Alcuni giorni fa abbiamo visto come il ciclo vincente della Juventus sia stato costruito prima di tutto fuori dal campo, progettando una crescita continua dei ricavi e sostenibile delle spese. Un percorso che ha riportato i bianconeri dalla stagione della B, e da due settimi posti consecutivi, a quattro scudetti consecutivi e a giocarsi la finale di Champions League con il Barcellona. Nello stesso articolo erano stati messi in evidenza anche i limiti della gestione economica di Milan e Inter, scelte come termine di paragone perché sono le due squadre in Italia che per blasone, potenzialità del brand e numero di tifosi avevano tutti i mezzi per compiere un cammino simile a quello della Juventus. Per un motivo o per l’altro le milanesi non l’hanno fatto.
Oggi torno sull’argomento per dare uno sguardo più ampio alla gestione economica delle squadre italiane, allargando l’analisi ad altri tre club: Roma, Lazio e Napoli. Prima di valutare le scelte societarie di ciascuna è importante sottolineare come il confronto con le milanesi e la Juventus parta per loro da una situazione di netto svantaggio. Se si escludono le plusvalenze, i ricavi di giallorossi e partenopei si attestano fra i 120 e 150 milioni l’anno di media, contro gli oltre 300 della Juventus e gli oltre 200 che il Milan riesce regolarmente a portare a casa anche in stagioni di magra sul piano sportivo. La stessa Inter ha toccato nel bilancio 2013/14 un punto di minimo di 155 milioni, ma come abbiamo sottolineato la volta scorsa questo valore è ben lontano da quello che una società come l’Inter potrebbe ottenere ottimizzando la gestione e ricostruendo una squadra importante. Ancor di più il discorso della distanza dai top team vale per la Lazio, che attualmente può sperare di superare i 100 milioni di ricavi escluse plusvalenze solo in stagioni particolarmente positive in campo europeo.
Queste differenze però non impediscono di trarre importanti insegnamenti dagli approcci economici delle tre squadre, a maggior ragione poiché tutte e tre in questi ultimi anni hanno ottenuto spesso risultati migliori delle più ricche milanesi. Come ci sono riuscite? Attraverso progetti ben definiti, che si pongono come obiettivo quello di diminuire sul campo il gap fisiologico a livello di ricavi con le tre grandi squadre del nord.
Roma, Lazio e Napoli rappresentano casi interessanti perché stanno portando avanti tre modelli diversi di sviluppo societario. Ci permettono quindi di sviscerare punti forti e punti deboli di tre approcci simili, ma non uguali, al problema “fare una società di calcio competitiva nel calcio moderno con meno fondi dei propri principali competitor”. Come vedremo fra poco nel dettaglio, la Roma—da quando è diventata “americana”—ha scelto una strategia aggressiva che punta innanzitutto ai risultati, affidando a questi il ruolo di traino per far crescere i ricavi. Il Napoli ha invece portato avanti un’idea un po’ meno propensa al rischio a livello economico, cercando prima di tutto l’aumento dei ricavi e reinvestendoli poi nella crescita della squadra senza fare mai il passo più lungo della gamba. La Lazio, avendo più limitazioni oggettive dal punto di vista della crescita dei ricavi a causa di un bacino d’utenza minore, ha come obiettivo primario quello di autofinanziarsi. Per quanto riguarda i risultati sul campo ha puntato almeno fino ad ora più sull’abilità di scegliere giocatori giusti a un prezzo sostenibile, cercando di ottenere buoni piazzamenti, piuttosto che porsi l’obiettivo scudetto, fortemente voluto dalle altre due squadre.
Come abbiamo fatto per la Juventus e le due milanesi, propongo in questo articolo una tabella semplificata di dati estrapolati dai bilanci delle tre squadre. Questi dati non danno una visione globale di tutti gli aspetti economici e finanziari che deve affrontare una società, ma riescono comunque a far emergere il modus operandi delle tre dirigenze. Procediamo in rigoroso ordine di classifica dell’ultimo campionato di Serie A e cominciamo questo viaggio nei conti societari dai vicecampioni d’Italia.
