L’enciclopedia Treccani definisce il mito, dal greco mỳthos ("parola, racconto"), «una narrazione di particolari gesta compiute da dei, semidei, eroi e mostri che può offrire una spiegazione di fenomeni naturali, legittimare pratiche rituali o istituzioni sociali e, più genericamente, rispondere alle grandi domande che gli uomini si pongono».
Il Liverpool è una delle pochissime squadre al mondo che può associare la parola mito al proprio stadio. Si ripete spesso dell’atmosfera magica che pervade Anfield nelle notti europee, lo ripetono tutti. La ricerca “Anfield effect” su Google genera più di 600mila risultati, esiste un account Twitter “Anfield effect” e sull’argomento si sono pronunciato una quantità non ricostruibile di giocatori e addetti ai lavori, che concordano tutti nel parlare di “atmosfera speciale”. Come ogni mito, anche quello di Anfield ha un’origine precisa.
La più bella stagione della storia del Liverpool
Le gesta particolari di cui parla la Treccani corrispondono alla straordinaria prestazione sfoderata dai Reds la sera di mercoledì 16 marzo 1977 nel ritorno dei quarti di finale di Coppa dei Campioni contro il Saint-Étienne; l’eroe, invece, risponde al nome di David Fairclough – passato agli annali come il supersub per eccellenza del calcio inglese.
Qui tutta la partita.
Quella del 1976/’77 viene considerata la stagione in assoluto più bella nella storia del Liverpool, autentico punto di svolta nella narrazione di un club che per i successivi tredici anni avrebbe conosciuto un’epopea di successi senza precedenti in Inghilterra e in Europa.
Per i Reds era una fase di transizione, dal momento che nel 1974 si era verificato il passaggio di testimone in panchina tra Bill Shankly e il suo storico vice Bob Paisley – peraltro ex giocatore del club, con 277 presenze tra il 1939 e il 1954. Il nuovo manager ereditò una squadra che aveva vinto tre titoli, altrettanti Charity Shield, due Fa Cup e una Coppa Uefa nell’arco di una permanenza durata quindici anni.
Paisley, tuttavia, si ritrovò tra le mani anche un club con una nuova identità di gioco, plasmata dal suo illustre predecessore dopo la doppia sconfitta subita negli ottavi di finale di Coppa Campioni per mano della Stella Rossa nel novembre 1973. Shankly, poi dimessosi alla fine di quella stagione, capì che bisognava cambiare stile di gioco se si voleva vincere anche nel continente: «Le squadre europee – disse al suo staff nella sala riunioni di Anfield – ci hanno fatto vedere che costruire delle azioni partendo dalla difesa è l’unico modo per giocare». Da allora cominciò a Liverpool una rivoluzione che abbandonò il classico kick and run inglese per abbracciare il più moderno passing game, fatto di eleganti fraseggi, scambio di posizioni in campo tra calciatori e movimenti senza palla.
La continuità data da Paisley al progetto avviato da Shankly permise al Liverpool di continuare il ciclo di vittorie in ambito nazionale. Quella nell’edizione 1975/’76 della First Division diede ai Reds il pass per la quarta partecipazione alla Coppa dei Campioni, competizione fino ad allora indigesta a causa delle sconfitte subite negli anni Sessanta – oltre a quella già menzionata in precedenza – contro Inter e Ajax. Stavolta, però, le cose andarono in maniera diversa. La stagione cominciò con il successo nel Charity Shield ai danni del Southampton – vincitore della Fa Cup nell’anno precedente – e proseguì bene anche in campionato, dove a novembre i Reds si assestarono in testa alla classifica con 23 punti in 15 gare – a cinque lunghezze di vantaggio dal gruppo delle inseguitrici.
