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Coach: Meo Sacchetti
22 nov 2018
Storia, visione, passione e orgoglio del coach della Vanoli Cremona e della Nazionale Italiana.
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«Nessuno ha creduto in me come allenatore di alto livello. Sia da giocatore che da coach, nessuno mi hai regalato niente». Romeo Sacchetti è indubbiamente una delle storie più belle della pallacanestro italiana degli ultimi dieci anni. O, volendo, dell’ultimo mezzo secolo.

Quella dell’attuale allenatore della Vanoli Cremona e della Nazionale Italiana è una storia che nasce da più lontano, precisamente da quel 20 agosto del 1953 in cui nacque ad Altamura, in un campo profughi dove si erano rifugiati i genitori, di origini bellunesi, tornati dalla Romania dove vivevano per non rinunciare alla cittadinanza italiana.

«Ho fatto la stessa trafila, da giocatore e da allenatore» dice Sacchetti quando lo incontriamo a margine di un allenamento della sua Vanoli, in preparazione alla partita con Sassari che segnerà la quarta vittoria stagionale nelle prime cinque gare. «Non mi hanno regalato niente: sono stato scartato da due allenatori importanti, che mi hanno dato “la molla” per andare avanti. Ho iniziato adagio adagio, come un giocatore che nessuno pensava che potesse arrivare. Ma ho avuto la fortuna di avere dei compagni di squadra all’inizio che non mi hanno mai trattato da bambino, aiutandomi a crescere».

«Quando hai fatto tutto questo, vuol dire che hai avuto una carriera dove forse solo il 10% in più o in meno poteva essere diverso. Non ho mai guardato al passato, anche se non ho mai vinto con una squadra di club. E come allenatore è stato uguale: ho fatto tutta la trafila, dal vice allenatore con le juniores fino alla Serie A. E se ora sono arrivato in Nazionale, l’ho fatto sempre senza presunzione».

La presunzione non è nemmeno contemplabile, perché la carriera di Sacchetti parla di un quarto di secolo sulle panchine di tutte le categorie e campionati, con il superamento delle aspettative come leit-motiv e la capacità continua di ripartire e reinventarsi, restando però sempre fedele al suo stile di gioco.

Dalla Juniores alla Serie A

La lunga rincorsa a traguardi come il Triplete del 2015 conquistato con Sassari o la panchina della Nazionale parte all’inizio degli anni ‘90. «Quando ho smesso di giocare mi è arrivata l’offerta di Caglieris per andare a Torino a fare il terzo allenatore» dice Sacchetti. Un nuovo inizio, in un luogo dove aveva già avuto successo come giocatore: 165 presenze in cinque stagioni in una Auxilium sempre da playoff e arrivata anche in semifinale Scudetto.

Ma cosa significa iniziare la propria carriera di allenatore da un posto dove si è stati, e bene, da giocatori? «È diverso. Sei il terzo allenatore, il vice degli juniores: cerchi di iniziare a fare il tuo ruolo, anche sbagliando all’inizio. È logico che mi conoscevano e pensavano che potessi avere le capacità per fare l’allenatore. Magari qualcun altro che non mi conosceva come persona non avrebbe potuto pensare che sarei potuto diventare un discreto allenatore. Iniziare da un posto dove ti conoscono può aiutarti, perché ti conoscono già per quello che sei».

Guardando il curriculum di Sacchetti, il tratto dominante che si riconosce è quello di aver conseguito risultati di alto livello in piazze che, prima del suo arrivo, non si distinguevano per una consolidata tradizione cestistica: «L’altra volta pensavo al fatto che non ho mai allenato una squadra potenzialmente forte. A Capo d’Orlando sono arrivato dopo aver vinto la Serie B con Castelletto; a Sassari sono arrivato in Serie A2 e abbiamo “costruito” la vittoria; a Brindisi e Cremona ogni risultato è stato costruito con il lavoro di tutti i giorni. Sono molto orgoglioso perché ovunque sono arrivato, ci sono arrivato con i miei piedi».

