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Coach: Gianmarco Pozzecco
18 giu 2020
L'allenatore della Dinamo Sassari racconta la sua transizione dal campo alla panchina.
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18 min
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Il 23 novembre 2014 Gianmarco Pozzecco era già una delle icone della pallacanestro italiana. Lo era, soprattutto, per la sua incredibile e irripetibile carriera da giocatore. Una carriera piena di alti, bassi, vittorie e sconfitte. Non tanti trofei, ma indubbiamente memorabili: nello storico Scudetto “della stella” di un club come Varese, c’è lui. Nella seconda - e ad oggi ultima - medaglia azzurra in un torneo olimpico, c’è lui.

Non c’è lui in vittorie “mancate”, come lo Scudetto 2005 della Fortitudo Bologna o le medaglie europee dell’Italbasket nel 1999 e nel 2003, ma pressoché sin dal primo momento in cui il ragazzo nativo di Gorizia ha messo piede su un parquet è stato un volto di riferimento per il basket italiano. Una personalità magnetica, capace anche di essere riconosciuta e riconoscibile anche dai non appassionati della palla a spicchi: un’autentica rockstar. Con lui non ci si annoia mai, come testimonia la clamorosa e improvvisa notizia dell'addio a Sassari finita su numerose prime pagine dei giornali italiani e poi rientrata letteralmente il giorno dopo con una conferenza stampa surreale, che ha dato un'ulteriore prova dell'eco di un personaggio che trascende il perimetro della pallacanestro. Forse il “Poz” è la prima rockstar del basket italiano. Certamente, in ordine temporale, è l'ultima.

Ogni storia di successo è diversa, e la sua in questo senso non fa eccezioni. In molte storie, però, si possono trovare dei tratti comuni nel loro svolgimento: dei momenti, magari ripetuti nel tempo, che possono essere utili nel tracciare il procedere di una storia. Quel 23 novembre 2014 per Pozzecco è una data importante. Sbarcato in Serie A dopo due promettenti stagioni da allenatore esordiente a Capo d’Orlando in Serie A2, il “Poz” - divenuto nel frattempo guida tecnica di una squadra speciale nella sua storia personale come Varese - si trova ad allenare per la prima volta in carriera contro l’Olimpia Milano campione d’Italia in carica, in una sfida che ha fatto la storia della nostra pallacanestro.

Con due vittorie (di cui una all’esordio nel sentito derby contro Cantù) in sei partite, l’inizio della stagione non è dei migliori: la sfida contro Milano può rappresentare l’occasione per invertire la rotta. La partita, però, passa alla storia principalmente per un episodio che avviene a 1:37 dalla fine del primo tempo, con Varese sotto per 38-34: nel protestare per un fallo commesso da Eyenga su Samuels, Pozzecco rimedia il secondo fallo tecnico e la conseguente espulsione. Nel vederlo rimanere in campo si intuisce il suo nervosismo: la protesta continua, con Pozzecco che arriva addirittura a strapparsi la camicia prima di lasciare finalmente il parquet: un gesto che desta scalpore, che rompe gli schemi e diventa visibile anche a chi non segue abitualmente le vicende del basket italiano.

Fast forward di 1.620 giorni, al 1 maggio 2019. Il Banco di Sardegna Sassari è in campo alla s.Oliver Arena di Würzburg, Germania, per la finale di ritorno della FIBA Europe Cup. Sassari, che da quasi tre mesi è allenata da Pozzecco, sta vivendo un momento magico della sua stagione: una lunghissima imbattibilità è valsa una ripida risalita della classifica di Serie A oltre all’accesso alla prima finale continentale della sua storia. In Germania c’è da difendere il +5 maturato nella partita d’andata in Sardegna, e dopo un primo tempo in favore dei tedeschi la squadra sarda esce alla distanza, conquistando il suo primo trofeo europeo.

Il trionfo di Würzburg (Video da Dinamo TV).