Una serie di tre sconfitte in quattro partite a dicembre sembrò allontanare i sogni di titolo, ma a gennaio la squadra tornò in vetta e la mantenne anche nel mese successivo. Poi arrivò marzo, e con lui un cambio di mentalità: «Ogni partita era come una finale» disse il leggendario portiere Ray Clemence. Erano le prove generali per quella che sarebbe stata un’annata trionfale. Oltre al campionato, anche la Coppa dei Campioni era entrata nel vivo: superati agevolmente i sedicesimi e gli ottavi di finale rispettivamente contro Crusaders e Trabzonspor, l’avversario nei quarti era il Saint-Étienne. Campione di Francia in carica e finalista nella precedente stagione, era indicato come la formazione più forte della competizione per via di una solida difesa e uno sfavillante attacco e della presenza in rosa di Dominique Bathenay e Dominique Rocheteau – all’epoca ritenuti tra i più promettenti talenti del calcio francese – affiancati da giocatori già affermati quali Gerard Janvion, Christian Lopez e Jacques Santini. Così come il Liverpool, anche il Saint-Étienne era convinto di essere in un’annata speciale, da incorniciare.
Fattore Anfield
All’andata in terra transalpina – privi dell’infortunato Kevin Keegan – gli inglesi persero 1-0, trafitti dal gol in mischia di Bathenay nel secondo tempo. Al ritorno, però, si sarebbero dovuti fare i conti con il fattore Anfield. L’attesa per il match divenne un mix di ansia e speranza, unito alla consapevolezza che dall’esito di quella sfida sarebbe dipeso il prosieguo della stagione.
Il 16 marzo 1977 la gente uscì prima dal lavoro e da scuola, cominciando ad affollare lo stadio già a partire dal pomeriggio. Il calcio d’inizio era previsto alle 19.30, ma già due ore prima la Kop era così piena da costringere la polizia a chiudere anzitempo i cancelli. Mentre centinaia di tifosi rimasero fuori – sebbene alcuni riuscirono a forzare gli ingressi ed entrare ugualmente – all’interno Anfield era un pandemonio di aspettative, entusiasmo ed eccitazione, sullo sfondo del frastuono generato dai cori dei 55.043 spettatori che si facevano sempre più intensi e assordanti.
Forse innescata da una delle più alte attendance mai registrate – ampiamente superiore alla media di quella stagione – un’atmosfera del genere difficilmente era stata sperimentata in precedenza. Cresceva con il passare del tempo, in un climax di tensione e fiducia direttamente proporzionale a quanto accadeva in campo. Quando il Liverpool attaccava, lo stadio sembrava letteralmente spingere la palla e i giocatori verso la porta avversaria; quando doveva difendersi, invece, restava quasi ammutolito e in silenzio. La tensione era talmente elevata da inibire perfino i fischi di paura. La Kop, nel frattempo, era un continuo ondeggiare di teste e corpi che si abbracciavano, sorvegliati a vista da uno sparuto numero di poliziotti che passeggiava su e giù lungo la linea di bordocampo. In questa marea umana perennemente in piedi, i bambini erano stati sistemati nelle prime file, praticamente seduti dietro a bassi parapetti o addirittura a bordo campo – tant’è che in occasione dei corner dovevano farsi da parte per consentire ai calciatori di prendere la rincorsa.
Dopo nemmeno due minuti il Liverpool passa in vantaggio: Heighway batte un calcio d’angolo corto sui piedi di Keegan che – partendo dalla bandierina alla sinistra della porta – porta palla per qualche metro e sorprende il poco reattivo Curkovic con un destro a girare a metà tra un tiro e un cross. Il primo boato scuote Anfield. Non avrebbe potuto esserci partenza migliore. Ma non era sufficiente: serviva segnare un altro gol per passare, senza peraltro subirne.
Il Saint-Étienne non accusò il colpo, anzi, disputò complessivamente un primo tempo migliore degli avversari, come se questi volessero gestire il vantaggio per affondare il colpo nella ripresa. Le più grosse occasioni furono tutte di marca francese. Al quarto d’ora l’arbitro annulla per fuorigioco il pareggio di Rocheteau, mentre cinque minuti più tardi Clemence si rende protagonista di un doppio intervento, prima sul colpo di testa di Synaeghei e poi, sul corner successivo, sulla botta di Rochereau.
I primi 45’ non offrirono ulteriori sussulti, ad eccezione di un fallo criminale di Santini (nemmeno espulso) su Keegan e un altro gol annullato, stavolta ai Reds, per fallo in attacco di Case su Janvion.
