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La profondità dei Clippers ha fatto la differenza
07 giu 2021
Il roster dei Clippers ha avuto la meglio su un eroico Luka Doncic.
(articolo)
13 min
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Quando si parla delle serie di playoff al meglio delle sette partite, si sottolinea spesso che difficilmente vince la squadra peggiore tra le due. A differenza di quanto accade nei tornei in cui si decide tutto in partita secca o al massimo tra andata e ritorno, aumentare il numero delle partite possibili permette alla squadra più forte di imporre la propria superiorità, sopperendo ai passaggi a vuoto che può aver incontrato nel corso della serie.

Quanto accaduto tra L.A. Clippers e Dallas Mavericks può essere esemplificativo proprio del fatto che in una serie al meglio delle sette normalmente la squadra più forte vince anche quando commette tanti errori. Nessuna delle due squadre è stata perfetta, anzi: Clippers e Mavericks sono arrivate al paradosso di perdere tutte le prime sei partite casalinghe della serie, un evento semplicemente mai accaduto nella storia della NBA al meglio delle sette gare. E certamente a Dallas passeranno molte ore quest’estate a ripensare a tutte le occasioni lasciate per strada, a partire da quel parziale di 30-11 per cominciare gara-3 che sembrava il preludio a un clamoroso cappotto.

Eppure i Clippers hanno sempre dato l’impressione di essere la squadra migliore tra le due, o quantomeno quella con il maggior numero di opzioni a disposizione per poter cambiare la serie — fino a strabordare nel secondo tempo di una gara-7 vinta in maniera decisamente poco “da Clippers”. Probabilmente se spostassimo lo stesso identico roster e lo stesso identico coaching staff in un’altra franchigia questa serie sarebbe stata molto meno equilibrata di quello che è stata, perché in tanti momenti — come il rocambolesco finale di gara-5 con quel tiro sbagliato da Kawhi Leonard dall’angolo — è sembrato che la maledizione dei Clippers fosse tornata per tormentarli.

Invece la squadra di coach Tyronn Lue ha avuto la forza non solo di rialzarsi immediatamente da quel 30-11 di gara-3 (alla fine del primo quarto la gara era già tornata in equilibrio e in gara-4 non è nemmeno cominciata, stravincendo di 25 lunghezze), ma anche di vincere gara-6 in trasferta e di dominare il secondo tempo di gara-7 con un parziale di 30-6 a cavallo di terzo e quarto periodo, segnando 20 triple di squadra (record per una gara-7) e un perfetto 24/24 dalla lunetta. Una dimostrazione di forza mentale che forse nemmeno internamente si aspettavano: «Quando siamo andati sotto 30-11 in gara-3 eravamo a una o due giocate dall’essere battuti con un cappotto» ha detto Nicolas Batum dopo la partita di ieri. «Poi abbiamo trovato qualcosa dentro di noi in termini di resilienza e durezza mentale, come a dire: ‘Non possiamo uscire così. Siamo una buona squadra. Siamo una buona squadra e dobbiamo dimostrarlo’. E lo abbiamo fatto».

La coperta lunghissima di Tyronn Lue

Entrambe le squadre hanno finito la serie in maniera decisamente diversa rispetto a come l’hanno cominciata. Coach Tyronn Lue ha impiegato qualche partita a capire che Patrick Beverley non poteva tenere il campo contro Luka Doncic e dopo averlo fatto partire titolare nelle prime due gare della serie lo ha sostituito con Reggie Jackson, decisamente più adatto ad attaccare dal palleggio e meno in difficoltà nella metà campo difensiva. Ci ha messo qualche partita in più invece a capire che Ivica Zubac proprio non poteva rimanere in campo quando c’era anche Luka Doncic, che lo ha sottoposto a una serie di torture dal palleggio che avrebbero reso orgoglioso Ramsay Bolton di Game of Thrones.

Dopo averlo massacrato sui cambi difensivi nelle prime quattro partite, in gara-5 Zubac ha provato a rimanere in posizione estremamente conservativa e ha pagato lo stesso. Il suo differenziale tra quando era in campo e quando era fuori nei 95 minuti che ha disputato è stato di -41.6.