A fine partita, sopraffatto dall’emozione per la prima vittoria nella sua carriera da allenatore, Gianmarco Pozzecco si strappa la camicia. Quella “sbagliata”, come ammetterà un paio di giorni dopo in un’intervista a Sky: «Volevano che mi strappassi la camicia, ma in realtà ho fatto una ca***ta, perché ne avevo una che costava 200 euro e una da 15. Ovviamente mi sono portato quella da 200 e ho distrutto quella».

Tra le due camicie strappate, una per rabbia e una per felicità, non ci sono soltanto 1.620 giorni di distanza. C’è una carriera da allenatore che ha visto, come quella da giocatore, alti e bassi. Accompagnati dall’estro di un personaggio irripetibile, che contro molti pronostici si sta affermando come uno dei migliori allenatori della sua generazione. Restando sempre fedele a se stesso: «La mia ragazza, quando abbiamo vinto la FIBA Europe Cup lo scorso anno, mi ha chiamato e mi ha detto che dovevo essere felice perché “sei riuscito a fare vincere i tuoi ragazzi per come vuoi allenare tu”. Ed era vero», ci dice, ripensando a quel giorno.

«È stata la cosa più gratificante, perché mi sono sentito come se avessi superato un esame che dovevo superare. Per dimostrare che si può allenare come piace a me: abbiamo vinto, e io ho giocato con loro. L’allenatore era assente».

L’occasione di Zagabria

Lo scorso novembre, Gianmarco Pozzecco era nel pieno di quella che si può considerare come la sua stagione della consacrazione come allenatore. Dopo aver vinto un altro trofeo - la Supercoppa Italiana - a fine settembre, sia la classifica della Serie A che della Basketball Champions League raccontavano di una squadra in salute, che stava pienamente rispettando il ruolo di contender con cui veniva accreditata in estate.

Pur lontane dai 22 risultati utili di fila inanellati nella scorsa stagione, le 7 vittorie consecutive tra campionato e coppa centrate nel girone d’andata avevano dato molte conferme sulla forza della Dinamo 2019-20 (Video Dinamo TV).

Nonostante l’intervista sia stata realizzata lo scorso novembre con una telefonata sulla strada per l’aeroporto di Olbia, prima di una trasferta a Milano che rappresentava anche il rematch della fantastica - per Sassari - semifinale playoff di sei mesi prima, parlare con Gianmarco Pozzecco di cosa significhi essere un allenatore è incredibilmente illuminante. Sia perché si tratta di un personaggio capace di fornire una prospettiva unica, perché in possesso di un background irripetibile, sia perché c’è un’indubbia differenza tra chi “nasce” allenatore e chi lo diventa.

«Non c’è mai stato un momento preciso in cui ho pensato che sarei diventato un allenatore», esordisce, «ma ogni volta che pensavo all’ipotesi mi son detto che se mai lo fossi diventato mi sarebbe piaciuto allenare per come desideravo essere allenato: con grande rispetto da parte dell’allenatore nei confronti di ciò che fanno i giocatori. Spesso, secondo me, in tutti gli sport gli allenatori tengono poco in considerazione i sacrifici dei giocatori: è una cosa che ho notato allenando».

«A me ogni tanto piace giocare, anche perché mi dà l’opportunità di ricordare la fatica che si fa in campo. A volte ci si dimentica di questo aspetto: ai giocatori chiediamo tante cose e di non sbagliare nulla, pensando che sia abbastanza semplice. E non lo è. Oggi io alleno esattamente come avrei voluto essere allenato».

Ha senso, pensando a queste sue parole, che il debutto in panchina di Gianmarco Pozzecco avvenga nell’ultimo teatro della sua carriera da giocatore: Capo d’Orlando, con l’Orlandina presa prima a stagione in corso nel 2012 in A2 e poi condotta a un passo dalla promozione in Serie A (arrivata per ripescaggio). Il biennio in Sicilia sembrava il preludio a una carriera da predestinato anche in panchina, vista la successiva chiamata da parte di un’altra squadra “del cuore” come Varese, per il debutto in Serie A.