La gara-7 che sancisce il trionfo di Sassari, che vince il suo primo Scudetto e conquista uno storico Triplete italiano.

L’abitudine a lavorare nel basket di provincia, dove può esserci maggiore “urgenza” e esigenza di risultati, non ha snaturato Sacchetti e il suo modo di vedere la pallacanestro: «Adesso sono arrivato molto sereno: so che l’allenatore è legato ai risultati, perché per quanto tu possa fare bene la sconfitta è una parte importante. Sono passato anche io tramite esoneri più o meno giusti, ma quando arriva un esonero non bisogna mai guardarsi indietro: quello che fatto è fatto».

“Il mio basket è di chi lo gioca”

Quando parli con Meo Sacchetti, avverti immediatamente la sensazione di essere in presenza di un allenatore dalle idee di gioco ben precise e consolidate nel tempo, riversate in un libro dal titolo “Il mio basket è di chi lo gioca” edito da Add. È lui stesso a confermare come uno dei capisaldi della sua pallacanestro nasce sin dai tempi di Torino: «Un tratto comune del mio basket è quello di non aver mai avuto un vero centro titolare, di posizione, anche perché ai tempi erano dei giocatori che avevano un prezzo elevato. Non avendo mai allenato squadre che si potessero permettere budget elevati, ho valutato la situazione di conseguenza applicando a tutte le mie squadre un elemento comune come la corsa, pur riconoscendo che a difesa schierata, non avendo un giocatore di quel tipo, è più difficile rendere al meglio».

«Un altro aspetto» continua Sacchetti, «che mi nasce dall’esempio di Dido Guerrieri, è quello di giocare una pallacanestro piacevole anche per chi l’allena. È logico che si gioca per vincere, ma per me è importante fare un gioco che ti può piacere: ho sempre visto il basket come una sorta di atletica con il pallone, e mi piace vedere questa cosa nelle mie squadre. Naturalmente questo è un tipo di gioco che ti riesce meglio con gli interpreti giusti, che oltre al rendere piacevole il gioco riescono anche a portarti ai risultati. Ma vi sono situazioni che non sono facili da far comprendere non soltanto all’ambiente che ti circonda, ma anche ai giocatori stessi: a volte trovi giocatori che vogliono sapere ogni dettaglio di ogni azione di gioco, e non riescono a vedere che una buona situazione può arrivare in modi diversi, senza ricercare ossessivamente la perfezione».

«Un esempio che faccio spesso» afferma «è quello di Drake Diener. Un suo tiro in campo aperto, con spazio per tirare ma anche in un 3-contro-3 o addirittura 2-contro-3, per me è sempre un buon tiro. Perché è un giocatore che in allenamento, quando giochiamo, con spazio ne segna sempre 7 o 8 su 10. Se riesco a trasmettere queste cose ai giocatori, mi diverto io per primo».

Probabilmente la miglior partita di Drake Diener in Serie A, ovviamente con Sacchetti in panchina.

La pallacanestro di Sacchetti si fonda su principi stabili, ma nel corso degli anni si è mantenuta aperta a nuove introduzioni: «Sin dall’inizio sono sempre andato alla ricerca del playmaker» dice. «Prima di tutto lo reputo il ruolo più bello di tutti: se potessi tornare indietro giocherei da playmaker, è un ruolo che considero l’emanazione in campo dell’allenatore».

«È logico che questo tipo di gioco che cerco di fare in velocità viene facile con giocatori con una lettura efficace, invece di avere giocatori senza lettura, che corrono e si vanno a stampare contro un muro o vanno dentro per tirare contro tre o quattro avversari. Ci sono comunque cose migliorabili: penso che si debba lavorare di più sul passaggio “classico”, ad esempio c’è meno abilità sui passaggi a due mani a tutto campo».

«Ci sono però dei passaggi istintivi che un playmaker ha dentro: un po’ di fantasia a questi giocatori gliela devi concedere, e questa è una sfida». Nel tracciare la strada anche per la sua Cremona, protagonista del miglior inizio di stagione in Serie A nella sua storia, Sacchetti è molto chiaro anche nell’identificare le differenze rispetto allo scorso anno.

