Lo Shoot Stadium è pieno in ogni ordine di posti. Con la sua caratteristica forma a fiore, che spicca nelle inquadrature dall'alto, è un gioiello di architettura e tecnologia, vanto della regione di Galar, ma l'evento davvero importante sta accadendo al suo interno, in quel rettangolo in terra battuta delimitato da poche, semplici linee bianche. Il Masters Tournament, i Campionati del Mondo Pokémon, sono giunti all'epilogo, a una finale il cui esito non sembra in discussione, a giudicare dai pronostici della vigilia. Da un lato il campione in carica e prima testa di serie del tabellone, il beniamino di casa, l'imbattuto Leon che si presenta in campo con look e fisico da atleta: pantaloni sportivi, scaldamuscoli, divisa ispirata al baseball con tanto di numero 1 sulla maglia, sguardo magnetico e atteggiamento spavaldo, un Cristiano Ronaldo del mondo Pokémon che si concede anche uno sfoggio di superbia, uscendo dagli spogliatoi con il caratteristico mantello da re sulle spalle. Dall'altro Ash Ketchum, da Biancavilla, pantaloncini da scout, cappellino e maglietta, eterno perdente che, nonostante il talento, non ha mai portato a termine la rincorsa ai titoli che contano. Eppure, perché il pubblico di Galar tifa per lo sfavorito, inneggiando ad Ash Ketchum fin dal lancio della prima poké ball?
In parte ha a che vedere con il fascino dell'underdog, quello che spinge i tifosi a immedesimarsi. Ash Ketchum affronta le fasi finali di un campionato del mondo proprio come un allenatore alle prime armi affronterebbe una lotta nella palestra sotto casa. È il suo stile, umile e genuino, non saprebbe fare diversamente, ed è per questo che il pubblico si è affezionato a lui, sconfitta dopo sconfitta. Ma il vento sta cambiando, perché Ash Ketchum non è finito lì per caso. Qualcosa sembra essersi sbloccato, nella sua venticinquennale carriera finora priva di soddisfazioni. Nel giro di poco tempo Ash ha infilato due vittorie di prestigio, prima la Orange League e poi la Alola League, con il conseguente titolo di campione regionale che gli è valso la qualificazione ai Mondiali. Sbarcato a Galar, si è fatto strada nel tabellone con vittorie di prestigio, superando allenatori di fama globale e sue autentiche nemesi come Steven Stone e Cynthia. E adesso si è guadagnato persino il prezioso rispetto di Leon, che lo affronta da pari a pari e gli concede persino una deroga dal regolamento: Ash potrà impiegare tre tecniche speciali anziché una sola (gigamax, mosse z, megaevoluzione) perché vuole vederlo all'opera con il suo pieno potenziale.
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Un gioco di squadra
Agli occhi di esperti e semplici appassionati, la finale tra Leon e Ash Ketchum si afferma subito tra le sfide più emozionanti mai viste in un torneo, forse la migliore di sempre. È uno scontro di stili, di filosofie. Leon ha una preparazione agli incontri da perfezionista: studia ogni caratteristica e tendenza dell'avversario e vi si adatta, nascondendo le proprie carte per sorprenderlo, imitandone e annullandone le mosse migliori. Ash Ketchum ha un approccio più istintivo: ha sempre dato ascolto al cuore prima che al cervello, nel bene e nel male. I suoi successi si fondano sull'improvvisazione, su strategie alternative che ha sviluppato nei suoi lunghi viaggi intorno al mondo, costellati da sfide tutt'altro che canoniche: è un fantasista, un campione cresciuto sulla strada più che negli stadi.
