«Ora ti metto in guardia, cara vecchia smandrippata Italia. Sentirai irridere ai tedeschi, alla loro condizione amara, ai loro errori tecnico-tattici. Reagisci con forza: richiama gli invidiosi e gli imbecilli alle più normali consuetudini della storia e soprattutto della storiografia. Annibale e Napoleone vengono celebrati come geni della guerra. Ci si è mai domandato perché? Che diamine: perché gli storici scrivono per i vincitori di quei geni inarrivabili»
Gianni Brera
Se non fosse per almeno tre immagini che hanno scritto la storia del nostro calcio e che sono strettamente legate a Italia-Germania Ovest, il ricordo che si avrebbe della finale che ci ha consegnato il Mondiale del 1982 sarebbe, se possibile, ancora più sfumato. Non è un caso che alcune delle operazioni volte a ricordare uno dei successi più significativi della Nazionale siano concentrate su un’altra gara, quell’Italia-Brasile che porta con sé un altro livello di pathos, di magia, di racconto. “La Partita”, libro magistrale di Piero Trellini, si snoda proprio attorno a quel pomeriggio del Sarrià includendoci tutto il racconto possibile dell’Italia intesa come Paese: è come se la finale del Mondiale spagnolo non ci appartenesse fino in fondo. Non ci troviamo quel senso della sofferenza che è tipico del nostro calcio, perché l’Italia di Enzo Bearzot, arrivata a dover superare l’ultimo ostacolo, aveva preso uno slancio tale da non temere più nulla.
Aveva superato critiche ignominiose, che andavano oltre il confine della semplice discussione sportiva, ma la stampa sportiva degli anni Settanta, Ottanta e Novanta, che pure aveva dei picchi di scrittura imparagonabili a quelli attuali, sapeva essere ben più crudele di quella che conosciamo in questi anni. E intendo crudele nel senso pieno della parola: «che infligge tormenti fisici o spirituali compiacendosi poi della propria impassibilità». Quella squadra era andata anche oltre un girone giocato in maniera oggettivamente orrenda, per poi ritrovarsi, in pieno stile italiano, nel momento decisivo, il gironcino della morte con Argentina e Brasile con l’apice del Sarrià: la tripletta di Paolo Rossi, uno dei più colpiti dalle critiche dei giorni feroci, la leggendaria parata di Zoff, il turno superato contro ogni pronostico al cospetto della squadra teoricamente più forte del mondo. Il nostro Mondiale, a distanza di quarant’anni, sembra tutto concentrato in quelle due partite.
Nel corso della sua storia, l’Italia è arrivata a giocarsi una semifinale di un Mondiale in otto circostanze. Se saltiamo a piè pari quelle del 1934 e del 1938, troppo lontane da noi per far sì che ne esista un ricordo condiviso, il paradosso è che la più dimenticabile sia quella del 1982, che poi ci ha effettivamente portato alla vittoria finale: Italia-Germania Ovest del 1970 si porta dietro l’appellativo di «partita del secolo»; pur non essendo stata tecnicamente una semifinale, Italia-Olanda del 1978 valeva l’accesso alla finale ed è stata la partita che avrebbe potuto sancire la fine della carriera azzurra di Dino Zoff, se non fosse stato per la testardaggine di Bearzot e per la strabiliante longevità di «Dinomito»; Italia-Argentina è una ferita che ancora sanguina dal 1990; Italia-Bulgaria, quattro anni più tardi, è forse il ricordo più puro che abbiamo del «baggismo», con la leggerezza del Divin Codino che spazzò via la squadra rivelazione del torneo; infine, a chiudere il cerchio con il 1970, un altro Italia-Germania agonico, con i gol di Grosso e Del Piero che a livello di intensità se la giocano con la finale vinta contro la Francia. Italia-Polonia, invece, resta lì sullo sfondo, tassello quasi marginale verso il trionfo, contro una squadra forte ma non fortissima e priva del suo giocatore di riferimento (Boniek).