A Masnago, però, Pozzecco non ha replicato il grande impatto avuto nel biennio in Sicilia, con l’avventura che termina a febbraio con le dimissioni per i risultati sotto le attese. A quel punto, però, arriva un passo indietro un po’ inusuale per la carriera di un allenatore in rampa di lancio, pur se reduce da una battuta d’arresto: due stagioni da vice allenatore di Veljko Mrsic al Cedevita Zagabria.

«Venivo da una stagione in cui avevo sofferto tanto come allenatore, e mi capitò l’opportunità di lavorare per un ex compagno di squadra, un amico» ricorda oggi. «Ho colto l’opportunità al volo per dargli una mano, ma inconsapevolmente in quei due anni ad arricchirmi sono stato io per primo. Quando un giocatore smette di giocare e vuole iniziare ad allenare, la parte che secondo me gli manca di più è quella analitica, perché quando inizi questo lavoro ti rendi maggiormente conto di quanto importante sia compito degli assistenti».

La vittoria di Milano fu tra le tappe fondamentali nel regalare al Cedevita di Mrsic e Pozzecco l’accesso alle Top 16 di Eurolega nella stagione 2015-16.

«A Zagabria mi sono dovuto occupare della parte che conoscevo meno: i dettagli analitici e tattici, la conoscenza delle squadre avversarie. È una scelta che ha chiuso il cerchio della mia pallacanestro: ho ancora tantissimo da imparare, ma lì mi sono formato definitivamente, costruendomi un’idea e una mia filosofia». Pozzecco aggiunge poi quella che vede come un limite che emerge in chi passa direttamente dal ruolo di giocatore a quello di allenatore.

«Quando smetti di giocare a pallacanestro e inizi direttamente a fare il capo-allenatore, ti ritrovi immerso in un mondo di esperienze quotidiane che ti possono arricchire, ma che si accompagnano a uno stress talmente grande che fai fatica a migliorarti: cerchi di perseguire un tuo credo e diventi poco elastico. Non hai grande esperienza, non hai avuto la possibilità di vedere la pallacanestro in un modo impegnato ma allo stesso tempo sereno: da assistente ho avuto la possibilità di vivere questo, di avere molta meno pressione nel fare il mio lavoro, che ho potuto svolgere in maniera più lucida».

Nel bagaglio di Pozzecco, l’esperienza di Zagabria ha anche lasciato altro, come un rapporto diverso con gli assistenti del suo staff tecnico: «Prima della Croazia non rispettavo i miei assistenti come li rispetto oggi, e di questo me ne scuso. Non penso che fossi un allenatore irrispettoso, ma oggi sono molto più attento a questi dettagli: avendo fatto il vice so che tipo di difficoltà vive un assistente. Vivo tantissimo tempo con il mio staff e sono grato per quella scelta perché sono migliorati anche i rapporti umani che ho con loro. Se tu rispetti di più tutti, è facile che i giocatori si rispettino a vicenda, che rispettino l’allenatore e lo staff».

Viene quasi naturale chiedersi, a questo punto, quanto il biennio di Zagabria sia stato fondamentale per generare l’esperienza in Sardegna, arrivata dopo un breve interregno alla Fortitudo Bologna: «Sono figlio di quei due anni in Croazia, oltre alle opportunità che ho avuto a Capo d’Orlando grazie a Enzo Sindoni» ricorda Pozzecco. «Senza la Croazia non ci sarebbe stata la Sardegna? Sì: perché non mi avrebbero preso a Sassari e perché senza quell’esperienza le cose oggi non starebbero andando bene».

Il campo che ritorna nella panchina

Quando un giocatore diviene allenatore, può capitare che da coach si incroci da avversario o capiti di allenare un ex compagno di squadra. Nella storia di Gianmarco Pozzecco questo è accaduto già nella sua prima esperienza da allenatore a Capo d’Orlando: «Sono arrivato lì a metà stagione e l’estate successiva ho avuto la possibilità di contribuire alla costruzione della squadra. Siamo andati con l’idea molto chiara di valutare le migliori opportunità possibili, chiedendo anche ai miei ex compagni di squadra se volevano venire a giocare da noi: pensavo che questo potesse rappresentare un valore aggiunto, capace di contribuire alla scelta del giocatore».