L’arrivo di Sacchetti a Cremona nell’estate 2017.

«Quest’anno dobbiamo riuscire a capire che, a parte due giocatori con un buon portamento di palla, dobbiamo essere una squadra operaia e sbruffona. Sembra un controsenso, ma non lo è: per operai intendo giocatori che stanno sempre sul pezzo, senza avere mai paura e riconoscendo come per arrivare in alto c’è bisogno di faticare molto».

«Nelle scorse stagioni ho avuto maggiore talento a mia disposizione, ma anche giocatori che pensavano di risolvere la partita da soli. Un esempio lampante è quello di Johnson-Odom: tantissime volte ho provato a convincerlo di passare la palla se raddoppiato, ma da solo ci ha fatto vincere 4 o 5 partite. A volte noi allenatori ci sentiamo un po’ fenomeni quando vediamo certi giocatori e pensiamo di cambiare la loro natura: la sfida, e anche un problema, è quella di esaltare sempre e al meglio le qualità di un giocatore, per quanto possa essere “lontano” da noi».

Una delle tante prove spettacolari di Johnson-Odom in maglia Vanoli.

È quindi facile da immaginare chi sono i giocatori prediletti da Sacchetti, e in che misura la sua Vanoli possa prendere ispirazione da questi: «Sono innamorato di giocatori come i due Diener, o Pozzecco e Teodosic» dice, «perché sono esempi di quei giocatori che arrivano a migliorare il tuo gioco».

C’è Sacchetti in panchina, il giorno dell’ultima partita in A di Gianmarco Pozzecco.

«Se devo identificare una pecca che oggi abbiamo come squadra, è quella di non avere tanto arresto e tiro, oltre a un gioco sotto canestro che ancora non riesce a sfruttare al meglio eventuali mismatch. Ma il difetto più grosso è quello relativo alla qualità del passaggio. Ci sono situazioni evidenti dove ti chiedi, da spettatore, perché non c’è un passaggio o un’apertura, spesso per scarsa abilità più che paura di un intercetto difensivo, ma è un qualcosa che noto molto anche in altre squadre».

«Quest’anno» conclude Sacchetti, «avendo una squadra dal minore talento ma capace di sbattersi maggiormente sui due lati del campo, sappiamo di avere giocatori in grado di sbucciarsi un po’ di più le ginocchia, cercando di sopperire al meglio all’assenza di un classico go-to-guy».

La vittoria più prestigiosa sin qui di Cremona: il successo in rimonta su Avellino.

Father and Son

Il nome del Sacchetti allenatore è spesso associato a un altro Sacchetti, sempre sul parquet. Il figlio Brian, infatti, ha condiviso tanti momenti importanti della sua carriera da giocatore: c’era il padre Romeo nel debutto da professionista a Castelletto Ticino, ma soprattutto c’era lui nella cavalcata a Sassari fino al titolo 2015 e nel debutto in Nazionale quasi un anno fa, a Zagabria contro la Croazia.

Il rapporto coach-giocatore tra Meo e Brian, però, nasce da prima di Castelletto Ticino: «Inizia quando lui faceva l’Under 13 a Pino Torinese. L’ho allenato nella prima parte della stagione, trattandolo peggio di tutti gli altri, perché dal proprio figlio ci si aspetta sempre di più. Dopo una partita, mia moglie venne a dirmi “Basta, te lo tolgo”, perché se mi arrabbiavo lo facevo sempre con lui».

«In seguito ho avuto la fortuna di avere lui, e il suo carattere solare e aperto, in alcune mie squadre, anche se tutti si lamentavano che lo facevo giocare sempre poco: sia a Castelletto che a Sassari. Forse era qualcosa di istintivo, per me: perché non volevo far pensare che lui giocava perché era il figlio dell’allenatore».

Il career high di Sacchetti in maglia Sassari.