E veniamo così alla finale, a una partita della quale abbiamo in mente soprattutto tre francobolli: l’urlo di Marco Tardelli, la gioia di Sandro Pertini e il suo «Non ci prendono più!», la mitica partita a scopone scientifico sull’aereo di ritorno ancora con Pertini protagonista, insieme ai due veterani Zoff e Causio e, ovviamente, Enzo Bearzot, con la Coppa del Mondo in bella vista. In molti attribuiscono anche alla stanchezza della Germania Ovest (per comodità semplicemente Germania da qui in avanti) la semplicità del successo azzurro, con i tedeschi che arrivavano dalla durissima semifinale con la Francia. In realtà, il dominio tattico della formazione di Bearzot è totale. È quello di una squadra matura, che ha riscoperto in parte i principi di gioco che ne avevano segnato la fantastica cavalcata del 1978, quando l’Italia aveva giocato come mai prima (e forse, come mai avrebbe più fatto in futuro), pur dovendosi accontentare del quarto posto.
Uno degli aspetti più sottovalutati di quella finale è che l’Italia ci arriva dovendo fare i conti con l’assenza di una delle sue stelle più splendenti. Giancarlo Antognoni aveva temuto non solo di saltare il Mondiale, ma addirittura di morire, il 22 novembre del 1981. Era partito alle spalle della difesa del Genoa su un lancio dalle retrovie e aveva spostato il pallone con la testa, prima di vedersi venire addosso il portiere dei rossoblù, Silvano Martina, con il ginocchio altissimo, a colpirlo in pieno volto. Per cinque interminabili minuti Antognoni era rimasto a terra, privo di sensi, cianotico. Claudio Onofri, difensore del Genoa, era stato il primo a capire l’entità del problema: stava uscendo dall’area quando si era fermato a vedere il 10 viola sdraiato a terra, per poi scappare via con le mani nei capelli. A tenere in vita il campione della Fiorentina ci avevano pensato i soccorsi immediati in campo e un’operazione neurochirurgica eseguita dal professor Mennonna, per ridurre le due fratture e togliere il liquido che andava a premere sul cervello.
Minuscola nota di colore: l’arbitro Paolo Casarin riuscì a non assegnare il calcio di rigore.
Per giorni, i tifosi viola si erano radunati davanti alla clinica di Careggi, facendo sparire in pochi minuti tutte le copie de «La Nazione» per avere gli aggiornamenti sulle condizioni del loro idolo. Lo aveva lanciato in Serie A, a diciotto anni, Nils Liedholm, così abituato a riconoscere il talento da preconizzarne il futuro: «Di giocatori così, ne nasce uno ogni 15 anni». Gli era bastato poco tempo per guadagnarsi un appellativo romantico: «il ragazzo che gioca guardando le stelle». L’eleganza del gioco di Antognoni era naturale, priva di sforzi. Si muoveva in giro per il campo da padrone nobile, disincantato. Al ritorno in campo dopo il terribile scontro, il 21 marzo 1982, primo giorno di primavera, era stato accolto da un lenzuolo enorme della Fiesole: «Forza Antonio, l’inferno è finito, il Paradiso ci attende», con i viola in piena corsa per uno scudetto che sarebbe poi andato alla Juventus non senza polemiche.
Contro la Polonia, in semifinale, preso anche dalla smania di fare gol dopo che gliene era stato annullato uno contro il Brasile, aveva provato a forzare una conclusione e un’entrata col piede a martello di Matysik gli aveva provocato una bruttissima ferita al piede destro, ricucita con sette punti di sutura. L’avvicinamento al match con la Germania era stato accompagnato dal dubbio legato alle sue condizioni e a quelle di Francesco Graziani, per tutti Ciccio, colpito al basso ventre durante la sfida con la Polonia e costretto a convivere con un dolore all’emitorace. Lo staff azzurro, nell’immediata vigilia, le aveva provate tutte per recuperare Antognoni, testando anche l’inserimento di un pezzo di gommapiuma sistemato tra il piede e la scarpa.