Il saluto di Pozzecco a Capo d’Orlando.

«I primi due che ho chiamato in estate sono stati Matteo Soragna e Gianluca Basile; presi loro due abbiamo firmato anche Sandro Nicevic. Il giorno del loro arrivo in città li ho portati in ufficio da me e come prima cosa ho detto loro, cercando di rimanere serio, di darmi del lei. Mi guardano come per dirmi “tu sei completamente idiota”, e Soragna che è un po’ più loquace mi disse immediatamente “Hai ragione, dobbiamo darti del lei. Quindi vada a fa***lo”. Poi chiaramente ci siamo messi a ridere, ma era impossibile che le cose mutassero così tanto da parte mia: era impossibile vederli diversamente, dall’alto verso il basso».

L’intuizione di Pozzecco fu felice: quella Capo d’Orlando si rese protagonista di una cavalcata esaltante, chiusa col ko in finale promozione contro Trento. La Serie A arrivò comunque via ripescaggio per i fallimenti di Siena e Montegranaro, al termine di una stagione iniziata in maniera scoppiettante.

Viene da pensare che la stagione con due ex compagni come Soragna e Basile e un veterano come Nicevic abbia lasciato in Pozzecco un’altra eredità importante nel suo bagaglio di coach: il rapporto con i giocatori. «Io ho rispetto del giocatore e ho anche grande confidenza. Come me la prendo io, gliela dò: mi piace che i miei giocatori entrino in confidenza con me, ma in determinate occasioni devono riconoscere il ruolo, e io devo prendere decisioni che loro devono essere bravi ad accettare. Da quando alleno, però, non mi è mai capitato di aver dato troppa confidenza ai giocatori».

Confidenza che si poteva vedere anche in alcuni spot pubblicitari.

Parallelamente alla possibilità di allenare un ex compagno, la carriera da coach di Pozzecco si è anche contraddistinta per l’assorbimento di conoscenze e competenze dei tanti allenatori avuti in carriera. È qualcosa che il Poz, oggi stesso, descrive con un’immagine molto chiara: «Il mio modo di allenare è un puzzle di tutti gli allenatori che ho avuto. La pallacanestro è cambiata molto: ad esempio, una volta non si aiutava mai dal lato forte e oggi lo si fa, noi ad esempio lo facciamo in modo consistente. Ed è una cosa che ho preso dalle mie esperienze. Tutto il mio basket è fatto di esperienze che ho vissuto sul campo, il mio strumento è la memoria. Non ho letto la pallacanestro, non l’ho studiata: ripropongo in campo quello che mi ricordo che secondo me ha funzionato meglio, anche dal punto di vista gestionale».

«Ci sono leadership tiranniche e altre che responsabilizzano i giocatori: a volte la scelta è spontanea, ma è qualcosa su cui puoi riflettere. Puoi riflettere e decidere se essere più o meno duro, più o meno aperto al dialogo, più o meno chiuso rispetto ai giocatori. Nel mio puzzle gli allenatori che ho rispettato di più chiaramente hanno più pezzi, ed è normale che sia così».

Da playmaker ad allenatore

Abituato a condurre le sue squadre dalla cabina di regia in campo, si potrebbe pensare che la transizione tecnica e tattica di Pozzecco da giocatore ad allenatore sia stata coerente con quello che era il focus della sua pallacanestro “giocata”. Alla domanda su quale sia l’aspetto del gioco che lo affascina di più da inserire nel suo playbook rispetto al periodo da giocatore, Pozzecco è in grado di stupire.

«È la difesa. Non ero noto per essere un difensore arcigno, anzi», afferma. «Ero molto meno peggio di quanto si volesse fare credere, ma ero talmente tanto bravo in attacco che mi interessava poco fare cambiare l’idea degli altri sulle mie capacità difensive. È la difesa per due motivi. Per i tanti maligni che mi dicono che avendo visto gli altri difendere, perché in difesa sostanzialmente guardavo gli altri, ho questa capacità di insegnare a difendere. Ma anche perché essendo stato un bravo attaccante sapevo quali erano gli aspetti di una difesa che mi mettevano in difficoltà».