Gli sforzi del Saint-Étienne vennero ripagati ad inizio ripresa, quando Bathenay partì da metà campo, resistendo a una carica di Case e mandando la palla dritta all’incrocio dei pali dai 30 metri. Stavolta a festeggiare erano i 5mila tifosi francesi assiepati nel settore ospiti, sulle note del coro “Allez le Verts” che pareva essersi impossessato di Anfield.
Il Liverpool sembrò stordito, come se avesse smarrito la trance agonistica del primo tempo. Con circa quaranta minuti da giocare, esclusa la possibilità di prolungare la sfida ai supplementari e con l’inerzia tutta dalla parte del Saint-Étienne, bisognava segnare altri due gol. Il primo giunse una decina di minuti dopo, grazie alla rasoiata di Kennedy che non lasciò scampo a Curkovic. Ma non era abbastanza, e le lancette dell’orologio continuavano a scorrere.
Arrivate al 73’, Paisley ebbe l’intuizione: gettare nella mischia il ventenne Fairclough, refrain di una mossa che il manager utilizzò per un totale di 62 volte nella sua lunga permanenza ad Anfield. I risultati, spesso e volentieri, gli diedero ragione. Fairclough si era già guadagnato il soprannome di supersub proprio per questa capacità di incidere e risultare decisivo a gara in corso, pur venendo impiegato per un numero limitato di minuti. Dei 55 goal segnati in 154 presenze, 18 arrivarono partendo dalla panchina. Di tutti questi, il più importante sarebbe stato siglato da lì a poco. Minuto 84: da metà campo partì un lancio di Kennedy sul quale si avventò Fairclough, inserendosi in mezzo ai due difensori centrali del Saint-Étienne; la palla effettuò un rimbalzo, lui se la portò avanti con la testa, poi altri due rimbalzi e infine un destro chirurgico dritto in buca d’angolo. La Kop venne letteralmente giù, come una valanga umana. Nel frastuono generale, e con un paio di compagni di squadra che gli saltarono letteralmente addosso fino a sommergerlo, Keegan disse Fairclough: «Supersub, l’hai fatto di nuovo!».
Que sera, sera, whatever will be, will be, we're goin' to Italy
Nei minuti finali Anfield capì di avercela finalmente fatta: i tifosi non smisero di cantare e, mentre il Liverpool si difendeva con ordine dai disperati e confusi attacchi del Saint-Étienne, dalle gradinate partì il coro “Que sera, sera, whatever will be, will be, we're goin' to Italy”. La partita non era ancora finita, in caso di qualificazione si sarebbero dovuti giocare almeno 180’ di semifinale, ma il pathos generato da quella straordinaria impresa ancora in divenire era impossibile da contenere. Ci pensò il triplice fischio dell’arbitro – accompagnato da un nuovo, l’ennesimo boato – a certificare la qualificazione al turno successivo. I fortunati presenti quella sera avevano appena assistito alla partita più emozionante, memorabile e coinvolgente nella storia ultracentenaria di questo stadio e di questo club. Era nato il mito di Anfield trascinatore durante le notti di coppa.
Quel successo ebbe un impatto devastante sul morale della squadra: il Liverpool sconfisse facilmente lo Zurigo e arrivò alla finale di Roma, vinta il 25 maggio contro il Borussia M'Gladbach. Veniva messa in bacheca la prima di quattro Coppe dei Campioni conquistate nel giro di sette anni – cui aggiungere la quinta, e ultima, nell’assurda notte di Istanbul del 2005. Undici giorni prima, nell’ultima giornata di First Division, c’era stata anche la vittoria del decimo titolo, mentre i sogni di treble erano stati vanificati solo dalla sconfitta nella finale di Fa Cup patita contro il Manchester United.
Il 3-1 contro il Saint-Étienne definì una legacy che il Liverpool riesce a portarsi dietro anche oggi. L’atmosfera di Anfield, le sue mareggiate di entusiasmo, sembrano fondersi alla perfezione con lo stile di gioco iper-verticale della squadra di Klopp, capace come poche altre di determinare l’esito di una partita in pochi minuti di massima intensità. Al punto che è difficile capire quanto l’uno sia legato all’altro.