Roma
Come tutti sapete, la Roma sta uscendo faticosamente (ma anche brillantemente, visti i risultati sul campo) da un periodo particolarmente complicato della sua storia. Dopo la morte del presidente Sensi, la spirale negativa che ha colpito l’azienda della famiglia (l’Italpetroli, già in crisi da qualche anno) proprio nel mezzo di due annate particolarmente difficili anche nei conti societari della Roma (deficit di -22 nel 2009/10 e, -31 nel 2010/11) ha costretto la nuova presidente Rosella Sensi, figlia di Franco, a cedere la squadra alla banca Unicredit a una cifra nettamente inferiore al valore che aveva solo alcuni anni prima. A prova di ciò, le offerte sostanziose per l’acquisto della società arrivate nelle stagioni precedenti, rispedite al mittente perché non c’era intenzione a vendere. C’erano, anzi, importanti piani di rilancio, almeno sulla carta. Proprio in quel periodo si era iniziato a parlare in maniera esplicita, anche nei documenti ufficiali, dell’ipotesi stadio di proprietà. Unicredit ha poi ceduto il 60% delle quote nell’aprile 2011 a una cordata di quattro imprenditori statunitensi: Thomas DiBenedetto (che ha assunto la carica di presidente), James Pallotta (subentrato come presidente nell’agosto del 2012), Michael Ruane e Richard D’Amore. Sotto la sua gestione, Pallotta ha poi provveduto all’acquisto anche della restante quota di proprietà di Unicredit ad agosto dello scorso anno.
Inquadrata la situazione della Roma dal punto di vista storico, vediamo allora come si è comportata la dirigenza americana dal momento dell’insediamento, partendo dai dati degli ultimi cinque bilanci resi noti:
La prima stagione interamente americana (2011/12) è stata particolarmente difficoltosa, come quasi sempre capita quando subentra una nuova gestione. Una serie di fattori hanno portato a un notevole peggioramento dei conti, facendo aumentare il deficit annuale da 31 a 58 milioni:
1. La partecipazione all’Europa League invece che alla Champions League, disputata l’anno prima.
2. L’impossibilità di intervenire in poco tempo in maniera importante sull’aumento dei ricavi e la riduzione dei costi.
3. La volontà della dirigenza di rilanciare comunque il progetto tecnico con l’acquisto di diversi giocatori con prezzo di cartellino superiore ai 10 milioni (Lamela, Pjanic, Bojan, Borriello e Osvaldo) a fronte di due sole cessioni discretamente remunerative come quelle di Vucinic e Ménez.
La necessità di mostrare la voglia di riportare in alto la squadra ha portato anche ad alcune scelte azzardate, come il rinnovo del contratto di De Rossi a cifre altissime per la media degli ingaggi in Serie A (6,5 milioni netti, di gran lunga il giocatore più pagato del campionato).
Semina
Dopo aver concluso il campionato 2011/12 con un deludente settimo posto, che ha comportato l’esclusione dalle coppe, è a posteriori evidente come la società abbia deciso di preoccuparsi relativamente dell’eventuale rischio di sanzioni UEFA per violazioni del Fair Play Finanziario. Ha quindi adottato, come dicevamo prima, una tattica molto aggressiva: non cercare nemmeno di raggiungere il pareggio di bilancio, ben sapendo che quella strada sarebbe stata una quasi sicura condanna a posizioni di rincalzo in campionato per diversi anni, ma attuare comunque politiche di riduzione dei costi (iniziando a ottimizzare alcune inefficienze nel monte ammortamenti e in quello ingaggi) e aumento dei ricavi, in modo da non peggiorare ulteriormente la situazione. Questo accompagnato dalla ricerca di plusvalenze che finanzino le campagne acquisti per ritrovare il più velocemente possibile competitività in campionato. Lo scopo finale è quello di utilizzare poi le eventuali entrate dovute a una qualificazione in Champions League per raggiungere anche l’equilibrio economico.
Tornando ai giallorossi, va purtroppo messo in conto che non tutte le ciambelle riescano col buco. Soprattutto nel mondo del calcio, oggi come mai prima strettamente legato ai risultati sul campo anche dal punto di vista economico (basti pensare che una Champions ben giocata può aumentare i ricavi, escluse plusvalenze, di un club come la Roma di una cifra vicina al 50%…). Il 2012/13 si chiude con la Roma sesta, ancora fuori dalle coppe per la stagione successiva e con un passivo di bilancio di 40 milioni di euro.
Eppure con Zeman non tutto era da buttare.