Proprio nella sostituzione di un membro comunque importantissimo della rotazione come Zubac si è notata la profondità del roster a disposizione di coach Tyronn Lue, probabilmente il più lungo di tutta la NBA insieme a quello dei Brooklyn Nets. Pur non potendo contare su un giocatore del calibro di Serge Ibaka, arrivato nella scorsa off-season come pezzo pregiato del mercato e sostituto designato di Montrezl Harrell, Lue ha trovato una soluzione fenomenale in Nicolas Batum, la vera chiave tattica della serie. Con il francese nel ruolo di 5 tattico à la Draymond Green o Boris Diaw (due modelli che lui stesso ha citato esplicitamente tra gara-3 e gara-4 parlando del suo nuovo ruolo) i Clippers si sono potuti permettere di cambiare con più leggerezza sui blocchi e non hanno pagato particolarmente dazio sotto canestro, con Batum eccellente nel leggere le linee di passaggio verso il centro dell’area.

Pur avendo perso l’agilità dei tempi migliori, Batum rimane un’atleta di grande rapidità nel chiudere gli spazi e nella lettura delle situazioni, sbucando fuori dal nulla per deviare o intercettare palloni. Nelle quattro partite in cui è partito titolare ha accumulato 9 recuperi difensivi e il suo Net Rating è semplicemente ridicolo: +44.2 su 100 possessi con lui in campo, con la difesa migliorata di quasi 32 punti.

Gli inserimenti di Jackson e Batum in quintetto sono stati gli aggiustamenti più evidenti di Lue, ma anche dalla panchina è riuscito a trovare risposte da giocatori che all’inizio della serie erano fuori dalle rotazioni. In gara-1 ad esempio Terance Mann — a lungo fondamentale per tappare ogni buco durante la regular season — non ha giocato nemmeno un minuto, ma già dal primo quarto di gara-2 è tornato in campo per dare la sua energia. Il suo impatto è stato decisivo per rimettere in piedi gara-3, quando il suo ingresso dalla panchina insieme a quello di Rajon Rondo (di cui ha progressivamente rosicchiato i minuti nella rotazione degli esterni) ha dato una svolta ai Clippers in pieno sbando. Ieri sera poi i suoi 13 punti nel primo tempo — gli stessi realizzati da Paul George e Kawhi Leonard — hanno dato una grossa spinta alla squadra per tenere il passo offensivo imposto da Doncic.

Un altro giocatore scongelato un po’ a sorpresa nelle ultime due gare della serie è stato Luke Kennard. Totalmente fuori dalla rotazione nelle prime cinque partite, coach Lue lo ha impiegato per 10 minuti in gara-6 (chiuso con 2 punti e +3 di plus-minus) e ha ricevuto un contributo fondamentale in gara-7, quando con 11 punti in 15 minuti e 3 triple a segno ha spaccato in due la partita, portando i suoi fino al +15 nel parziale decisivo. Avere la possibilità di tenere in panchina giocatori dal contratto pesante (Kennard guadagnerà 64 milioni di dollari nei prossimi quattro anni) e capaci di entrare e avere subito questo tipo di impatto, grazie anche a una freschezza atletica che gli altri giocatori in campo non potevano avere dopo sette partite, è un lusso che ha finito per fare la differenza in favore dei Clippers.

Mentre Mann e Kennard chiudevano con +14 di plus-minus in gara-7, coach Carlisle ha provato a giocarsi il jolly con Trey Burke, sperando che potesse togliere almeno un minimo di pressione dalle spalle di un Doncic sempre più esausto. Risultato: 0 punti, 1 fallo, 0/3 al tiro e -10 di plus-minus in 7 minuti e 45 secondi tragici.

Lo shot making vince le partite di playoff

I Clippers non avevano solo una rotazione molto più lunga rispetto agli avversari, ma anche un vantaggio evidente nella metà campo offensiva dove persino coach Rick Carlisle durante l’intervista a fine primo quarto di gara-7 ha dovuto ammettere che «in difesa siamo limitati». La costruzione del roster dei Mavericks è piuttosto peculiare per la NBA moderna, visto che hanno numerose guardie e una discreta profondità tra i lunghi, ma l’unico esterno versatile a disposizione è Dorian Finney-Smith, non a caso il giocatore più utilizzato dopo Doncic (231 minuti contro i 236 dello sloveno).

Finney-Smith ha provato a marcare qualsiasi giocatore gli capitasse a tiro, ma almeno in partenza il suo compito principale era quello di marcare Paul George, lasciando a Maxi Kleber (alle prese con un problema al tendine d’Achille che a inizio serie lo vedevano anche in dubbio di poter scendere in campo) il gravoso compito di marcare Kawhi Leonard. Ecco, nonostante la buona volontà di entrambi, non è bastato: le due stelle dei Clippers hanno presto preso consapevolezza che nessuno dei Mavericks poteva stargli davanti e hanno cominciato a seguire il mantra tracciato da coach Lue, cioè “Get to the rim or die tryin’”. George in particolare provava a puntare Porzingis nei pick and roll ogni volta che se lo trovava davanti, arrivando a dire anche in conferenza stampa che «i Mavericks non hanno un rim protector», e in gara-7 pur tirando molto male (5/15 dal campo, 30% da tre punti nella serie) è rimasto aggressivo e si è guadagnato 10 tiri liberi, segnandoli tutti.