Ma ora siamo a Madrid e durante l’inno nazionale c’è la voce di Nando Martellini che ci spiega che Antognoni non è riuscito a recuperare. Le scelte di Bearzot sanno un po’ di difensivismo: l’aggiunta è infatti rappresentata dal giovanissimo Beppe Bergomi. Il CT assegna al rientrante Gentile la marcatura più complessa, quella di Littbarski, ma dopo aver dovuto prendere in consegna Maradona e Zico, per «Gheddafi», soprannome mai sopportato da Gentile che da Tripoli era dovuto fuggire insieme alla sua famiglia quando aveva solamente otto anni, è quasi una passeggiata, anche se Littbarski è comunque un cliente scomodo da affrontare, per la sua tendenza ad allargarsi in fascia e a cercare il più possibile l’uno contro uno frontale. Opzione che Gentile riuscirà a negargli praticamente per tutta la partita. La difesa italiana non risente della mobilità di Littbarski e degli spostamenti a cui è costretto Gentile: Bearzot ha inserito un marcatore in più, Bergomi, proprio per andare ad affrontare uomo contro uomo i tre giocatori d’attacco della Germania. A Collovati tocca Fischer mentre al diciottenne Bergomi capita in sorte Karl-Heinz Rummenigge, uno dei giocatori più forti del mondo, arrivato però alla finale con qualche acciacco di troppo. Bergomi era convinto di non giocare, immaginava una sostituzione ruolo per ruolo visto il forfait di Antognoni. Ma Tardelli lo aveva messo in guardia già il giorno prima della partita: «Guarda che domani ti tocca marcare il biondo». E Beppe, entrato in campo a gara in corso contro il Brasile per un problema fisico di Collovati e partito titolare con la Polonia per la squalifica di Gentile, aveva iniziato a maturare l’idea di poter scendere in campo anche con la difesa teoricamente al completo.
L’introduzione di un marcatore in più porta l’Italia a schierarsi con una sorta di 3-5-2, in cui la libertà concessa a Conti sulla destra è ovviamente diversa rispetto a quella garantita a Cabrini.
Il punto di riferimento per la prima manovra dell’Italia è ovviamente Gaetano Scirea, il libero che si andava ad aggiungere ai tre marcatori azzurri. Nei primissimi minuti del match, Scirea va quasi sempre a cercare gli attaccanti con una palla lunga scavalcando il centrocampo a due composto da Tardelli e Oriali. La calamita per i palloni di Scirea è Graziani, attaccante noto per la sua generosità: viene incontro per provare a fare da sponda e senza il possesso dà anche una mano alla mediana. Ma dopo una manciata di minuti cade male sulla spalla per un contrasto a centrocampo e capisce di non poter proseguire. Dentro Altobelli a far coppia con Rossi, ed è una novità sostanziale per la manovra azzurra. Graziani è una punta di grande movimento, un giocatore abilissimo nel diventare creta modellabile attorno alle esigenze del compagno di reparto. Altobelli è un centravanti fatto e finito, alto e magro come da soprannome (Spillo), mortifero in area di rigore, specialmente quando c’è da girarsi per andare alla conclusione. Un maestro dello smarcamento che teoricamente poco si incastra in coppia con un giocatore come Rossi, per eccellenza il ladro di attimi della storia del nostro calcio. Alla vigilia del Mondiale, Altobelli aveva rappresentato, per Bearzot, una sorta di assicurazione: un potenziale piano B silenzioso in caso di flop di Rossi.
La convocazione del capocannoniere del campionato, Roberto Pruzzo, al posto di una quarta punta decisamente poco ingombrante come Selvaggi, invece, avrebbe significato mettersi una bomba in casa: Pablito era stato travolto dalle critiche per le sue prime partite, un sostituto di quel livello avrebbe, se possibile, scatenato ancora di più la stampa. Pur di proteggere il suo pupillo, contro il Perù, Bearzot aveva deciso di sostituirlo non con Altobelli, bensì con Causio.
La mossa di lieve terrorismo psicologico attuata da Altobelli nei confronti di Bearzot.
Se l’obiettivo dell’Italia nella prima fase del match è di riguadagnare campo nel minor tempo possibile lo stesso non si può dire della Germania, che cerca invece una risalita decisamente più palleggiata. Rispetto a Bearzot, Derwall, che quando appare sullo schermo sembra la controfigura di Mario Carotenuto, sceglie un assetto con un marcatore in meno nella zona centrale: i due Förster prendono in consegna le punte azzurre e Stielike, il libero, è chiamato a coprire ove necessario. Un incarico che invece Bearzot non assegna a Scirea, la cui posizione in campo è decisamente fluida. Specialmente quando l’Italia deve dare il via all’azione, lo troviamo sia in linea con i centrali difensivi, sia in appoggio ai centrocampisti e addirittura agli esterni, in particolare a Cabrini, quando gli azzurri provano a far partire il gioco da sinistra.
Scirea inizia l’azione e poi si va a sovrapporre a Cabrini.
