico di Roma, io non avevo nemmeno nove mesi. La nostalgia verso Italia ’90 - perché a quanto pare è impossibile parlare di Italia ’90 senza provare anche solo un briciolo di nostalgia - per me è qualcosa di totalmente astratto e virtuale, una San Junipero in cui Gianna Nannini e Edoardo Bennato continuano a cantare Notti Magiche in playback. Le immagini di quella partita, che segnò il passaggio agli ottavi di finale della Nazionale di Vicini come prima del suo girone, mi sembra di averle già viste senza che questo sia mai successo davvero. Forse perché riprodotte ciclicamente nelle decine e decine di articoli, libri, documentari, servizi su quel Mondiale, o magari perché le ho interiorizzate direttamente a un livello inconscio nel mio primo anno di vita. Forse il Ciao è entrato a far parte del corredo genetico delle persone nate negli ultimi trent’anni in Italia.
È strano provare empatia, oggi, con qualcosa di lontano come Italia ’90, dove quasi tutto sembra irrimediabilmente perduto: la faccia da bambino di Maldini, lo strapotere atletico e psicologico di Baresi, le catenine lunghe al collo, ma anche il vecchio logo tondo della FIGC con cuciture dorate, l’azzurro lucido delle maglie con il colletto a polo e le sue estremità tricolore, le schiene dei giocatori senza nomi sulle spalle, i capelli lunghi di Giannini e Zenga, i para-gomiti in gommapiuma giganti sulle maniche lunghe delle divise dei portieri, i capelli neri di Baggio, i suoi scarpini Diadora lucidi.
La stessa Cecoslovacchia non esiste più. Così come l’Unione Sovietica e la Jugoslavia, che a loro volta fecero la loro ultima apparizione in un Mondiale a Italia ’90, come fantasmi di una casa vittoriana non ancora del tutto esorcizzati. Guardare quel Mondiale a 30 anni esatti di distanza fa pensare alla celebre frase di Woody Allen secondo cui la nostalgia è il rifiuto di un presente doloroso.
Oltretutto, sono sei anni che non vediamo l’Italia a un Mondiale, quattordici che non abbiamo nuovi ricordi positivi legati alla maglia azzurra nella massima competizione per Nazionali. Nel frattempo alcuni stadi di Italia ’90 sono stati abbattuti e di altri se ne programma la distruzione proprio in questi giorni. La maggior parte sono talmente decadenti da essere diventati i simboli degli errori fatti in quel periodo.
L’unica cosa che mi è davvero familiare nelle immagini di Italia-Cecoslovacchia è il tendone bianco di vetro e cemento che fu costruito proprio in vista di Italia ’90 per coprire i seggiolini dell’Olimpico, e che mi ha fatto da tetto in quasi tutte le partite che ho visto dal vivo.
L’Italia gioca con un 5-4-1 che a definirlo antiquato gli si fa quasi un complimento: il baricentro è bassissimo, i meccanismi di pressing quasi del tutto assenti e la linea di difesa a cinque è spesso in linea davanti all’area di rigore. La risalita del campo è diretta ed eseguita con pochi uomini, che devono associarsi in verticale a pochissimi tocchi con associazioni tecniche complicatissime. Forse è per questo che Vicini ha messo in mezzo al campo i suoi quattro giocatori più tecnici, apparentemente senza dare loro alcuna istruzione specifica sui movimenti da eseguire e le posizioni da occupare: Berti, Giannini, Baggio e Donadoni hanno libertà quasi totale e spesso si ritrovano tutti e quattro in un fazzoletto di campo a provare a trasformare il piombo in oro. In questo contesto, a Schillaci è lasciato il lavoro infernale di dover affrontare l’intera difesa cecoslovacca da solo, senza nessuno che attacchi la profondità.
La prima conseguenza visibile di un centrocampo così offensivo e un baricentro così basso è che l’Italia non ha la minima idea di come difendere lo spazio davanti la difesa. In realtà, semplicemente, non lo fa. Tutto il peso delle incombenze difensive è lasciato soprattutto a Bergomi e Baresi, i più liberi di staccarsi dalla linea e salire in maniera aggressiva sugli uomini tra le linee. A volte Baresi è talmente in alto sul campo in marcatura da essere praticamente in linea con Giannini e Berti, e viene il dubbio che la rilassatezza difensiva del centrocampo italiano sia stata pensata da Vicini proprio per permettere al difensore del Milan di giocare nel modo in cui voleva lui. Sembra esserci una connessione diretta tra i compiti titanici che devono assolvere i giocatori in assenza di un sistema che li aiutasse e l’esuberanza da fanatici religiosi con cui molti dei giocatori in campo concepiscono il proprio ruolo.