Secondo Pozzecco, inoltre, questo aspetto è abbastanza comune a chi ha intrapreso un percorso simile al suo: «È il denominatore comune degli ex giocatori che poi diventano allenatori, che erano rivedibili come difensori ma che poi diventano molto pretenziosi rispetto ai giocatori in difesa. Non sono un caso isolato».

Nella transizione da giocatore ad allenatore un ruolo importante, come abbiamo visto prima, lo gioca anche l’assorbimento di esperienze particolari, che possono lasciare un segno emotivo e un ricordo speciale. Incrociare ex compagni di squadra (o allenarli, come nel caso di Soragna e Basile a Capo d’Orlando e di Stefano Mancinelli alla Fortitudo) può rientrare nella categoria, come il confronto sul campo con ex allenatori dai quali ha appreso qualcosa per comporre un puzzle unico.

Sono tanti gli allenatori che hanno fatto parte della vita di Gianmarco Pozzecco, ma sono due quelli che emergono immediatamente alla sua mente quando gli si chiede di raccontare cosa sia, per lui, preparare una partita contro un allenatore “avuto” da giocatore. «La prima situazione che ricordo di più è quella con Carlo Recalcati, quando io ero a Varese e lui a Venezia», ricorda oggi. «Charlie è una sorta di padre putativo per me. Allenare contro di lui è stata un’emozione unica, perché è una persona che stimo e ammiro». Ma è il secondo caso che, forse, stupisce di più nel racconto del Poz, anche perché parte da un aneddoto particolare.

Un legame con alti e bassi, ma indissolubile. (Foto di Arturo Presotto - Iguana Press/Getty Images)

«L’altra situazione che ricordo è con Stefano Pillastrini, che mi avrebbe dovuto allenare nell’ultimo anno della carriera, quando stavo per andare alla Virtus Bologna prima di rinsavire di punto in bianco e non andare più lì [Pozzecco poi chiuse la carriera da giocatore dopo la stagione 2007-08 con Capo d’Orlando, ndr]. È in una partita in cui lui venne espulso a 20 secondi dalla fine. Io non sapevo come comportarmi: lui era entrato in campo e si era animato parecchio, io da un lato volevo dargli una mano ma allo stesso tempo non intromettermi nella sua decisione di protestare. Rimasi un po’ lì a metà, per poi avvicinarmi a rassicurarlo quando entrò nel tunnel per gli spogliatoi. A fine partita andai dagli arbitri, chiedendo loro di essere un po’ indulgenti con lui nel referto» conclude. «Alla fine gli diedero soltanto un’ammonizione: è una cosa di cui vado un po’ fiero, perché l’amicizia viene prima delle sfide di campionato. So che lui avrebbe fatto lo stesso per me».

Il basket (e lo sport) di Gianmarco Pozzecco

Questa visione generosa e genuina dello sport e della competizione conduce Pozzecco a condividere una riflessione abbastanza estesa su una sorta di contraddizione, che lo vede vivere un mondo da tantissimo tempo ma con un ruolo non ricoperto altrettanto a lungo: «La vita dello sportivo è strana: a 35 anni sei vecchio marcio, da buttare, ma per andare in pensione ti mancano ancora 25-30 anni di lavoro».

«Sei vecchio perché devi smettere di fare ciò che stavi facendo, psicologicamente ti senti di andare in pensione, ma quando smetti di giocare hai in realtà una sorta di “sabbatico” in cui ti riposi e ti guardi un po’ intorno: se sei fortunato ti capita l’occasione di rimanere nella pallacanestro, che è quello che volevo fare. Ma allo stesso tempo cerchi quello che può essere il ruolo che ti calza meglio».

Ruolo che, per il nativo di Gorizia, è stato quello dell’allenatore, dopo anche alcune esperienze come commentatore e opinionista TV: «Sei un allenatore alle prime armi, ma sai che non è così. Le cose che so oggi le sapevo anche 15 o 20 anni fa, ma sei totalmente inesperto a quello che vuol dire essere l’allenatore, più che farlo. A quello che circonda il mondo dello sport, che va al di fuori del campo e dello spogliatoio».