Non a caso è lui a dare il via, sulla sinistra, all’azione che porta alla prima potenziale svolta del match. Serve un gioco di prestigio di Tardelli per muovere la difesa tedesca, con Stielike che esce su di lui molto aggressivo ma viene scavalcato ed è costretto a un recupero affannoso. Il pallone arriva a Cabrini che lo consegna ad Altobelli: uno dei segreti della grande prestazione azzurra sta nella capacità sia di "Spillo", sia di Paolo Rossi, di alternarsi nei panni di Graziani, essendo entrambi allo stesso tempo prima e seconda punta, rinunciando ognuno a un pezzetto di sé per un bene superiore. Qui Altobelli lavora molto bene il pallone, la difesa tedesca è in superiorità numerica ma il taglio di Conti alle spalle di Briegel è portato con tempi perfetti, e il futuro giocatore dell’Hellas usa troppo le braccia provocando il rigore che poi Cabrini sbaglierà. Ma questi movimenti alle spalle dell’ultimo difensore della diagonale rappresentavano uno dei punti di forza della Nazionale di Bearzot: in quella stessa porzione d’area di rigore Rossi aveva punito il Brasile su cross di Cabrini e qualche minuto dopo il penalty sbagliato contro la Germania sarà proprio Cabrini ad avere una chance simile su invito stavolta di Rossi da destra, arrivando il ritardo all’appuntamento con il pallone.
Rossi fa per venire incontro mentre Conti parte con i tempi perfetti alle spalle di Briegel.
Sbagliare un calcio di rigore in una finale di un Mondiale con il punteggio in parità dovrebbe essere un colpo difficile da assorbire. Eppure l’Italia, nei minuti subito successivi, sembra trarre forza dall’episodio sfortunato e inizia ad aumentare anche la qualità del proprio gioco, come dimostra questa azione in cui soltanto il fuorigioco nega ad Altobelli la possibilità di presentarsi nella posizione ideale per servire un solissimo Rossi: l’interista era stato bravissimo nell’offrirsi come sponda a Oriali a inizio azione.
Per larghi tratti del primo tempo, comunque, l’Italia concede alla Germania un possesso palla sterile: i tedeschi arrivano fino alla trequarti e poi trovano il muro azzurro, che indurrà Gianni Brera, nel suo pezzo post partita su “La Repubblica”, a parlare delle scelte del CT Bearzot come di un ricorso al “Santo Catenaccio”. La Germania è effettivamente disorientata, più confusa che stanca, e l’unico tentativo di disordinare la difesa azzurra muovendo Littbarski e Fischer in giro per il fronte d’attacco, con Rummenigge che si rivela il più stanziale dei tre e magistralmente cancellato da Bergomi, non apre crepe nel solidissimo pacchetto arretrato degli azzurri. Ma se la tattica italiana sembra perfetta per negare spazi ai tedeschi, nel primo tempo c’è la sensazione che Rossi e Altobelli siano troppo scollati dal resto della squadra, e i pericoli nascono solamente quando Tardelli e Oriali, rigorosamente a turno, riescono ad accompagnare l’azione almeno fino ai 25 metri dalla porta difesa da Schumacher.
Durante l’intervallo il più frastornato è ovviamente Cabrini, ancora alle prese con i fantasmi del rigore sbagliato. Un rigore che in condizioni normali non avrebbe tirato, visto che il rigorista designato era Giancarlo Antognoni. I compagni di squadra lo lasciano sbollire, non tirano fuori l’argomento durante i lunghi minuti che mancano prima del rientro in campo. Nella ripresa tutto sembra scorrere come nel primo tempo, fino a un’intuizione luciferina di Marco Tardelli, che qualche minuto prima aveva calciato in maniera dimenticabile verso la porta una punizione da distanza analoga. Con ancora il compagno a terra, stavolta Tardelli apre a destra dove Gentile ha il tempo per raccogliere il pallone, alzare la testa e andare al cross.
Il Mondiale di Paolo Rossi, da Italia-Brasile in poi, ha preso una piega che sembra aver poco a che fare con il calcio: è semplicemente sempre nel posto giusto al momento giusto, come se un’entità divina avesse voluto in un colpo solo ripagarlo delle amarezze dei due anni precedenti. Proprio come aveva fatto contro la Polonia, è il più veloce a leggere il cross che arriva da destra: in semifinale da un piazzato di Antognoni, stavolta dal piede di Gentile, meno ruvido di quanto gli venga attribuito. Subito dopo il gol scatta in piedi come una molla e alza al cielo quelle braccia ossute che provengono da un altro secolo calcistico e le tiene verso l’alto anche quando viene travolto dagli abbracci.