Sulle prime, l'entusiasmo di Ash ha la meglio sul più metodico rivale. Il regolamento prevede che gli allenatori possano schierare alternativamente i sei pokémon delle rispettive squadre, uno per volta, fino ad aver messo fuori combattimento l'intera squadra avversaria. Ash Ketchum passa in vantaggio per 3-2 grazie a colpi di genio che altri allenatori non avrebbero nemmeno saputo immaginare: la sua Dragonite, ad esempio, supera il Dragapult di Leon con un tuffo dal cielo di sua invenzione, Sirfetch'd cavalca il proprio scudo a mezz'aria come uno skater, mentre impugna il classico gambo di porro come spada, e Gengar gioca immediatamente la carta del gigamax, crescendo di dimensioni e terrorizzando l'intero stadio. Le telecamere si muovono sugli spalti a inquadrare le reazioni estasiate della crew di Ash, e c'è pure tempo di pizzicare tre vecchie conoscenze in incognito: sono Jesse, James e Meowth del Team Rocket, un tempo arcirivali di Ash e oggi suoi sostenitori. La regia indugia anche su immagini provenienti dal villaggio natale di Ash Ketchum, Biancavilla, dove il suo primo mentore, il professor Oak segue l'incontro con palpabile emozione, per poi passare ad altri compagni d'avventura storici, come Misty e Brock, tutti incollati allo schermo con aria orgogliosa.
La favola di Cinderella, però, è ancora lontana dal realizzarsi. Ash Ketchum ha già giocato le sue carte migliori e tutti i suoi sei pokémon hanno subito danni. Leon, invece, ne ha tre ancora freschi, i migliori, e ha lentamente irretito il rivale dettando i ritmi dello scontro, come un Novak Djokovic che supera l'avversario alla distanza sul campo da tennis.
«Sei il rivale migliore che abbia mai affrontato!» dice Leon ad Ash in uno scambio catturato dai microfoni. «Ma ricorda: la lotta è un gioco di squadra, e tutti e sei i pokémon contano allo stesso modo!».
L'inerzia della sfida cambia in fretta, e si arriva al duello decisivo con la bilancia che pende nettamente dal lato di Leon. Ha appena schierato il suo Charizard, un pokémon di tipo fuoco con aspetto e dimensioni di un drago, mentre ad Ash resta solo il fedelissimo Pikachu, potente con i suoi attacchi elettrici, ma ormai stanco e di stazza ben inferiore all'avversario.
Eppure, stavolta Ash Ketchum non si perde d'animo. Accoglie ogni ostacolo con il sorriso, si complimenta con tutti i suoi pokémon sconfitti quando li ritira nella poké ball, e si gode la battaglia senza timori, senza quella paura di perdere che tante volte, in passato, lo aveva fermato sul più bello. Cos'è cambiato? Per capirlo, facciamo un passo indietro.
Twentyfive years in the Making
Sono passati venticinque anni, e oltre mille episodi, dal primo aprile 1997, giorno in cui Ash Ketchum ricevette dal professor Oak il suo primo pokémon, quello stesso Pikachu che resta il suo ultimo baluardo sul terreno dello Shoot Stadium, e partì per il viaggio di una vita con l'intenzione di diventare il miglior allenatore di pokémon al mondo. Aveva dieci anni, all'epoca, e nel mondo dei Pokémon la sua età è rimasta sempre quella. Nel frattempo ha vissuto mille avventure, ha conosciuto tanti amici e altrettanti pokémon, molte gioie ma anche sconfitte e delusioni. La sua carriera iniziò con l'incapacità di superare Gary Oak, nipote del professor Oak, un rivale spocchioso che diventò una vera ossessione. Indeciso e turbato, Ash faticava a sviluppare un rapporto di fiducia con i suoi pokémon: Pikachu non ha mai accettato di entrare nella poké ball o di evolversi in Raichu, mentre Charizard, evolutosi al contrario troppo presto, ha spesso lasciato a piedi il suo allenatore nei momenti più importanti. I fan di tutto il mondo ricordano ancora, con sgomento, le fasi finali della Indigo League in cui il Charizard di Ash, impegnato in duello con l'amico Richie, si rifiutò di combattere schiacciando addirittura un pisolino in mezzo al campo. Fu un trauma che segnò a lungo la carriera di Ash, da quel giorno piuttosto timido nel far evolvere i propri pokémon (continuerà ad affidarsi per lungo tempo a un Bulbasaur nel suo stadio base, ad esempio) o nel catturarne di nuovi, mentre le sue esperienze agonistiche vivevano di alterne fortune, con alcuni piazzamenti di prestigio (una finale alla Kalos League) ma anche episodi umilianti. Nella Hoenn League Pikachu viene battuto a sorpresa da un Meowth, pokémon sulla carta inferiore, che aggiunge al danno la beffa copiando uno dei suoi attacchi più iconici, codacciaio. Nella Sinnoh League, al fortissimo Tobias bastano due pokémon (uno misterioso e l'altro addirittura leggendario, a onor di cronaca) per annientare il sestetto di Ash.
