«A me di non prendere gol per 1254’ non me ne frega niente. Sono robe da contabili.
A me basta che si vinca 4-3: quello che posso lo paro, e sennò amen»
Claudio Garella
Eduardo Galeano scriveva che il goleador crea l’allegria e il portiere, da guastafeste, la disfa. Non voleva essere un’accusa, ma un omaggio al ruolo più bersagliato dalla critica, aggiungendo che i portieri sono perseguitati da una maledizione: basta una sola papera per cancellare tutte le prodezze. Eppure, nonostante qualche errore disseminato nel corso di una carriera in cui ha saputo affrontare con il suo faccione pacioso sia la vittoria che la sconfitta, se si pensa a Claudio Garella affiora quasi inevitabile proprio una sensazione di allegria.
La sua è stata la storia di un uomo felice di parare e forse anche per questo è rimasto nei ricordi collettivi per la sua abilità nel farlo con ogni parte del corpo, i piedi che diventano appendici preziose per un estremo difensore tanto quanto le mani. A Garella non interessava lo stile, poneva l’efficacia al di sopra del bene e del male, il fine che giustifica i mezzi. È stato guardiano di pali più e meno prestigiosi e si è distanziato dalla descrizione che una volta Jorge Valdano fece dei portieri delle grandi squadre: «Il portiere dei campioni è l’uomo solo che aspetta. Ha lunghi minuti di contemplazione, ma non può concedersi il lusso della distrazione. […] Decine di minuti a ruminare l’ultimo errore senza potersi vendicare fino a quando, in un istante non scelto, gli si presenta il nuovo impegnativo compito». Garella, invece, non ha mai vissuto la porta come uno spettatore, neanche quando è stato parte integrante di due squadre capaci di vincere lo scudetto pur essendo lontane dalle superpotenze del nostro calcio: si esaltava nel bombardamento, come se ogni singola parata lo rendesse più forte, più scattante, persino più grande all’interno dei pali.
Abituato a volare da un palo all’altro, aveva rischiato di bruciarsi come un novello Icaro della porta. Gli era capitato a Roma, sbalzato nella Città eterna a 21 anni, seguendo lo stesso percorso dell’uomo al quale avrebbe dovuto fare da dodicesimo: da Novara alla Lazio, come Felice Pulici. Era arrivato in biancoceleste dopo anni di apprendistato piemontese: Juniorcasale, con cui aveva anche segnato un calcio di rigore («Il problema non fu tirare il rigore quanto fare velocemente gli 80 metri per arrivare al dischetto») e prima ancora il lungo percorso giovanile nel Torino. In granata aveva assaggiato la Serie A, a 18 anni, una manciata di minuti al posto di uno dei portieri che ne hanno segnato lo stile, “il Giaguaro” Castellini. Alla Lazio, dopo un anno da vice, convince Vinicio: Garella titolare e Pulici che pur di non ritrovarsi declassato decide di lasciare il biancoceleste tanto amato. Le aspettative, altissime, lo tradiscono. «Garella per me era uno sconosciuto, un ragazzo promettente che ho trovato qui. Non l’ho fatto acquistare io. Mi ha sbalordito per le sue qualità di scatto e posizione, penso che possa diventare uno dei più forti italiani. Non mi spaventa la sua immaturità, un campione è tale anche a diciotto anni», dice Vinicio a inizio stagione. “O Lione” ha occhio, la previsione è nobile e indovinata, ma l’esperienza laziale di Garella è quella che rischia di segnarne la carriera. Da Garella a Paperella il passo è brevissimo, Lens-Lazio 6-0, in Coppa Uefa, nel novembre del 1977, è la partita spartiacque. «Roma è una piazza veramente difficile, la critica non ti perdona nulla. Dopo quello che mi sta succedendo, sono certissimo di possedere un carattere forte: altrimenti sarei sparito, in senso calcistico, già da un pezzo», dichiara qualche mese dopo, già convinto di dover levare le tende. A tenerlo emotivamente a galla è la moglie Laura, sposata a 19 anni.