Fioritura
I semi gettati nei primi due anni germogliano oltre ogni più rosea previsione nel 2013/14. L’estate del 2013 è quella del capolavoro del direttore sportivo Walter Sabatini, che riesce a vendere quattro acquisti fatti nei primi due anni “americani” (Marquinhos, comprato a 6 e rivenduto a 31, Lamela, comprato a 12 e venduto a 30, Bojan e Bradley), portando a casa elevatissime plusvalenze, che gli permettono di investire il ricavato sul mercato portando a casa quei giocatori che contribuiscono all’innegabile salto di qualità della squadra (Benatia, Maicon, Gervinho, Strootman, Nainggolan, Ljajic), che riesce a rimanere in scia della Juventus del record di 102 punti quasi fino alla fine del campionato e chiude con un meritatissimo secondo posto. Il 2013/14 si chiude con un altro passivo di –38, ma con la certezza di andare a colmare il buco di bilancio l’anno successivo grazie alla partecipazione alla Champions League.
Proprio in virtù della crescita economica evidente della Roma nell’ultimo periodo e dell’aumento dei ricavi, la UEFA ha sì punito la Roma per violazione della regola del break-even del Fair Play Finanziario (ovvero il passivo totale di bilancio al netto dei costi virtuosi, che nel triennio 2011/14 non doveva essere maggiore di 45 milioni), ma riconoscendo il cammino positivo della squadra verso il risanamento economico non ha calcato troppo le mani sulla punizione, richiedendo ai giallorossi un graduale rientro nei parametri. La UEFA ha fissato contestualmente un break-even massimo di 30 milioni per il biennio 2014/16. Obiettivo che la Roma dovrebbe raggiungere piuttosto serenamente grazie alla nuova qualificazione alla Champions League e al proseguimento della strategia di mercato basata su plusvalenze e reinvestimenti di esse, in attesa del nuovo stadio, che dovrebbe aiutare la società di Pallotta a crescere ulteriormente nei ricavi in un futuro ormai non così lontano.
Proprio sulle plusvalenze poggia però il principale punto critico della strategia giallorossa. Fare e disfare la squadra ogni anno (o, nel migliore dei casi, andando a sostituire poche pedine, ma importanti nello scacchiere) comporta dei rischi: se da una parte si può essere bravissimi a valorizzare i propri giocatori e fare plusvalenze, cosa che Sabatini ha dimostrato di saper fare molto bene anche quest’anno con la cessione di Benatia; dall’altra un turnover così importante nei ruoli cardine della squadra può portare a un brusco calo del rendimento sul campo, se in un mercato si fanno scelte particolarmente infelici in merito ai nuovi acquisti (basti pensare ai soldi spesi per Doumbia e in generale per il deludente mercato di gennaio 2015, oppure all’investimento su Iturbe, che al momento non ha reso per quanto è costato). D’altra parte—fra le squadre che si devono inventare qualcosa per contrastare i maggiori ricavi di Juventus, Inter e Milan—la strategia della Roma di Pallotta è quella che, nonostante qualche errore di troppo nell’ultimo mercato e qualche problema con il Financial Fair Play, ha dimostrato di poter ottenere i risultati migliori.
Lazio
Il presidente Lotito ha un difficile rapporto con parte della tifoseria laziale, che lo accusa di non spendere quello che dovrebbe per rafforzare la squadra. Alla luce dei bilanci, di sicuro quella di Lotito è una gestione più che virtuosa delle casse societarie: nelle ultime dieci stagioni il bilancio della Lazio ha quasi sempre chiuso in attivo, a eccezione del 2009/10 e del 2012/13, quando i passivi sono stati rispettivamente di 2 e di 6 milioni, a fronte però di attivi complessivamente maggiori nelle annate precedenti e successive. È vero che il presidente, anche per sua stessa ammissione, non ha intenzione di esagerare con gli investimenti e di intaccare il proprio patrimonio personale per la causa della Lazio; ma è anche vero che come gestore sta ottenendo ottimi risultati e i biancocelesti sono fra le società con i bilanci più sani di tutta la Serie A. Vediamo a questo proposito la tabella dei bilanci degli ultimi cinque anni:
Nei cinque anni considerati la Lazio ha partecipato per quattro volte all’Europa League, raggiungendo i quarti di finale nella stagione 2012/13, l’unica che, grazie a questo exploit e alla vittoria della Coppa Italia, ha permesso ai ricavi, escluse plusvalenze, di superare la fatidica soglia dei 100 milioni annui. Paragonando la prima e l’ultima annata della tabella notiamo che la Lazio non ha aumentato in maniera rilevante il suo volume di ricavi, che rimane ancora legato in maniera notevole alla qualificazione nelle coppe. Una situazione del genere porta come conseguenza l’impossibilità di spingere troppo l’acceleratore sugli investimenti su nuovi giocatori, perché l’eventuale combinazione “elevate spese – pessimi risultati” comporterebbe ricadute negative su più bilanci successivi, non essendo facilmente ammortizzabile con aumenti di ricavi in prospettiva.