Intorno al quinto minuto del primo tempo, per dire, proprio Baresi si stacca dalla linea, sale ben oltre il centrocampo per ricevere direttamente da Schillaci (un momento in cui i due punti estremi del 5-4-1 sono a pochi metri uno dall’altro) e prova l’apertura a destra, ma il diagonale esce troppo corto. Invece di tornare in linea per ricomporre la linea, Baresi scala sull’avversario sulla fascia destra, lasciando del tutto la sua posizione. Sembra un cane da guardia corso furiosamente ad abbaiare a un visitatore indiscreto. E come l’abbaiare di un cane intimorisce e frena di per sé, anche la pressione di Baresi finisce per frenare la Cecoslovacchia, che spaventata torna indietro e perde palla per via del recupero di De Napoli.
La leggerezza con cui gioca l’Italia è un dono per Baresi, ma un ostacolo per altri giocatori, come Giannini, che forse sarebbe stato più efficace in un sistema maggiormente codificato in linea con il suo talento associativo: negli spazi interminabili dell’Italia di Vicini il ritmo compassato e narcisista del “Principe” fa fatica a non annegare, ed è costretto ad accendersi a tratti nei momenti brevissimi in cui riesce ad associarsi con i pochi giocatori che parlano la sua stessa lingua, soprattutto Baggio, Donadoni e Schillaci. In un sistema così lungo e diretto il talento di Giannini diventava palese soprattutto in quei lanci millimetrici che ispirarono Francesco Totti, ma sembrava moltiplicarsi e crescere a ogni tocco di palla nel dialogo con i suoi compagni.
Un esempio è questo triangolo minimale sulla trequarti con Baggio alla fine del primo tempo, chiuso con un semplice tocco di piatto che manda il “divin codino” in porta, trasformando una situazione tutto sommato banale in una grande occasione da gol (Baggio, strano a dirsi, sbaglia il controllo e si fa chiudere lo specchio dal portiere).
C’erano poi quei giocatori che nel deserto dei meccanismi tattici si esaltava, come i cactus che sembrano farsi beffe dell’aridità in cui crescono con i loro fiori coloratissimi. Rivedere oggi Schillaci, appiattito dalla nostalgia sulla figura dell’eroe per un giorno (o meglio, per un Mondiale), è un esercizio di sorprendente riscoperta di un giocatore incredibilmente completo e moderno, sia senza che con la palla.
Anche lui animato dal fuoco sacro che sembrava imprescindibile in quella Nazionale, in quella partita Schillaci viene ricordato soprattutto per il gol di rapina in apertura - un furbo colpo di testa dall’angolo dell’area piccola su un tiro al volo schiacciato a terra da Giannini. Ma a dir la verità la sua partita va molto oltre quel gol ed è encomiabile per la costanza e la pulizia dei movimenti incontro sulla trequarti, dei ricami spalle alla porta, dei movimenti in profondità, in una squadra che mancava di tutto questo. Senza Schillaci, il bizzarro fortino di Vicini composto di difensori iper-aggressivi e centrocampisti sublimi non sarebbe mai stato sostenibile.
Questa qui sopra è solo una delle molte giocate con cui Schillaci riusciva da una parte a cucire il gioco in maniera essenziale, connettendo difesa e attacco, e dall’altra dare profondità alla squadra immediatamente dopo, scappando alle spalle della difesa avversaria. Il tutto con un’intensità folle, quasi tedesca, verrebbe da dire oggi, che lo faceva rimbalzare all’impazzata sul campo.
Schillaci era anche un giocatore più tecnico di quanto viene detto di solito ricordandolo, sia nell’utilizzo del corpo che nelle giocate nello stretto. Il suo gioco spalle alla porta era illeggibile per la difesa cecoslovacca, che pur essendo estremamente fisica e in costante superiorità numerica non è quasi mai riuscita a marcarlo con efficacia.
In questa occasione, ad esempio, Schillaci difende il pallone con il corpo dalla marcatura stretta di Kadlec, poi si crea lo spazio fintando di andare in profondità e infine nasconde il pallone con la suola dal raddoppio di Chovanec, prima di servire Giannini completamente libero al centro della trequarti.