Da un certo punto di vista, per i fan era impensabile seguire un protagonista così perdente – nel senso che perdeva senza scusanti, semplicemente per colpa delle proprie mancanze o della maggiore abilità altrui. Nel mondo dei Pokémon, fatto molto edificante, non si bara. Eppure, con il tempo, si è rivelata straordinariamente edificante anche la storia di Ash Ketchum, nella sua accettazione delle sconfitte, sempre serena e ragionata, nella sua crescita, nella sua apertura al mondo e all'aiuto di amici e alleati. Ogni sconfitta era un passo in avanti – non necessariamente verso la vittoria, ma verso qualcosa di più importante.
Non arrendersi mai, questo racconta la parabola di Ash Ketchum, ma non lasciare nemmeno che la voglia di vincere ci rubi la gioia di vivere, la bellezza dei nostri sogni. Il punto – forse Ash Ketchum lo capisce, a un certo punto, e inizia a insegnarlo anche a noi – non è “essere il migliore del mondo” (the very best like no one ever was, come recitava la prima sigla americana) ma la migliore versione possibile di noi stessi. Questo potrebbe non essere abbastanza per diventare campioni del mondo, chissà, ma sarà sempre più che sufficiente per la fiducia e l'affetto che ci lega ad amici e compagni, umani o pokémon che siano.
The very best
Sul campo dello Shoot Stadium, intanto, anche il Charizard di Leon e il Pikachu di Ash si stanno affrontando nelle versioni migliori – e più potenti – di loro stessi. Anche il campione in carica si è infine tolto la maschera della strategia attendista: la miglior difesa è l'attacco, è questo in fondo il suo principio, e in ciò non è diverso da Ash.
C'è un'altra cosa che accomuna i due sfidanti. Anche Charizard è il più fedele amico di Leon, come Pikachu lo è per Ash. È stato il suo primo pokémon, la sua prima evoluzione, il suo primo compagno di avventura e di combattimento. Sono cresciuti insieme e si capiscono d'istinto, senza bisogno di parlarsi. Si rispettano, così come Ash ha costruito un meraviglioso rapporto con Pikachu, capriccioso e irascibile, soltanto quando ha imparato a concedergli spazio e libertà, ricevendone in cambio un affetto smisurato.
«Siamo uguali io e te, Leon!» esclama Ash all'apice dello scontro, e i due avversari sorridono mentre mettono alla prova la forza dei rispettivi legami. Quello fra Charizard e Pikachu è uno scontro all'arma bianca, un tributo commosso agli esordi del mondo Pokémon: lottano fino allo stremo delle forze come due pugili all'ultimo round. Pikachu è alle corde, sta per soccombere alla maggiore stazza del rivale, ma trova l'ultima goccia di energia nello stesso Ash – che corre da lui per accertarsi che stia bene, senza preoccuparsi della vittoria – e nel ricordo dei pokémon insieme a cui ha lottato, fino alla primissima squadra di Ash con Squirtle, Bulbasaur, e tutti gli altri.
L'ultimo attacco è un testa a testa, nel vero senso della parola, da cui Pikachu esce vincitore a sorpresa, dimostrando – ma questa non è una sorpresa – di avere il cranio più duro di chiunque altro. E sotto il cielo dello Shoot Stadium, Ash Ketchum diventa campione del mondo per la prima volta dopo venticinque anni – lunghissimi, eppure passati in un baleno.
Avere dieci anni per sempre
I fatti fin qui descritti non sono veri nel senso più comune del termine (sono accaduti nell'ultima puntata della saga animata dedicata ai Pokémon, andata in onda per il momento soltanto in Giappone l'11 novembre scorso), ma è come se lo fossero – e li abbiamo raccontati in questo modo perché, in definitiva, lo sono.