Ancor più clamoroso è stato il dominio esercitato da Leonard nella serie, viaggiando a 32 punti di media con 7.9 rimbalzi, 4.6 assist e percentuali al tiro senza senso: 61% dal campo, 42.5% da tre e quasi il 90% ai liberi, secondo giocatore nella storia della NBA a finire una serie da 30 di media e il 60% al tiro dopo Shaquille O’Neal nelle Finals del 2000 contro Indiana. Solo che poi Shaq in difesa non doveva anche marcare Luka Doncic come Leonard ha fatto dopo le prime due partite, smettendo di concedere cambi difensivi senza opporre resistenza ma battagliando sui blocchi anche per sfiancare lo sloveno. E soprattutto Shaq non doveva prendersi i tiri dal palleggio che Leonard ha messo nel momento decisivo della serie.

Nel momento più importante della stagione dei Clippers, Leonard ha risposto da campione segnando 12 punti nel quarto finale di gara-6, tirando 5/5 dal campo tutti difficilissimi dal palleggio — chiudendo con 45, il suo massimo in carriera ai playoff pareggiato.

È proprio questa capacità di segnare tiri difficili dal palleggio quando la difesa avversaria è riuscita a togliere tutte le altre opzioni quella che fa la differenza tra la vittoria e la sconfitta a livello dei playoff. I Clippers nel corso della serie hanno avuto semplicemente più opzioni per tiri del genere con Leonard e George, trovando allo stesso tempo anche dei giocatori capaci di segnare tiri pesanti come Reggie Jackson in gara-7 (due triple nell’ultimo quarto) e un Marcus Morris che ha ritrovato la precisione nei momenti più importanti, come nel finale di gara-3 (tre triple a segno) e con le sette triple di ieri sera (record di Steph Curry pareggiato per una gara-7 di playoff) su 9 tentativi, chiudendo con 23 punti per la prima volta nella serie.

La coperta corta di Carlisle

Al contrario di Lue, coach Carlisle ha avuto molte meno opzioni a suo favore e ha finito molto presto per provare la mossa della disperazione, cioè inserire Boban Marjanovic per cambiare un po’ le carte in tavola. La presenza del centro serbo da sola cambia la geometria della partita, perché in attacco è una presenza che le difese non possono ignorare e in difesa è un bersaglio troppo ghiotto per i predatori avversari — e tutto inevitabilmente sembra girare attorno a lui dal punto di vista tattico. Carlisle ha provato a mascherarlo al centro di una zona 2-3 esasperatissima, che aveva il doppio obiettivo di proteggerlo dai pick and roll avversari (portando Porzingis in aiuto dall’angolo per arrivare a stoppare in maniera dinamica e non stanziale) e allo stesso tempo far pensare il più possibile i Clippers, esponendo i loro problemi strutturali di playmaking e scelte.

Ha funzionato solo fino a un certo punto: i differenziali su 100 possessi di Marjanovic sono solo leggermente negativi, il che è quasi da considerare un successo visto quanto sono andati male gli altri membri della panchina, e oltre alla presenza in area in termini di punti e rimbalzi d’attacco ha ricoperto un ruolo utilissimo come “valvola di sfogo” quando Doncic veniva raddoppiato, dando un bersaglio facile per lo sloveno anche contro le braccia e la fisicità della difesa dei Clippers. Solo che dopo un po’ di tempo i Clippers hanno capito come attaccarlo e come trovare l’uomo alle sue spalle sulla linea di fondo, facendo saltare per aria il castello costruito attorno al gigante serbo.

Se i Clippers sono andati “piccoli” con Batum da 5, i Mavericks hanno provato ad andare dall’altra parte schierando sempre due lunghi “veri” in campo assieme, cambiando Marjanovic e Porzingis con Kleber e Dwight Powell quasi in blocco. I due lunghi di riserva hanno avuto un impatto migliore rispetto ai titolari almeno in termini di differenziale su 100 possessi, ma la loro incapacità di crearsi un tiro da soli ha finito per esasperare ancor di più la dipendenza totale e assoluta dei Mavericks per Doncic, al quale solo un ottimo Tim Hardaway Jr. (17 di media nella serie con il 40% da tre, pur con 8/34 nelle ultime quattro partite) è riuscito a dare una mano in termini realizzativi.