Bisogna essere felici anche per parare. L’Italia inizia a parlare di “Garellate”, termine coniato da Beppe Viola e divenuto in fretta etichetta da cancellare. Serve un po’ di tranquillità per tornare a volare. La parentesi di Garella alla Sampdoria, in Serie B, è spesso sottovalutata. Si pensa che sia tornato grande a Verona, ma è a Genova che getta le basi per la sua rinascita: «Forse ho avuto anche fortuna, ma mi sono tirato su da un burrone. Sono venuto via da Roma a 23 anni che non avevo più paura di niente, peggio di così non mi poteva andare». Arriva in un club che stenta e poi abbraccia, come tutta la parte doriana della città, l’approdo alla guida della società di un miliardario illuminato come Paolo Mantovani: «Genova è la città ideale per giocare a pallone, per esprimere il tuo valore senza problemi, nessuno ti assilla. E Mantovani è un uomo eccezionale». Sono anni in cui la Serie B non ha praticamente risonanza a livello mediatico e la carriera di Garella sembra sfilare via in silenzio. Arriva a Verona nell’estate del 1981 insieme a Osvaldo Bagnoli e l’Hellas sale in A al primo colpo, a braccetto proprio con la Sampdoria. Il massimo campionato riscopre questo portiere atipico, fisicamente imponente per gli standard dell’epoca, che non ha paura di rifugiarsi in corner quando i tiri sono troppo insidiosi per essere bloccati e che si lascia alle spalle le garellate diventando Garellik. Il Verona si va a collocare in pianta stabile nelle prime posizioni della Serie A fino all’assalto tricolore del 1985. Di quella squadra diventata campione d’Italia, Garella è elemento fondamentale, irrinunciabile. Gli 0-0 blindati dalle sue parate sono passaggi cruciali della cavalcata: in casa della Roma o nel San Siro milanista, sono le sue mani – e non i piedi – a proteggere l’imminente scudetto.
Impressionante il colpo di reni sul colpo di testa di Hateley.
Ma ci sono altri due 0-0, scanditi dalle parate di Garella, che segnano il suo percorso veronese. Il primo è quello di Como, all’antivigilia di Natale. Riesce a non sporcare il foglio pur avendo la testa altrove: quattro giorni prima, la moglie Laura ha dato alla luce la sua seconda figlia, Chantal, in anticipo di circa un mese sulla tabella di marcia prevista. La piccola ha problemi respiratori e Garella deve riuscire a liberare la mente da un assillo infinito. A fine partita posa i guanti e corre a Torino: «Ho voluto giocare perché era giusto, mia moglie era d’accordo, so che ha approvato la mia decisione». Un mese dopo, a gennaio del 1985, il Verona è di scena a Napoli. Garella è per distacco il migliore in campo dell’Hellas e a fine partita, in diretta su Radio Rai, Enrico Ameri lo fa presente a Bagnoli. Il tecnico del Verona vive questa osservazione come una volontà di diminuire l’importanza della prestazione dei suoi e finisce per esprimersi in maniera quasi dispregiativa nei confronti di Garella. È l’episodio che genera la rottura tra i due. Qualche mese più tardi, con il portiere impegnato in un braccio di ferro con la società per ottenere la cessione, Garella si sfogherà: «Quella storia dopo Napoli-Verona non mi è piaciuta. Io non sono stato zitto. Voglio andare via, il Verona non può giocare il prossimo campionato con il mio contratto attaccato sotto alla traversa».
Il duello Ameri-Bagnoli vede il tecnico perdere il controllo: «Garella è un portiere che non trattiene una palla, tutte le volte che si tuffa e respinge diventa una grossa parata»
Tocca poi al tempo sfumare i ricordi e cancellare i veleni, lasciando solo quello che c’è stato di buono. L’impresa di Briegel ed Elkjaer-Larsen, di Fanna, Di Gennaro e Galderisi, di Bagnoli e Mascetti, fu anche l’impresa di Garella, di un portiere che sfidava la gravità nonostante un fisico tutt’altro che filiforme: «Non sono elastico come Tancredi o elegante come Bordon. Tendo a ingrassare anche se mi sorveglio molto. Ho sempre voluto fare il portiere, non l’ho scelto come un ripiego. Lo trovavo un ruolo affascinante, un po’ romantico. Quanto al mio stile, o alla mia mancanza di stile, dico che ne sono fiero: ho sempre parato così. Sono in porta per impedire che la palla entri, mi andrebbe bene anche deviare di tacco». Gianni Mura di lui scrisse che era Compare Orso, ma volava come Batman. Che sembrava un portiere di hockey, uno spettacolo nello spettacolo.
Vince lo scudetto da eroe e poi se ne va, rinunciando alla Coppa dei Campioni e facendosi dare del “mona” dagli amici veronesi. Scende a Napoli, chiamato da Italo Allodi e sedotto dalla possibilità di indossare la maglia che fu dei suoi due idoli: Castellini, che ritrova da preparatore, e Dino Zoff. Inoltre, vuole dimostrare a sé e al mondo di essere in grado di reggere la pressione di una piazza asfissiante come Napoli, vendicando così il fallimento di Roma. Trova un calore che lo avvolge e un fuoriclasse come Diego Armando Maradona che lo avrebbe addirittura suggerito come acquisto, forse ispirato proprio da quel Napoli-Verona della discordia. Diventa un tassello importante anche se arriverà ad ammettere, con un candore naturale, che lo scudetto sarebbe arrivato anche senza di lui: «Senza di me, il Verona non avrebbe vinto lo scudetto. Ma il Napoli, con un altro al posto mio, lo avrebbe vinto ugualmente. È curioso: vinco gli scudetti dove non si sono vinti mai, anche se Napoli è così diversa da Verona». Sono anni in cui si sente uno dei migliori portieri d’Italia, se non il migliore, eppure la chiamata di Bearzot non arriva. Ma non fa polemica, al massimo riconosce il rammarico. A Napoli scopre anche un modo diverso di vivere il calcio: «Devi capire la mentalità dei tifosi e della città, che ti adotta subito mentre ti toglie il fiato. Io, da portiere, potevo ancora respirare, ma per gli uomini gol l’assedio era quotidiano. Ho vissuto una parentesi assolutamente unica, fra la città e il calcio c’era un rapporto del tutto fuori dal normale. L’impegno primario di chi gioca con la maglia azzurra è di non tradire la gente».