Vero, anzi verissimo è il franchise Pokémon, una macchina multimilionaria che nei suoi oltre venticinque anni di vita, partendo da un'idea di base semplice (dei bizzarri pocket monsters da cercare, catturare, allevare come pet e far combattere fra loro, al grido di gotta catch'em all) si è moltiplicata in svariate forme: videogiochi – con tanto di componente agonistica esports –, cartoni animati, film, gioco di carte collezionabili (anch'esso con un suo fiorente settore competitivo), un imponente merchandising, ufficiale o amatoriale, composto da gadget di ogni tipo, e un'impronta ormai indelebile sulla cultura pop globale che in Giappone, dove i pokémon sono davvero ovunque, si traduce anche in arredo urbano.
E ancora più vero è il cuore di questo franchise, un battito che lega i suoi appassionati e va più in profondità dei fenomeni passeggeri. L'esplosione di valore delle carte collezionabili Pokémon, avvenuta durante la pandemia insieme al loro sdoganamento nella fascia più modaiola della cultura nerd (si veda lo youtuber diventato pugile/professional wrestlerLogan Paul che si presenta sul ring indossando carte dal valore spropositato come fossero gioielli) potrebbe esaurirsi in fretta, e i pupazzi Funko Pop potrebbero finire a prendere polvere sulle mensole, ma quel cuore continua a battere, e a tifare per Ash Ketchum, perché è il simbolo di una generazione, non una semplice reliquia nostalgica degli anni Novanta.
Alcuni trentenni di oggi non hanno mai smesso di seguire i Pokémon; altri sì, ma magari ricordano ancora a memoria il nome dei centocinquantuno pokémon della prima generazione, oppure qualche anno fa, all'uscita del mobile game Pokémon Go, cominciarono a macinare chilometri a piedi su e giù per le rispettive città agitando i telefoni nel vuoto per lanciare poké ball immaginarie. Così come può capitare di incontrare persone cresciute dall'altra parte del mondo ed emozionarsi perché hanno scelto il nostro stesso pokémon iniziale nei primissimi capitoli della saga videoludica, Pokémon Rosso, Blu e Giallo, con centinaia di ore spese con gli occhi appiccicati al minuscolo schermo del Game Boy (emozione che cresce quando il pokémon in questione è il povero, ingiustamente bistrattato Bulbasaur). Quella scelta tra Squirtle, Charmander e Bulbasaur è stato un defining moment per una grossa fetta di tale generazione, e i Pokémon sono un'esperienza formativa condivisa.
È per questo che la vittoria di Ash ai campionati del mondo è importante, ma fa anche paura. È importante che tutto il mondo ne parli, compresa la BBC e riviste come questa, che il Giappone stia vivendo una sorta di celebrazione nazionale, con i maxischermi fuori dalla stazione di Shibuya – uno degli scorci più iconici e riconoscibili al mondo – che hanno trasmesso la cerimonia di premiazione di Ash Ketchum.
Quando Ash e Leon si guardano e dicono «Siamo uguali, io e te!», lo stiamo pensando anche noi. E allora, la vittoria di Ash fa paura perché ci chiediamo: e adesso? C'è la paura che si concluda un cerchio, apertosi e chiusosi con Ash e Pikachu, che la stessa serie animata venga addirittura interrotta, come sembrano suggerire alcuni indizi e le necessità di budget della compagnia. E c'è la paura di svegliarsi una mattina e scoprire che non è possibile avere dieci anni per sempre, che mostrandoci un modo per raggiungere i nostri sogni Ash abbia fatto scoppiare la bolla di quei venticinque anni sospesi – una bolla vitale come l'aria, per una generazione che spesso cerca in altri mondi quelle avventure e quegli amici che ci avevano promesso in questo, ma che non abbiamo mai incontrato. E allora, i festeggiamenti di Shibuya potrebbero sembrare quasi il rito d'addio di una generazione costretta a svegliarsi e a crescere.
Oppure no. Perché la storia di Ash Ketchum, più che la sua vittoria, racconta anche che si può crescere senza mai smettere di avere dieci anni, almeno in una parte dell'animo; che si può poggiare un mattone nel nostro mondo, senza per questo smettere di sognare, e renderlo più simile a quelli che amiamo, ad esempio un mondo dove vivere lo sport con la stessa genuinità e rispetto degli allenatori di pokémon; che si possono apprezzare le avventure che viviamo e gli amici che incontriamo, più veri di quanto talvolta la generazione cresciuta con i Pokémon tenda a pensare.