Luka nuovo Cavaliere dello Zodiaco

È difficile rendere in parole la serie che ha disputato Luka Doncic, che ha battuto record su record praticamente a ogni partita disputata. L’intero piano partita dei Clippers — forse la squadra con la batteria di esterni più adatta a marcarlo di tutta la NBA — si concentrava solo e unicamente sul fermarlo, o quantomeno cercare di limitare le sue iniziative individuali o il suo coinvolgimento dei compagni. All’inizio della serie coach Lue aveva detto chiaramente che l’idea di cambiare sistematicamente su di lui fosse per costringerlo a giocare in uno contro uno e a non coinvolgere i compagni, ma molto presto Doncic ha cominciato a smontare la difesa losangelina pezzo per pezzo: prima Patrick Beverley portato al ferro (gridandogli in faccia “YOU’RE TOO SMALL” in più di un’occasione), poi vivisezionando Ivica Zubac, quindi andando a cercare prede in giro per il campo come un rapace — da Marcus Morris a Nic Batum fino a Reggie Jackson per infine prendersi anche degli isolamenti contro Leonard e George. E uno dopo l’altro li ha battuti tutti, almeno fino a quando il fisico ha retto.

Una volta capito che non avrebbero potuto fermarlo in uno contro uno, i Clippers hanno provato ogni tattica possibile per non farsi massacrare: raddoppi, finti raddoppi, drop col lungo, aiuti dal lato forte e dal lato debole, qualsiasi cosa. E in qualche occasione magari sono anche riusciti a coglierlo di sorpresa, ma come succedeva ne I Cavalieri dello Zodiaco, non puoi fare per due volte la stessa mossa contro Doncic — perché ha immediatamente la contromossa pronta per batterti.

I suoi 46 punti si fermano a uno solo di distanza dal record di 47 condiviso da Sam Jones e Dominique Wilkins per una gara-7 di playoff. Solo che aggiungerci anche 14 assist è fuori da ogni logica.

Il problema è che con l’andare del tempo, fisiologicamente, Doncic è andato via via spegnendosi: nel corso della serie ha segnato 85 punti nei primi quarti, 71 nei secondi, 54 nei terzi e 40 nei quarti, con percentuali nettamente peggiori nei secondi tempi rispetto ai primi. A questo si aggiunge anche il problema al nervo del collo che lo ha fortemente limitato in gara-4, una gara in cui si è vista chiaramente quale sia la differenza tra le due squadre se Doncic per una volta non è ultraterreno — e che è emersa in tutta la sua prepotenza nel secondo tempo di ieri sera, quando tutti i Mavs sono arrivati con la spia della benzina accesa nel finale di gara.

Per Dallas si apre adesso un’estate che lo stesso Carlisle — confermato da Mark Cuban sulla panchina nonostante la sesta eliminazione in fila al primo turno dei playoff dopo il titolo del 2011 — ha definito come “piena di decisioni importanti da prendere”, perché Doncic a detta del suo stesso allenatore è già adesso uno dei primi cinque giocatori della lega nonché uno che può cambiare da solo una serie di playoff contro una contender per il titolo. La decisione più importante rimane legata a Kristaps Porzingis, il grande assente quantomeno dal punto di vista dell’impatto durante la serie: la sua presenza in attacco è stata impalpabile e anche in difesa, complici i problemi fisici che lo hanno colpito negli ultimi anni, sembra regredito anche nella cosa in cui eccelleva, ovvero la protezione del ferro.

Se Porzingis non è fisicamente in grado di essere la spalla di Doncic che tutti si aspettavano, per i Mavericks è un grosso problema — anche perché non c’è una facile soluzione, dato che il resto della NBA ha visto quanto sia in difficoltà e il suo contratto si potrebbe allungare fino al 2024, vista la player option in suo favore per l’ultima stagione. I Mavericks dovranno anche rifirmare Tim Hardaway Jr. e Boban Marjanovic, entrambi in scadenza, e potrebbero ritrovarsi sul groppone gli 11.6 milioni di dollari della player option del deludente Josh Richardson visto in Texas. Una situazione ingarbugliata e tutta da decifrare: Luka Doncic è pronto, ma i Mavericks in estate dovranno dimostrare di esserlo altrettanto.

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