Alla vigilia della stagione che porta al primo scudetto, mentre gli altri predicano calma, lui, l’unico ad aver già vinto il tricolore, fissa in alto l’asticella. Sa che Maradona, reduce dal Mondiale messicano, è pronto a un’altra impresa. L’atmosfera che monta in quei mesi di entusiasmo sfrenato è il motivo per cui Garella ha scelto di fare il portiere. Sente che c’è una città che ribolle: «Napoli diventerebbe come il carnevale di Rio de Janeiro».
L’emozione del secondo scudetto vinto in carriera
Quello scudetto arriva insieme a una Coppa Italia, poi ne sfuma un altro del quale ancora si parla. Il Napoli cede al fotofinish, bruciato dalla rimonta del Milan di Sacchi, e Garella si ritrova a capo di quello che i giornali definiscono un ammutinamento. È lui, a nome della squadra, a leggere un comunicato di fuoco contro Ottavio Bianchi, tecnico di quel Napoli. «La squadra è sempre stata unita, l’unico problema è il rapporto mai esistito con l’allenatore, soprattutto nei momenti in cui la squadra ne aveva bisogno». A prendere le decisioni in quel Napoli non è più Italo Allodi, costretto ad abbandonare il suo ruolo dirigenziale nel gennaio del 1987 a causa di un ictus, bensì il suo allievo prediletto, un ex dipendente delle Ferrovie di nome Luciano Moggi. E Garella viene invitato alla porta, quella senza pali.
Due volte campione d’Italia, con un altro scudetto appena sfiorato, si ritrova in B, all’Udinese. Centra di nuovo la promozione, confermandosi portiere di straordinaria affidabilità sul lungo periodo e mettendo in mostra, per l’ennesima volta, le sue capacità non convenzionali come quando, contro la Cremonese, arriva a rispondere a una punizione di Piccioni, deviata dalla barriera, con una sorta di rovesciata, nella stessa partita in cui para un rigore al novantesimo
«Questo estro qua non ce l’hanno tutti, ce l’ho io».
Si concede così un ultimo giro di giostra in Serie A per poi finire ad Avellino, parentesi fugace, interrotta da un infortunio che pone fine alla sua carriera. Fa il corso da dirigente a Coverciano, cerca una nuova strada nel calcio, ma non la trova. Chissà, forse avrebbe intrapreso quella carriera con uno stile tutto suo, come aveva fatto tra i pali. Ma se le stranezze in porta sono tollerabili, fin quando sono accompagnate dai risultati, probabilmente il Garella dirigente sarebbe stato troppo poco controllabile dai suoi datori di lavoro. E allora per anni si è divertito a farlo nelle serie minori piemontesi, perché al centro c’è sempre stato quello: l’amore per il calcio, per una partita, per una parata. Nella sua lunga carriera era stato spesso guardato con diffidenza quando applaudiva a una prodezza di un avversario: «Se va dentro, per un bel gesto atletico, io batto le mani a chi m’ha infilato, cosa c’è di strano? Non siamo mica dei selvaggi».
Va avanti a lavorare non solo come direttore sportivo e osservatore, ma anche come coordinatore tecnico di realtà locali, quelle che puntano a portare i ragazzi sul campo togliendoli dalla strada, per spiegare ai più giovani che per parare bisogna soprattutto essere felici. Prosegue così, lontano dal grande calcio, che negli anni lo emargina, quasi lo rigetta, per il suo non essere mai pienamente allineato: troppo scanzonato, troppo poco serioso. Nel salutarlo sui suoi profili social, dopo la prematura scomparsa, il Verona ha confezionato un video delle sue migliori parate aperto dal suo volto scanzonato mentre canta, non propriamente intonato, “Il mondo”, di Jimmy Fontana. E in un mare di messaggi di ricordo e cordoglio, è spuntato anche quello della figlia Chantal che, confermando un dna di famiglia, nel ringraziare i tifosi dell’Hellas per gli omaggi, si è concessa un momento per sdrammatizzare: «Menomale che non hai fatto il cantante, papà».