L’aumento dei costi totali—che hanno comunque subito un’inversione di tendenza positiva nel 2013/14 con l’abbassamento del monte ammortamenti e del monte ingaggi—è stato per il momento compensato dal ricorso alle plusvalenze, seppur in maniera molto meno evidente rispetto a quanto fatto dalla Roma. I giallorossi fanno ricorso volontario a forti plusvalenze anche per finanziare il mercato, forti dell’ambizioso piano della dirigenza americana, che non ha problemi a rischiare passivi di bilancio, la Lazio invece se vuole mantenere l’equilibrio economico raggiunto nell’era Lotito deve utilizzare le plusvalenze quasi esclusivamente per evitare deficit, rinunciando a trasformare una parte consistente di queste in “volano” per nuovi investimenti sulla squadra che poi rischierebbero di alzare troppo i costi societari senza un adeguato paracadute.
Paradossalmente quindi è proprio l’invidiabile equilibrio economico, ammesso che questo sia un difetto, il fattore oggettivo che maggiormente limita le possibilità della Lazio di tornare stabilmente ai vertici del campionato. Perciò il giudizio sull’operato di Lotito dipende tutto dal punto di vista dal quale lo si guarda: se è da quello economico la società è promossa a pieni voti, grazie ai bilanci in ordine e a risultati sportivi che spesso sono stati superiori al potenziale economico messo in campo rispetto alle altre squadre. Se invece si guarda il tutto dall’ottica del tifoso, che del lato finanziario è interessato molto relativamente e vorrebbe maggiori investimenti sulla propria squadra del cuore, è evidente che la politica “realista” e avversa al rischio d’impresa non può lasciare del tutto soddisfatti.
Quella conclusa è stata una stagione da ricordare per la Lazio.
Napoli
Gli ultimi dieci anni del Napoli sono in qualche modo paragonabili a quelli della Juventus. Dopo il fallimento del 2004 la squadra è stata rilevata da Aurelio De Laurentiis, che l’ha portata in un decennio dalla Serie C1 a lottare stabilmente per un posto in Champions League e a essere la seconda squadra italiana nel ranking UEFA dopo i bianconeri. La strategia messa in campo da ADL è molto chiara: il primo obiettivo è quello di far tornare i conti a bilancio, come la Lazio, ma la potenzialità del brand Napoli permette maggiori ricavi rispetto ai biancocelesti e quindi di lottare stabilmente per obiettivi più ambiziosi, come la Roma. I partenopei si piazzano quindi in un’ideale via di mezzo fra le due impostazioni, per la gioia delle casse societarie, sempre in attivo negli ultimi nove anni (il passivo, come vedremo, arriverà però nella stagione 2014/15), ma anche causando qualche mal di pancia di troppo ai tifosi, che vorrebbero un’esposizione finanziaria maggiore da parte del presidente. La tabella relativa ai bilanci del Napoli degli ultimi cinque anni è la seguente:
Non serve un gran colpo d’occhio per individuare i due anni in cui il Napoli ha partecipato alla fase a gironi di Champions League: i ricavi, al netto delle plusvalenze, del 2011/12 e del 2013/14 si posizionano su un livello nettamente superiore rispetto alle altre stagioni, ma allo stesso tempo dimostrano in maniera lampante come il crollo di introiti nelle stagioni senza la Champions costringano il presidente De Laurentiis a un atteggiamento guardingo e poco propenso al rischio, una volta dato per assodato che non ha alcuna intenzione di chiudere bilanci pluriennali con perdite di 40 milioni o più, come è capitato alla Roma negli ultimi anni. Non a caso ADL è anche uno dei principali sostenitori del Fair Play Finanziario, ai cui dettami il bilancio del Napoli si adatta in maniera apprezzabile.