Chissà, magari di Schillaci avremmo avuto un ricordo diverso se oltre a quell’1-0 da rapace dell’area di rigore a metà del secondo tempo avesse messo dentro anche il 2-0: lanciato in porta da Berti, con la Cecoslovacchia completamente sbilanciata alla ricerca del pareggio, raggiunge l’apice tecnico della sua partita liberandosi di Kinier, che cercava di recuperarlo da dietro, con una sterza minimale che forse passa sotto le gambe del difensore, un dribbling apparentemente semplice ma che in realtà richiede grande tempismo e sensibilità, con cui rientra verso la porta.
Vista la freddezza di Schillaci sotto porta, sarebbe stato sicuramente gol se non fosse stato per la follia del portiere cecoslovacco, uscito con grandissimo anticipo e addirittura in scivolata, anziché di mani, riuscendo a sporcare il pallone di Schillaci prima che quest’ultimo potesse completare la sua seconda finta verso l’interno.
Come sappiamo, però, il nostro universo ha preso una strada diversa e invece di essere la partita che ha consacrato Schillaci, Italia-Cecoslovacchia è diventata la partita del gol di Baggio. La rete che chiude il conto e consegna il numero 15 alla leggenda è una specie di sineddoche di quella Nazionale, degli equilibri su cui si basava.
L’azione, se così si può chiamare, nasce da un tiro della Cecoslovacchia murato con la consueta violenza da Baresi, che si era staccato senza alcun sprezzo del pericolo dalla linea difensiva. La palla finisce facile preda a centrocampo di Kadlec, che però sbaglia lo stop e regala al possesso al solito Schillaci.
L’attaccante siciliano, con una prontezza di riflessi sorprendente, comincia il suo solito duello spalle alla porta: si lascia alle spalle Kadlec come se fosse entrato in una porta girevole e subito dopo tenta un tunnel ambiziosissimo con l’interno destro a Bielik, che però viene ribattuto.
La palla viene raccolta da Giannini, che la gira a sinistra a Baggio, che sembra stia aspettando quel momento da una vita. “Il Principe” si muove in profondità chiedendogli la chiusura del triangolo, e Baggio dopo un momento di esitazione ubbidisce: lo serve in diagonale con il piatto e Giannini, che amava farsi parete per i compagni, gliela restituisce immediatamente, di prima, con il più minimale e allo stesso tempo il più elegante dei tocchi.
Baggio entra nella trequarti cecoslovacca al trotto, conducendo la palla con l’esterno destro ma senza mai cambiare veramente ritmo. Eppure il suo passo deve essere ipnotico per i difensori avversari: Hasek entra diretto in scivolata, sicuro di prendere il pallone, ma all’ultimo momento Baggio, sempre con l’esterno, glielo sposta.
Adesso tra Baggio e la porta avversaria c’è il il solo, povero, Kadlec - sempre più vittima della storia. Arrivato al limite dell’area, Baggio fa passare la gamba sopra il pallone, spostando il corpo come se volesse andare sulla sinistra, ma alla fine si ferma, come se ci avesse ripensato. Kadlec è costretto a fare un completo giro su se stesso per provare a chiudere il tiro al suo avversario - ovviamente troppo tardi rispetto alla coordinazione di Baggio, che sta già spiazzando il portiere cecoslovacco in maniera incredibilmente simile a quanto già fece Rivera contro la Germania nel 1970.
Subito dopo il gol, Baggio sembra voler correre verso la tribuna Monte Mario ma poi sembra come colpito da un dolore indicibile. Si stende a terra con la faccia sofferente e forse per pudore se la copre con le mani. Anni dopo disse che quel gol fu come una liberazione: «Altro che orgasmo, è una scarica d’adrenalina incredibile. Vibri a mille, proietti fuori tutto in una gioia incontrollabile, voli. Dopo sei libero, finalmente in pace». Sono passati pochi giorni dal suo passaggio alla Juventus, con tanto di proteste e scontri a Firenze, e questo gol sembra proiettarlo verso un’altra dimensione.
Bruno Pizzul, che commenta quella partita, come tutte le altre partite dell’Italia della mia infanzia, sembra sopraffatto dalla bellezza e perde le parole: «Grandissima impresa di Baggio, veramente bravo. Ha fatto una cosa che… veramente…».
L’Italia è ufficialmente agli ottavi di finale da prima nel girone. La Nazionale di Azeglio Vicini sembra destinata a grandi cose. Baggio sembra destinato a grandi cose. Le bandiere tricolore continuano a sventolare sotto il tendone di vetro e cemento dell’Olimpico. Se fate attenzione, ancora oggi possiamo sentire lo spostamento d'aria che hanno generato.