Rossi arriverà a dire «Se qualcuno un giorno dovesse rappresentarmi, è bene che mi rappresenti con quel gol, perché quelli erano i miei gol».
Per molti anni, un verso di Antonello Venditti è stato equivocato. Giulio Cesare (1986) conteneva riferimenti diretti ai Mondiali del 1966 e del 1986 e a un certo punto si arrivava al fatidico: «Paolo Rossi era un ragazzo come noi». Il riferimento di Venditti era in realtà a un altro Paolo Rossi, un giovane ucciso il 27 aprile del 1966 all’interno dell’Università La Sapienza di Roma in seguito a un pestaggio subito da alcuni studenti di destra mentre distribuiva volantini all’interno della città universitaria. Eppure, a voler rimanere nell’errore, non si può non considerare che uno dei punti di forza di quella squadra e di Paolo Rossi era proprio il fatto di sembrare, e probabilmente di essere, delle persone comuni.
La gioia di Rossi in quel momento è la gioia di tutti gli italiani che si alzano in piedi dal divano o dalla poltrona, ingobbiti davanti a televisori troppo piccoli per cogliere fino in fondo quello che stava succedendo ma di grandezza sufficiente per capire che l’Italia, un’Italia fino a quel momento difensivamente inscalfibile, è passata in vantaggio grazie a quell’uomo comune che fino a una settimana prima si era beccato contro articoli di inusitata violenza. Una parabola, quella di Rossi e per estensione di Bearzot, che ci racconta meglio di tante altre del modo tossico con cui il calcio spesso veniva e viene raccontato, senza la benché minima parvenza di equilibrio, andando soltanto dove tira il vento in un determinato momento.
E chissà cosa si sarebbe detto e scritto di Zoff se l’Italia avesse subito gol a una manciata di secondi dal vantaggio dopo questa uscita incerta di un monumento del calcio italiano, destinato a diventare, con le mani intorno alla Coppa, il francobollo ufficiale della vittoria, disegnato addirittura da Renato Guttuso.
Nel momento in cui la partita diventa disordinata, con la Germania che sotto di un gol toglie un centrocampista, Dremmler, per un centravanti come Hrubesch, sale in cattedra il meno italiano degli italiani, Bruno Conti, non a caso identificato come MaraZico, un soprannome che è un’unione dei due spauracchi che avevano terrorizzato l’Italia. Diventa uomo ovunque, spezza il ritmo, fa passare il tempo, passeggia in giro per il campo con il pallone perennemente incollato al piede mancino. Conti pensa un calcio diverso dagli altri azzurri in campo perché è dotato di una cifra tecnica superiore, sa essere letale nell’uno contro uno ma anche prendersi quelle pause che in questo momento del match sono fondamentali.
L’azione che ci porta al raddoppio è nota soprattutto per l’impressionante freddezza mostrata da Scirea e Bergomi nella gestione del pallone nell’area tedesca, ma nasce da un grandissimo sforzo difensivo di Paolo Rossi, che è poi anche l’uomo che raccoglie da Bruno Conti per servire Scirea.
L’urlo di Tardelli è la prima delle tre immagini che ho evocato e forse anche la più forte, un poster generazionale non a caso replicato 24 anni dopo, in via del tutto inconsapevole, da Fabio Grosso dopo il gol in semifinale, realizzato proprio contro la Germania.
Ormai la partita a livello tattico non ha quasi più senso, perché la Germania è totalmente protesa verso la porta azzurra senza avere uno straccio di idea. Bruno Conti gioca con i tedeschi come un puparo sadico e quando gli concedono i metri sufficienti per scappare via e servire Altobelli, Pertini è già in piedi a dire a tutta la tribuna autorità che no, non ci prendono più.
Italia-Germania non si porta dietro quel turbine di emozioni e di saliscendi emotivi di Italia-Brasile, il che è assurdo, essendo stata la partita che ci ha consegnato materialmente il terzo Mondiale della nostra storia. È stata invece la gara della maturità, della sicurezza, per certi versi anche della tranquillità di un gruppo che sentiva di avere alle spalle il peggio, di aver allontanato ogni timore. Di poter superare anche l’incubo di un rigore sbagliato sullo 0-0. Ed è forse per questo che è meno sentita di Italia-Brasile: è come se una vittoria senza sofferenza non possa essere davvero ritenuta una vittoria. Una vittoria nostra.