«Per lui è stato un ruolo difficile» continua Sacchetti, «perché quando hai un figlio in uno spogliatoio, hai paura che possa essere visto dagli altri come una “spia”, come qualcuno che riporta gli umori dello spogliatoio stesso e del gruppo. In realtà lui non ha mai fatto una cosa del genere, e tutti i suoi compagni se ne accorgevano immediatamente».

«Soltanto una volta è venuto a dirmi qualcosa» ammette, «dicendomi “Perché non fai giocare lui più di me?”, riferendosi a un suo compagno. Io rimasi sbalordito, tant’è che lui continuò dicendomi “Lui merita più di me, è più bravo. Io posso giocare dopo”, al che io gli risposi “Pensa a fare il tuo lavoro, di allenatori ce ne sono già tanti”».

Azzurro vivo

Se è vero che nel corso della sua grande carriera da allenatore Meo Sacchetti non ha mai allenato un top team, è altrettanto vero che i riconoscimenti, per il nativo di Altamura, non sono mancati. Nominato allenatore dell’anno nel 2011-12, stagione della prima serie playoff vinta con Sassari, l’apice della carriera di Sacchetti arriva l’1 agosto 2017, quando viene chiamato alla guida della Nazionale Italiana, posizione assunta definitivamente dopo l’Europeo 2017 che ha segnato la fine del ciclo di Ettore Messina.

A Sacchetti è stato quindi dato il compito di riportare l’Italia al Mondiale 2019, a cui manca dal 2006 (e l’ultima qualificazione sul campo risale addirittura al 1998), condizione tra l’altro essenziale per poter tenere vivo il sogno Tokyo 2020. Il coach di Cremona entra anche a far parte di quella tradizione di ex giocatori azzurri diventati poi CT, ma può già vantare un record: è il primo facente parte di una squadra campione d’Europa ad arrivare poi sulla panchina dell’Italia.

35 anni fa, ma come se fosse ieri.

«Per tutti gli allenatori arrivare in Nazionale è il top. Quando uno c’è stato anche da giocatore, mi sembra possa sentire un quid diverso: hai già sentito la pressione e l’onore della maglia azzurra, forse puoi riuscire a trasmettere qualcosa di diverso. Ma ci sono tanti allenatori che non ci hanno mai giocato e hanno fatto un ottimo lavoro: non è un 2+2=4, il punto è riuscire a capire ed esprimere al meglio ciò che fai».

La nomina di Sacchetti, con il contemporaneo debutto delle finestre per le qualificazioni ai Mondiali durante la stagione, ha comportato il ritorno della questione sul doppio impegno del CT con una squadra di club: «Sarà perché l’anno scorso abbiamo finito bene con Cremona e siamo partiti con 4 vittorie consecutive in campionato, ed è una cosa che è rimasta impressa, ma il doppio impegno per me è un dare/avere che ti porta qualcosa in più da tutte le parti».

Con i successi su Polonia e Ungheria a settembre l’Italbasket ha avvicinato sensibilmente l’obiettivo Mondiale.

«Non c’è solo la Nazionale, ma anche il club: e con le finestre puoi sicuramente fare tutto benissimo, perché è anche uno stimolo. Ad esempio quando giochi contro un’avversaria in campionato e trovi dall’altra parte giocatori che giocano al massimo pensando “Adesso gliela faccio vedere”, perché vogliono che li convochi».

«È bello dare queste motivazioni, e non solo per la mia squadra che sicuramente gioca sempre contro avversari motivati. È bello perché mi testimonia, continuamente, che un giocatore vuole ambire a giocare per la Nazionale».

Love of the game

La voglia di vedere, nei suoi giocatori, attaccamento alla maglia - che sia quella di Cremona o quella della Nazionale - è perfettamente comprensibile, una volta che si ha la percezione di quanto il basket significhi per la vita di Romeo Sacchetti. Tanto che il suo atteggiamento verso lo sport che a segnato la sua vita, a 65 anni è definibile come abbastanza “zen”.