L’importanza dello spogliatoio per Pozzecco, in un video realizzato prima della finale, poi vinta, di Supercoppa 2019 contro Venezia (Video Dinamo TV).

«Quello che lo circonda è allucinante e orrendo. Il campo è meritocratico, non esistono scorciatoie: per tirare hai 24 secondi a disposizione, non puoi andare dal tuo avversario e dire che tiri in 28 o mettendo un piede fuori. Da allenatore entri in un mondo dove tutte queste cose qui esistono, e tu non lo vuoi accettare. E sei vecchio per essere così elastico, per dire che queste cose non le accetti. Sono una persona molto più esigente di prima e vivo in un mondo che è cento volte peggio: è una difficoltà pazzesca».

«Infatti sto con i miei giocatori», continua Pozzecco. «Rispetto loro perché so che sono persone vere, più di tutto quello che sta loro intorno, nonostante tutto il mondo della pallacanestro dica che i giocatori sono delle teste di c***o. Non ci siamo capiti, sono delle teste di c***o tutti quelli che stanno attorno ai giocatori, e questa è una roba in cui credo fermamente. Ci sono delle brave persone, ma c’è anche chi cerca la scorciatoia, il mezzuccio per accaparrarsi un vantaggio, e questo nel mondo della pallacanestro non può esistere».

Il problema, afferma, «è che ti immergi in quel mondo quando hai 47 anni e sei convinto che tutti seguano le regole. Quando giochi ti dicono che stai vivendo in un mondo fatato e dorato, ti dicono che quando smetti di giocare non ti caga più nessuno. Ma se rimani in questo mondo scopri che è uguale a quello che c’è fuori».

«La vera differenza che esiste nel mondo dello sport è tra quanto accade in campo e quanto accade fuori. Il campo è meritocratico, privo di menzogne, ed è l’unico posto dove questo accade. Possono sbagliare gli arbitri, come i giocatori e gli allenatori, e io parto sempre dal presupposto che ci sia buona fede negli errori degli arbitri, dei giocatori e degli allenatori».

Sorge naturale, a questo punto, domandarsi cosa sia il basket di Gianmarco Pozzecco: «Giocare, un gioco. Oggi io alleno, prima giocavo. Ma in realtà non alleno, gioco quotidianamente con i miei ragazzi: voglio vedere che si divertono, che stanno bene insieme. Non ho pretese personali, non penso mai di essere bravo».

«La parte più bella della mia vita è passata, e per me giocare a pallacanestro è stata la parte più bella. Così bene non vivrò più», continua. «Sono molto giocatore di pallacanestro: le regole ci sono e bisogna raccontarle. Se ti abitui a un mondo arrivista, meno meritocratico, più malefico e meno genuino e spontaneo, a 47 anni non ne vuoi sapere: l’unica cosa che non vorrei fare è cambiare».

«C’è una grande differenza tra giocare e allenare: quando giochi vuoi vincere, quando alleni non vuoi perdere. Sembra la stessa cosa, ma non è così. Quando alleni faresti di tutto per non perdere, e possono entrare in gioco delle cose che non sono consone alle regole dello sport, a dei principi che i giocatori hanno in maniera intrinseca. A 47 anni sono stato immesso in un mondo in cui faccio fatica a vivere».

Quale era, quindi, la prospettiva di Gianmarco Pozzecco alla vigilia di una partita importante come quella di Milano? «Da giocatore queste trasferte le programmavo anche per il dopo, pensando che se avessimo vinto avremmo poi fatto festa. Domani sera [tempo riferito all’intervista realizzata a fine Novembre, ndr] alle 20:40 ho l’aereo per Olbia, da dove prenderò poi la macchina per tornare a casa a Sassari. Lunedì io e Tania andiamo alle terme. Non è che se vinco mi cambia poi tanto: se dovessimo vincere l’unica cosa che non vedrei l’ora di fare sarà dare ai ragazzi la mia carta di credito, perché voglio che si divertano».

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