Come si può vedere dalla tabella, nelle ultime due stagioni considerate i partenopei hanno fatto ricorso anche a elevate plusvalenze (notevole quella per Lavezzi nel 2012/13, “monstre” quella per Cavani nel 2013/14), le quali, soprattutto nell’ultima annata presa in esame, sono state in parte riversate anche sugli acquisti (ricordiamo l’arrivo di Higuaín, Callejón e Albiol dal Real Madrid nell’ambito di una campagna acquisti fatta da numerosi altri giocatori prelevati con costi fra i 5 e i 10 milioni di euro). Una pratica, quella delle plusvalenze, che alla società sembra però non piacere molto e che non viene cavalcata con passione come fa la Roma: sia la cessione di Lavezzi che quella di Cavani sono state quasi subìte dal presidente, che anche nel corso di questa campagna acquisti sta opponendo resistenza a un’eventuale addio di Higuaín, anche nell’ipotesi di offerte molto elevate. La cosa è abbastanza curiosa, se si pensa che il Napoli è l’unica società italiana che a bilancio pratica gli ammortamenti decrescenti a differenza di tutte le altre squadre di Serie A, che calcolano gli ammortamenti a quote costanti. Ciò significa che il Napoli inserisce un ammortamento più elevato nel primo anno di contratto di un giocatore, per poi diminuire proporzionalmente il suo ammortamento residuo a bilancio anno dopo anno. Una pratica che in teoria favorirebbe proprio le plusvalenze, andando però a penalizzare sul bilancio dell’anno d’acquisto elevati esborsi per i cartellini dei giocatori.
Dicevamo che, approfittando della “superplusvalenza” incassata per Cavani, ADL si è assunto qualche rischio in più degli anni precedenti nella campagna acquisti in entrata 2013, aumentando in una sola stagione il monte ingaggi di 22 milioni e il monte ammortamenti di 24. La “Potenza di Fuoco” (monte ingaggi + monte ammortamenti) ha così raggiunto valori difficilmente sostenibili per una società come il Napoli in caso di mancata partecipazione alla Champions League, ma probabilmente la dirigenza si era convinta che, con Benítez alla guida e la dispendiosa campagna acquisti portata a termine grazie ai soldi della cessione di Cavani, qualificarsi per la coppa principale fosse una passeggiata o quasi. Purtroppo per il Napoli non è andata così: l’anno scorso terzo posto in campionato e inaspettata eliminazione nei preliminari contro l’Athletic Bilbao, quest’anno addirittura quinto posto in Serie A, con la sconfitta all’ultima giornata contro la Lazio che ha tolto ogni sogno di gloria europeo anche per il 2015/16.
Un finale in linea con una stagione nata male.
Quali saranno le conseguenze di aver mancato l’obiettivo due volte consecutive? Il primo già lo sappiamo per bocca dello stesso De Laurentiis: il Napoli chiuderà il bilancio 2014/15 con un passivo di circa 20 milioni per la prima volta dalla sua rinascita. Passivo che rischia di essere sullo stesso livello anche nella prossima stagione, date le premesse, e che lascia capire come mai all’inizio di questa campagna trasferimenti parrebbe che i partenopei vogliano abbandonare gli acquisti con una certa esperienza europea, ma costosi, puntando invece su italiani o comunque giocatori che si sono messi in mostra nel nostro campionato. Se la strategia che il presidente ha portato avanti in questi anni non è cambiata, il primo obiettivo per lui ora è quello di riportare il Napoli al pareggio di bilancio anche negli anni senza Champions League e senza far troppo conto sulle singole plusvalenze. Anche perché due bilanci consecutivi a –20 sarebbero ancora accettabili in ottica Fair Play Finanziario, ma un ipotetico terzo anno con passivo simile farebbe rischiare al Napoli un richiamo o addirittura una sanzione da parte dell’Uefa…
Proprio il cammino del Napoli in questi due anni dimostra in maniera evidente quanto sia difficile per una società con fatturato notevolmente inferiore competere con le grandi con continuità: bastano un paio di stagioni storte per far riemergere quel gap con le grandi del nord che a livello economico c’è di default ed è impossibile annullare nel breve periodo senza una base numerica di tifosi che permetta di competere ad armi pari sul fronte dei ricavi o senza approfittare degli errori altrui. Alla luce di quanto emerge dallo sguardo che abbiamo dato ai bilanci in questi due articoli, non sorprende affatto che da quattordici anni vincano lo scudetto solo ed esclusivamente le tre squadre con fatturato più elevato…