«Non ho mai guardato al passato nella mia vita, nonostante, ad esempio, non abbia mai vinto da giocatore con i club. E lo stesso vale per la mia carriera da allenatore: ho allenato in tutte le categorie e oggi sono molto sereno. So bene che un allenatore è legato ai risultati, perché per quanto tu possa far bene la sconfitta è una parte importante del giudizio sul tuo lavoro: anche io sono passato attraverso esoneri più o meno giusti. Quando però l’esonero arriva, non bisogna mai guardarsi indietro: quello che è fatto è fatto».

«Di tutti gli aspetti tengo sempre le cose buone, e elimino sempre quelle cattive. Ovunque, anche nei posti dove sono stato esonerato ed è finita peggio che altrove. Non ho rimpianti e sono davvero molto sereno, tanto da non avere più paura di niente».

Continuando la conversazione, e guardando indietro alla passione per il gioco che da sempre contraddistingue la vita di Meo da Altamura, riemerge quel “record” citato in precedenza, dell’essere l’unico dei 12 azzurri di Nantes 1983 ad essere oggi allenatore. Sacchetti non sa se questo è un caso: «A me la pallacanestro piace da sempre. A Varese andavo a vedere i juniores che giocavano con me, li andavo a vedere contro Milano o Cantù, li ho seguiti a Trieste l’anno che vinse Ettore Messina [con Mestre, ndr] da allenatore juniores».

«Mi è sempre piaciuta la pallacanestro, e non l’ho mai vista sempre e solo come un lavoro» continua. «Questa per me è una cosa fondamentale. Una volta, ad esempio, mi facevo mandare i VHS delle partite dall’America in abbonamento. Potevi scegliere una squadra e ti mandavano la partita della settimana, con spezzoni di altre partite: queste cassette le guardavo continuamente».

Cercare di trasmettere questa passione per il gioco è un principio fondamentale del basket di Sacchetti: «Ho avuto dei giocatori che per crescere continuamente di livello pensavano ad allenarsi anche prima e dopo l’allenamento standard, a lavorare sui dettagli con i vice allenatori. Come allenatore mi piace molto quando è il giocatore a chiedere di poter andare in palestra a tirare. Mi piace molto anche perché lì capisci chi è oltre. L’ho visto fare a giocatori emergenti come a professionisti di alto livello; al contrario, giocatori che devono ancora dimostrare tutto a volte non hanno questo passaggio, e dispiace vedere mancare la molla che spinge a mettersi in gioco».

«Il problema è questo: se iniziamo a fare vedere soltanto che la pallacanestro è un lavoro, senza mostrare la parte ludica, non si migliora». Sacchetti poi insiste: «Andiamo in giro in albergo, stiamo bene, siamo pagati: non posso vedere chi ha la mentalità di vivere qualcosa che “gli pesa”. Può essere occasionale dopo un allenamento o una partita venuta male, ma sembra che ogni tanto la gente che arriva a fare allenamento lo fa come se si stesse preparando a una purga».

«Questo mi dà fastidio» conclude Sacchetti alla fine della nostra chiacchierata, enfatizzando il concetto. «Finché hai un giocatore di questo tipo in squadra, gli altri nove ti aiutano a cambiarlo. Ma già quando ne hai uno in più, questi iniziano a influenzare negativamente gli altri compagni: perché se sei da solo, non puoi fare combutta».

Oggi Sacchetti si appresta a vivere una tornata di qualificazione Mondiale importantissima, visto che i match con Lituania e Polonia potrebbero permettere all’Italbasket di staccare il biglietto per il Mondiale della prossima estate. Anche il campionato con Cremona sin qui sta andando molto bene: la sconfitta nello scorso weekend con Varese ha fermato una striscia di cinque vittorie nelle prime sei gare, miglior partenza di sempre nella storia in Serie A della società.

A 65 anni Romeo Sacchetti, dopo una carriera ricca di soddisfazioni e successi, probabilmente non ha nulla da dimostrare. Ma il suo entusiasmo e amore per il gioco dimostrano benissimo perché il nativo di Altamura è una delle storie più interessanti del basket italiano degli ultimi decenni.

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